I l 28 aprile 2017, pochi giorni dopo il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, Marine Le Pen ha rotto gli indugi: “Mi rivolgo agli elettori della France Insoumise (il partito di estrema sinistra del candidato Jean-Luc Mélenchon, nda) per dire loro che oggi bisogna fare muro contro Emmanuel Macron: un candidato agli antipodi rispetto a quello che hanno sostenuto al primo turno”. Più che una mossa della disperazione, si è trattata di una mossa logica, seguita a una campagna elettorale che la leader del Front National ha condotto nelle fabbriche, nelle periferie, tra i piccoli agricoltori. E che soprattutto l’ha vista prevalere nel voto operaio, dove ha conquistato il 37% (laddove Mélenchon si è invece fermato al 24%).
Il tentativo della candidata dell’estrema destra di accreditarsi presso l’estrema sinistra era anche una logica conseguenza delle tante somiglianze, già più volte sottolineate, tra il suo programma e quello di Mélenchon: abrogazione della legge sul lavoro targata Hollande, ritorno dell’età pensionabile a 60 anni, innalzamento del salario minimo (pur se con misure diverse), no alla privatizzazione delle aziende pubbliche, protezionismo fiscale sotto forma di tasse sulle importazioni, rinegoziazione dei trattati europei e uscita dalla NATO.
Lo sfondamento a sinistra, però, non ha funzionato: secondo l’istituto sondaggistico francese IFOP, solo il 13% degli elettori di Mélenchon ha deciso di votare Le Pen (percentuale comunque degna di nota), mentre la metà esatta si è rassegnata a votare per il liberista Macron (vincitore delle presidenziali) e il 37% si è rifugiato nell’astensionismo. Lo steccato ideologico destra/sinistra – seppur ammaccato – ha retto, facendo naufragare i sogni di gloria di Marine Le Pen e rendendo vani i suoi tentativi, che ormai durano da anni, di definirsi “né di destra né di sinistra” (stessa definizione utilizzata in campagna elettorale da Macron e che si sente spesso anche in Italia, mostrando come la corsa post-ideologica appartenga un po’ a tutti).
Ma è proprio il fatto che Marine Le Pen abbia avuto la forza di rivolgersi direttamente all’estrema sinistra – senza timore di alienarsi la base elettorale – a dimostrare quanto sia ammaccata la divisione destra/sinistra. D’altra parte, è stato davvero politicamente più coerente che il voto di Mélenchon sia andato in larga parte al liberista Macron (che tra gli operai si è fermato al 16%)? Macron si può davvero considerare un candidato di sinistra? Su alcuni temi – come l’ambientalismo (sul quale si è speso molto) e i diritti civili – la risposta è senz’altro positiva; ma sul piano economico è difficile giudicare di sinistra chi ha in programma un taglio della spesa pubblica di sessanta miliardi di euro l’anno e la riduzione dal 33% al 25% delle imposte sulle società.
Dal punto di vista economico, la collocazione più naturale di Macron è in quel liberalismo (o neo-liberalismo) al quale possiamo ricondurre buona parte dei candidati moderati che hanno imperversato per l’Europa in questi ultimi anni.
Il fatto che Marine Le Pen si sia rivolta direttamente all’estrema sinistra – senza timore di alienarsi la base elettorale – dimostra quanto sia ammaccata la divisione destra/sinistra.
Il campo liberale attraversa aree ben precise della destra e della sinistra ed è, in fin dei conti, quell’area alla quale Silvio Berlusconi (che agli esordi della sua carriera politica proponeva la “rivoluzione liberale”) si è sempre riferito con il termine “moderati”. La provenienza, ovviamente, conta e le differenze restano, ma sono superabili senza eccessivi traumi, come dimostra la pacifica convivenza delle numerose “grandi coalizioni” che negli anni hanno attraversato (notoriamente) Italia, Spagna e Germania, ma anche Austria, Belgio, Finlandia, Grecia, Irlanda e altri ancora. Grandi coalizioni spesso rese necessarie dal rifiuto delle ali estreme dello scacchiere politico di unirsi ai grandi partiti moderati della loro area (diversa, ma non troppo, la tripolare situazione italiana in cui il populista M5S rifiuta ogni apparentamento rendendo di fatto obbligatorie, nel quadro proporzionale, le larghe intese).
E poco importa che i moderati di destra e di sinistra abbiano ancora le loro differenze: perché se i primi sono più duri su immigrazione e sicurezza, e i secondi (dovrebbero essere) più coraggiosi su diritti civili e ambientalismo, la decennale crisi economica ha concentrato tutta l’attenzione sui temi dell’economia e del lavoro. Così, i liberali di destra e di sinistra hanno avuto gioco facile a unirsi (o addirittura a fondersi, com’è il caso di En Marche di Macron) in nome dell’Europa e del liberismo economico.
Un’unione di fatto che rende più facile la vittoria politica ma che viene pagata a caro prezzo in termini elettorali: le forze moderate si sono ormai alienate le simpatie delle classi più disagiate e vedono i loro consensi complessivi contrarsi elezione dopo elezione. In Italia, le due uniche formazioni che si possono considerare a tutti gli effetti liberali (Partito Democratico e PDL/Forza Italia) sono passate dai 25,6 milioni di voti complessivi del 2008 ai 15,9 milioni del 2013. Se si votasse oggi (considerando i sondaggi e l’astensione prevista) non andrebbero oltre i 13,7 milioni.
Situazione non troppo dissimile in Francia: i due grandi partiti (UMP/Les Républicains e PSF) che solo cinque anni fa mettevano assieme venti milioni di voti, oggi sono scesi a 9 milioni. Unendo tutte le forze definibili (con qualche forzatura) come liberali, si scopre che il trio Hollande/Sarkozy/Bayrou, nel primo turno del 2012, aveva conquistato 23,1 milioni di voti; il trio Hamon/Macron/Fillon si ferma a 18 milioni. Tutti voti raccolti dalle ali estreme e “populiste” di Le Pen (quasi un milione e mezzo di voti in più) e di Mélenchon (oltre 3 milioni di voti in più).
Le forze moderate si sono ormai alienate le simpatie delle classi più disagiate e vedono i loro consensi complessivi contrarsi elezione dopo elezione.
I due turni di elezioni legislative francesi seguiti alle presidenziali hanno ampiamente sgonfiato il Front National (che ha preso solo il 13% dei voti al primo turno e conquistato otto seggi al secondo), così come la France Insoumise di Mélenchon (meno 8 punti percentuali, nel primo turno, rispetto alle presidenziali) e anche il partito Repubblicano di Fillon (che ha lasciato per strada cinque punti). L’unico a conquistare voti è stato En Marche di Macron (assieme agli alleati MoDem), salito al 32% e in grado di conquistare la maggioranza assoluta.
Questa inversione di tendenza rispetto alle presidenziali, però, non deve essere fraintesa con un cambiamento sostanziale della dinamica in atto. E non solo perché, per fare un esempio, già nel 2012 il Front National era ampiamente sceso nei consensi nel passaggio tra le presidenziali e le legislative (dal 18% al 13%; il che non gli ha comunque impedito di diventare primo partito nelle seguenti Europee, elezioni fondamentali ai fini del nostro discorso), ma soprattutto perché la struttura stessa delle elezioni francesi è pensata affinché le legislative rafforzino il presidente appena eletto (e quindi in piena luna di miele), aiutandolo a conquistare una salda maggioranza parlamentare che lo aiuti a governare con stabilità (allo stesso modo, non si deve dare eccessivo peso ai risultati delle recenti amministrative italiane: elezioni in cui i temi fondamentali di oggi – Europa, immigrazione e politiche del lavoro – hanno un peso secondario se non irrilevante, rispetto a questioni di pubblica amministrazione locale, e in cui è quindi possibile riproporre con successo i vecchi schemi).
I dati del primo turno delle presidenziali francesi (quelli che meno subiscono distorsioni), confermano quanto visto (pur nelle sue particolarità) anche nel referendum costituzionale italiano e (in maniera più controversa) nel referendum sulla Brexit: i partiti liberali sono ormai appannaggio degli “ottimisti”, di chi guadagna mediamente bene o comunque è soddisfatto della propria posizione sociale o delle prospettive che vede davanti a sé. Ma dieci anni di crisi economica hanno ingrossato enormemente le fila dei pessimisti e degli arrabbiati che, anno dopo anno, stanno ampliando gli spazi elettorali dei partiti populisti, di destra o sinistra che siano.
Stando così le cose, non è per niente stupefacente che Marine Le Pen si rivolga agli elettori di estrema sinistra: il nemico non è più nel campo opposto, ma al centro. L’avversario non è la sinistra radicale, ma il liberalismo; la frattura politica fondamentale oggi è l’Europa governata dall’establishment. Per Marine Le Pen, “il nemico del mio nemico è mio alleato”. Tanto più se, lungo la strada, si scopre che ci sono anche parecchi aspetti che uniscono le due estremità: l’anti-atlantismo e l’anti-capitalismo (da sempre), e poi l’importanza della sovranità nazionale (riscoperta da parte della sinistra), la contrarietà all’euro e anche il problema dell’immigrazione (visto da sinistra, in chiave marxista, come “esercito industriale di riserva” del grande capitale); tutto condito da una consistente spruzzata di complottismo.
Le due estremità sono unite da diversi aspetti: l’anti-atlantismo e l’anti-capitalismo, la contrarietà all’euro, l’importanza della sovranità nazionale e il problema dell’immigrazione.
Tra i vari punti di contatto tra destra e sinistra populiste, il più interessante è quello della sovranità nazionale. Quando e perché la sinistra radicale, da sempre legata a concetti internazionalisti, ha riscoperto il valore della nazione? “Che la sovranità dello stato-nazione sia precondizione (…) del proprio stesso essere cittadini appartenenti a una comunità politica capace di decidere per il proprio futuro e per gli assetti e le strutture economico-sociali che si vogliono prevalenti, è cosa così ovvia che non dovrebbe neanche essere detta”, si legge sul sito Comunismo e Comunità. “Che la sinistra italiana sia stata fagocitata dall’ideologia ‘globalista’ e ‘unioneuropeista’ da ormai più di vent’anni, scambiando forse l’internazionalismo con la globalizzazione capitalistica e la tecnocrazia sovranazionale, è una tragedia storica i cui frutti si sono ampiamente manifestati da tempo”.
Sulla questione della sovranità nazionale si sofferma anche un comunista duro e puro come Marco Rizzo: “Siamo assolutamente contrari all’Europa unita. Molti dicono che bisogna riformare questa Europa, che bisogna creare un’unione politica e non solo economica, ma noi pensiamo che l’Unione non sia riformabile, perché frutto di un progetto preciso che risponde agli interessi del Grande Capitale. Mettiamocelo in testa, questa è l’Europa delle grandi banche, dei grandi capitali e non sarà mai l’Europa dei popoli”. In chiusura, come salta all’occhio, Rizzo utilizza le stesse identiche parole sentite più volte da Matteo Salvini o Giorgia Meloni.
Ovviamente, riviste online come Comunismo e Comunità o personaggi politici come Marco Rizzo sono dei punti di riferimento ascoltati solo da una sparuta minoranza di elettorato, insignificante dal punto di vista numerico. Eppure, discorsi simili sulla sovranità si possono sentire da figure più mainstream come Stefano Fassina, ex PD (oggi Sinistra Italiana) e soprattutto ex viceministro dell’Economia. Sostenitore a corrente alternata dell’uscita dall’euro, il deputato ha dichiarato in una lettera al Corriere che gli ostacoli insuperabili della moneta unica e dell’unione vanno ricercati nei “caratteri profondi, morali e culturali dei popoli europei e gli interessi nazionali degli Stati”.
Se per la sinistra alternativa le radici dell’anti-europeismo vanno cercate nella sovranità popolare, come opposizione alla “tecnocrazia sovranazionale”; per la destra radicale, le ragioni per recuperare la sovranità perduta trovano nell’identità nazionale parte integrante del suo DNA. La cosa più importante, però, è che la ricetta è la stessa: uscire dall’euro e recuperare il controllo monetario. E così, oltre al comune nemico del liberalismo e del capitalismo, a unire le categorie alternative della politica europea troviamo anche uno degli aspetti più importanti dei nostri giorni: il rifiuto della moneta unica e del progetto europeo tout court.
Con l’avvento di una generazione meno legata ai vecchi schemi ideologici, il superamento della dicotomia destra/sinistra potrebbe portare alla nascita di movimenti capaci di sintetizzare forze politiche oggi opposte.
Ovviamente, sottolineare i punti di contatto non significa in alcun modo ritenere che estrema destra ed estrema sinistra siano uguali, ma solo che le tendenze storiche e politiche della nostra epoca, il graduale superamento della dicotomia destra/sinistra in direzione europeismo/populismo, l’avvicinamento delle forze liberali e moderate di destra e di sinistra potrebbero, con l’avvento di una nuova generazione meno legata ai vecchi schemi ideologici, portare alla nascita di movimenti in grado di fare una sintesi di forze politiche che oggi sono obbligate a guardarsi in cagnesco.
“La convergenza al centro contro i populismi non può durare in eterno”, scrivono su Internazionale i ricercatori Marta Fana e Lorenzo Zamponi. Non è detto: potrebbe durare in eterno se i populismi di destra e di sinistra si uniranno a loro volta in ottica anti-liberale, dando ufficialmente forma a ciò che finora è rimasto più che altro un vagheggiamento limitato alle zone più estreme della politica europea (ma non in Italia, come vedremo più avanti): il rossobrunismo.
D’altra parte, perché mai le due ali estreme dovrebbero continuare a restare separate, consegnandosi a inevitabile sconfitta? Il rossobrunismo, allora, si configurerebbe come la necessità di fare blocco contro la fusione delle forze liberali (Macron, in questo, è davvero un precursore). Le richieste di un “populismo di sinistra” da una parte e dall’altra di una “destra che deve diventare sempre più di sinistra” (come ebbe a dire l’ex Alleanza Nazionale Roberta Angelilli, in gioventù vicina a Terza Posizione), potrebbero (il condizionale è d’obbligo) sfociare tra qualche tempo nel proliferare di forze unitarie anti-establishment che, lungi dal definirsi rossobrune, potrebbe però attingere indifferentemente agli elettorati che oggi si rivolgono all’estrema destra e all’estrema sinistra.
L’alternativa, comunque, esiste, ed è oggi incarnata dalla politica britannica che – dopo una lunga parentesi liberale (incarnata, in tempi recenti dalla segreteria del Labour di David Milliband e da David Cameron alla guida dei conservatori) – è tornata su posizioni più tradizionali, dando il partito laburista in mano a Jeremy Corbyn e il partito conservatore in mano alla securitaria Theresa May. Un ritorno all’antico che ha immediatamente cancellato l’UKIP (orfano di Nigel Farage), i cui elettori, stando a quanto scrive il Guardian, si sono rivolti in massa ai laburisti rossi di Corbyn.
La lezione britannica – che potrebbe far riflettere profondamente chi continua a ritenere valido il mantra del “si vince al centro” – non è l’unico ostacolo che deve fronteggiare il rossobrunismo, una definizione che viene solitamente considerata come un insulto. Lo dimostra il fatto che tutte le figure ritenute appartenenti a questa galassia (da Stefano Fassina ad Alberto Bagnai, da Giulietto Chiesa allo scomparso Costanzo Preve e tanti altri ancora) rifiutano sdegnosamente l’etichetta.
Perché le due ali estreme dovrebbero continuare a restare separate, consegnandosi alla sconfitta? Il rossobrunismo si configurerebbe come la necessità di fare blocco contro la fusione delle forze liberali.
Esiste una sola eccezione: Diego Fusaro. Per quanto si tratti di un personaggio spesso criticato (se non sdegnato) da larga parte del mondo intellettuale italiano, può essere interessante vedere come lui stesso – ormai diventato, di fatto, il volto pubblico del rossobrunismo – inquadri il problema: “Rossobruno è chiunque – consapevole che l’antagonismo odierno si basi sulla verticale contrapposizione tra servi e signori e non su vane divisioni orizzontali – oggi rigetti destra e sinistra”, ha spiegato in un’intervista. “Oggi chiunque propugni un’economia di mercato sovrana, viene automaticamente chiamato rossobruno. (…) Rossobruno è colui che critica il capitale, che vuole una riorganizzazione in termini di sovranità e si pone in contrasto al capitalismo”.
Non è una storia nuova, anzi: basti rievocare le origini di sinistra del primo fascismo italiano, la composizione ricca di ex socialisti ed ex comunisti delle SA tedesche o le idee del sovietico Karl Radek, secondo il quale era necessaria un’unione dei comunisti con i nazisti in funzione “anti-pace di Versailles” (ma ci sarebbero tantissime altre personalità “rossobrune ante litteram” da scovare nei primi decenni del Ventesimo secolo). I veri precursori del rossobrunismo, però, possono essere identificati in quei gruppi extraparlamentari che all’epoca della contestazione venivano etichettati come nazimaoisti – oggi passano sotto il nome di comunitaristi – e che sono il vettore principale attraverso il quale nei movimenti di estrema destra come Forza Nuova o CasaPound è entrata la spiccata attenzione per le questioni sociali. “Oggi, scomparso il problema politico del socialismo, questi si sono confusi con la retorica anti-globalizzazione”, si legge sul sito antagonista di sinistra Militant. “Hanno iniziato a usare linguaggi a noi affini e a dotarsi di una simbologia para-socialista che li rende facilmente fraintendibili”.
Abbiamo quindi una sinistra che accoglie elementi di destra (sovranismo e critica nei confronti dell’immigrazione) e una destra che sposa battaglie di sinistra (l’attenzione al sociale e anche l’ambientalismo, come dimostra la fascinazione nei confronti della “decrescita felice” di Serge Latouche). A questi aspetti possiamo unire alcune radici storiche comuni e soprattutto la convergenza al centro del comune nemico (le forze liberali) che potrebbe costringerli a un’unione futura.
E allora, perché tutto ciò non avviene? Perché la Le Pen riesce a sfondare tra gli operai (così come fa Salvini) ma non è in grado di raccogliere i voti di chi si considera di sinistra? Probabilmente, perché lo steccato ideologico destra/sinistra non può essere superato, per definizione, da forze che hanno le loro radici antiche proprio in questa divisione.
Una vera forza anti-liberale capace di raccogliere voti da entrambi i lati degli schieramenti (contribuendo al consolidamento della nuova frattura establishment/populismo) e fare così concorrenza all’unione delle forze liberali (divise da steccati più facilmente aggirabili) può sorgere solo in chiave post-ideologica. In questo senso, è un’impresa che non può riuscire al Front National come non può riuscire a Syriza, forze troppo legate alla tradizione. Può però riuscire, e infatti sta riuscendo, a un partito nato già post-ideologico come il Movimento 5 Stelle.
Una vera forza anti-liberale capace di raccogliere voti da entrambi i lati degli schieramenti può sorgere solo in chiave post-ideologica.
Il movimento fondato da Beppe Grillo potrebbe cadere vittima delle sue enormi e vaste contraddizioni – e anche, come si è intravisto nelle ultime amministrative, di una classe politica spesso non all’altezza – ma oggi come oggi conserva un enorme vantaggio su tutti gli altri: è l’unica vera forza populista e anti-liberale non più definibile con le vecchie categorie, ma già definibile con le nuove. Una forza capace di unire temi sociali, ambientalismo, durezza nei confronti dell’immigrazione (fino a opporsi, di fatto, alla legge sullo ius soli), critica all’establishment e ai poteri forti, derive complottiste, ritorno alla lira e pure una certa fascinazione geopolitica per l’uomo forte Vladimir Putin (aspetto che farebbe la gioia del rossobruno nazional-bolscevico Aleksandr Dugin, teorico dell’euroasianesimo).
Se le forze rossobrune “vere” (come i comunitaristi) sono confinate nelle nicchie più nascoste della politica italiana; se chi propugna il superamento della destra e della sinistra deve costantemente fare i conti con il passato (come Marine Le Pen e, in parte, la Lega Nord), ecco che l’unione dell’elettorato di destra e di sinistra radicale in nome del populismo e della rabbia nei confronti dei liberali, legati inestricabilmente ai poteri forti, può riuscire a chi, come il M5S, non deve scontare un passato ideologico e può contare su una percentuale elevatissima (42%) di elettori che si considerano “esterni” alle vecchie categorie politiche.
E allora, chiariamo una cosa: utilizzare l’etichetta “rossobrunismo” è utile perché fa subito capire di che cosa si sta parlando; allo stesso tempo, però, non si può fare riferimento ai vecchi steccati ideologici per individuare il futuro della politica alternativa. Il rossobrunismo è ancorato fin dal nome a categorie che stiamo consegnando alla storia. È improbabile la nascita di un partito che includa Stefano Fassina e Giorgia Meloni, o Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, insieme in nome di ciò che li unisce e al netto di ciò che li divide. L’unione in chiave post-ideologica delle ali estreme dell’elettorato potrebbe però diventare realtà grazie a movimenti populisti post-ideologici che mettano in primo piano quegli stessi aspetti che accomunano la destra radicale e la sinistra alternativa, senza minimamente doversi curare del retaggio storico-politico.
Il Movimento 5 Stelle è la prima forza di questo tipo, capace di unire il populismo di destra e di sinistra e di dimostrare quali siano le potenzialità elettorali di un progetto simile. Per questa ragione è assurdo il dibattito sul “M5S di destra e di sinistra”. Il Movimento 5 Stelle è oltre le vecchie categorie ed è già legato alle nuove, trovandosi così in posizione di netto vantaggio sulle vecchie forze radicali. Chiamarlo rossobrunismo può essere comodo, ma è un termine che lega al passato ciò che invece guarda al futuro.