H anno battezzato come “la Rivoluzione del Sorriso” la serie di enormi proteste di massa che dal febbraio 2019 hanno smosso l’intera Algeria in risposta alla candidatura per il quinto mandato del presidente Abdelaziz Bouteflika. Le manifestazioni hanno portato in strada milioni di persone, una folla pacifica e giovane (l’età media in Algeria è di 28 anni) e, dopo aver ottenuto la rinuncia di Bouteflika alla corsa al nuovo mandato, non si sono fermate lì. Queste proteste hanno mostrato la profonda distanza tra la popolazione e il governo, guidato, a detta di molti, unicamente da interessi economici e da una profonda complicità con gli apparati militari. Nelle manifestazioni del venerdì, gli algerini chiedevano risposte ai problemi economici, di disoccupazione, all’enorme corruzione che impoverisce il paese. Per la stampa questa è stata la “primavera algerina”.
È l’ultima delle cosiddette “primavere” del nord Africa iniziate nel dicembre 2010, quando nella vicina Tunisia Mohamed Bouazizi si dà fuoco di fronte al palazzo del governo locale a Sidi Bouzid. La primavera algerina viene interrotta dall’arrivo della pandemia, le sorti dei manifestanti dimenticate dalla cronaca internazionale, dalla politica estera europea che oggi vede l’Algeria come un alleato importante per via del suo gas naturale.
A quasi cinque anni dall’inizio dei lockdown in Europa e nel mondo, la cesura provocata dalla pandemia ha preso ad assumere confini sbiaditi e imprecisi. Dividiamo ancora gli eventi tra prima e dopo il 2020, ma sempre con maggiore fatica. Eppure nel decennio precedente questo tipo di manifestazioni – orizzontali, che portano milioni di persone per strada, perlopiù senza leader – erano frequenti: abbiamo parlato di primavera araba e di Occupy, abbiamo visto piazze rovesciare governi o venire brutalmente represse. Cosa ne è stato di questo momento di sollevazione popolare in tutto il mondo?
Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione di Vincent Bevins, prova a rispondere a questa domanda. Uscito per Einaudi nell’autunno del 2024 (trad. ita di Maddalena Ferrara), l’intelligente e approfondita analisi del giornalista statunitense con base in Brasile si potrebbe dire che arriva alla conclusione annunciata dal sottotitolo: le proteste di questo decennio, che preannunciano profondi cambiamenti, in molti casi hanno ottenuto risultati diversi dagli obiettivi che si erano prefissate. In alcuni le cose sono oggi peggio di prima. Cosa è successo? Perché queste rivolte non hanno provocato una rivoluzione duratura, nonostante la sensazione di vittoria dei manifestanti e il favore e l’ottimismo della stampa occidentale?
Perché queste rivolte non hanno provocato una rivoluzione duratura, nonostante la sensazione di vittoria dei manifestanti e il favore e l’ottimismo della stampa occidentale?
Il libro esamina dieci esplosioni di protesta di massa: in Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud e Cile. “Anche se le proteste di Occupy Wall Street, Spagna e Grecia sono state importanti per il resto del decennio, non hanno scosso le fondamenta delle rispettive strutture politiche né hanno generato una rottura istituzionale”, scrive Bevins. Decide infatti di focalizzarsi sui movimenti che sono riusciti a destabilizzare o rovesciare i governi, escludendo quelli occidentali che si rivelano troppo stabili per essere messi in discussione dalla piazza. Per il suo libro, Bevins ha realizzato più di duecento interviste in dodici paesi: “ho parlato con gli organizzatori dei movimenti di piazza, con molti politici che hanno avuto a che fare con loro e con altre persone coinvolte in vario modo” orientando queste conversazioni attorno alle domande: “Cosa ha innescato la protesta? Quali erano i suoi obiettivi? Sono stati ottenuti? Se non lo sono stati, perché?”.
Se noi bruciamo è un progetto di ricostruzione di un decennio di rivoluzioni mancate, ma anche una ricostruzione storica delle modalità di protesta, dei principi ideologici che le hanno guidate e dei limiti che hanno espresso, a cui dà il nome di orizzontalismo e prefigurazione, insieme alle condizioni materiali che hanno contraddistinto questo decennio, come l’arrivo dei social media, fondamentale per l’incremento esponenziale delle persone nelle piazze.
In molti di questi paesi, infatti, si è assistito alle rispettive manifestazioni più grandi della storia, alla emersione di movimenti di massa mai visti prima, che, però, si sono poi dimostrati incapaci di guidare il popolo in una fase successiva, di tradurre le vittorie in obiettivi concreti. La caduta di Mubarak in Egitto non apre alla democrazia invocata e prefigurata da piazza Tahrir, le proteste di Gezi Park non vedono una vittoria dei gruppi avversi a Erdoğan, che del resto è ancora alla guida del paese, in Brasile il Movimento Passe Livre viene scalzato dai nazionalisti che portano, infine, alla destituzione di Dilma Rouseff e all’elezione di Jair Bolsonaro, una figura antitetica ai principi che animavano le strade di San Paolo. Come è possibile?
Dichiara Lucas “Verdura” Monteiro, organizzatore delle proteste brasiliane: “Avevamo pianificato ogni singolo dettaglio. Fino al momento in cui saremmo riusciti a ottenere il nostro obiettivo. Ma non avevamo assolutamente alcun piano per quello che sarebbe successo dopo”.
A lui fa eco l’egiziano Hossam “3arabawy” el-Hamalawy, che racconta che qualcuno aveva chiesto “cosa faremo una volta arrivati a piazza Tahrir?” tutti erano scoppiati a ridere, pensando che non sarebbe mai successo.
Avevamo pianificato ogni singolo dettaglio. Fino al momento in cui saremmo riusciti a ottenere il nostro obiettivo. Ma non avevamo assolutamente alcun piano per quello che sarebbe successo dopo.
In Se noi bruciamo Bevins si interroga anche sul senso di interrelazione tra i movimenti, sulle dichiarazioni come “Turchia e Brasile sono una cosa sola” o “Piazza Tahrir è ovunque” e sull’effettiva diversità dei panorami politici di questi paesi, su come la riproduzione delle immagini online conduce, oltre che a una solidarietà con movimenti in altri paesi, a una riproduzione delle medesime tattiche e strategie in tutte le rivolte. “Aveva davvero senso dichiarare che c’era una ‘primavera’ in Brasile o nello stesso mondo arabo?” si domanda il giornalista. Analizzando inoltre la copertura mediatica di queste proteste e il significato assegnato loro dalla stampa, Bevins tenta di tradurre questi dieci anni in un panorama storico da cui poter trarre degli insegnamenti per il presente e il futuro delle rivolte. L’ho incontrato a novembre per parlarne.
I decenni sono certamente una convenzione umana, ma è vero che tra il 2010 e il 2020 hanno manifestato più persone che mai nella storia. Concentrandoti sui movimenti che hanno prodotto un cambiamento sostanziale nel panorama politico del loro paese, anche se non sempre nella direzione sperata, nel tuo libro tracci una linea tra le proteste in Nord Africa, in Medio Oriente, in Sud America fino a Hong Kong. Come giornalista hai seguito alcuni di questi eventi da vicino mentre stavano accadendo, ma quando hai iniziato a vedere questi eventi non solo come connessi, ma come qualcosa da cui poter trarre una lezione?
Scrivi che le due principali caratteristiche delle proteste di questo decennio sono l’orizzontalità, la prefigurazione e l’uso dei media visivi. Questi movimenti hanno messo in scena, ossia manifestato, il cambiamento che volevano vedere nel potere, a dimostrazione che un altro mondo è possibile. Come noti tu stesso, però, nessuna lotta politica è un automatismo, ma è condizionata nei tempi e nelle modalità dalle contingenze storiche. Quindi, da dove arrivano l’orizzontalità e la prefigurazione?
Mi riferisco qui alle grandi proteste di massa che appaiono in maniera apparentemente spontanea, senza leader, coordinate digitalmente e strutturate in maniera orizzontale. Ognuno di questi elementi può essere rintracciato storicamente; per il coordinamento digitale è semplice: con i social media è diventato facile far riunire molte persone in un solo spazio. Negli anni Sessanta, o Trenta o nel Diciannovesimo secolo semplicemente non esistevano e di conseguenza ci voleva molto più impegno per organizzare una rivolta o si era obbligati a raggiungere le persone in un altro modo.
Nel caso dell’organizzazione orizzontale e della prefigurazione, questi elementi hanno una storia ideologica più lunga, che può essere riportata anche alla teleologia cristiana – ma del resto, cosa può non esserlo! È nella sinistra antiautoritaria e nei movimenti di alterglobalizzazione, però, che questi due elementi si fanno più forti e si fondono in un’idea che può essere sintetizzata nel motto sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Questo significa che il movimento e le proteste non sono solo un mezzo, ma che le strategie che vengono utilizzate devono essere simmetriche ai fini. Parliamo del resto di un momento in cui l’orizzontalità diventa molto concreta, perché quando ti trovi in situazioni come in una piazza o nelle strade di San Paolo in cui effettivamente nessuno è più in alto di altro, non c’è modo che questo movimento individui una gerarchia o una struttura rappresentativa. Come scrivo alla fine del libro, due elementi combinati tra loro rappresentano una sorta di affinità elettiva per il movimento.
Rispetto poi all’orizzontalismo, che non è solo orizzontalità, nello specifico è legato alla sinistra di inizio Ventesimo secolo e dichiara che non solo che è possibile produrre una struttura paritaria, ma che questo approccio è moralmente superiore. Nell’approccio orizzontalista non ci devono essere differenze tra chi protesta, neppure nelle mansioni che si svolgono. Oggi alcune delle persone che ho intervistato riconoscono di aver adottato questo approccio in modo fin troppo dogmatico, per esempio credendo che non si possano prendere decisioni a patto che non si sia tutti d’accordo.
In sintesi, c’è una affinità ideologica in questi gruppi e una tradizione intellettuale preesistente a cui si affiliano, a cui si aggiungono le condizioni materiali degli anni Dieci, per cui in una società atomizzata e neoliberale diventa molto facile far sì che le persone vedano un post online, ma molto più difficile creare una struttura su cui costruire un’organizzazione che può agire in modo collettivo al cambio delle circostanze.
Parlando dei social e dei media digitali più in generale è chiaro che abbiano connotato le proteste, anche perché prima non esisteva niente di simile. Anche gli stessi media tradizionali, come la stampa o la televisione, sono stati strumentali alla crescita esponenziale di questi movimenti, permettendo a chi organizzava le proteste di raggiungere un pubblico più ampio che mai, con crescita esponenziale del movimento. Davvero, però, i social hanno avuto l’impatto che assegniamo loro? Certo hanno permesso la creazione di un pubblico nuovo, ma hanno permesso ai movimenti di potersi rappresentare e definire senza dover ricorrere alla stampa tradizionale?
Il sociologo turco Zeynep Tüfekçi ha dichiarato che in passato potevano volerci anni per mettere insieme le famose azioni che sono state così importanti per ottenere l’eguaglianza razziale negli Stati Uniti, ma ciò che succedeva è che in quegli anni per questione di forza maggiore si creavano le relazioni umani necessarie a produrre strutture durevoli nel tempo, mentre negli anni Dieci un milione di persone può vedere un post per una protesta alle dieci di mattina e scendere in piazza alle due del pomeriggio. Dunque i social permettono a molte più persone di venire a conoscenza delle proteste e per le persone in tutto il mondo di scoprire cosa accade in un luogo specifico. Questo permette o no a chi organizza le proteste di raccontarsi? Di dire il suo punto di vista? In questo contesto di effettiva orizzontalità, hai gruppi di diverse persone che sono lì per i motivi differenti e personali e che producono filmati e racconti dell’evento, ma non c’è nessuno a cui venga assegnato il compito di parlare a nome del movimento.
E non va sottovalutato il fatto che la stampa e la televisione sono così forti che impongono in ogni caso la loro narrazione degli eventi.
Mandano quelle immagini in televisione dichiarando che è quello che la piazza chiede, che guarda caso è esattamente quello che le élite vogliono. Il punto è che non c’è nessuno nel movimento che può contraddire quelle parole, affermare che i loro principi guida sono di sinistra, o che la persona che è stata scelta solo perché dice quello che la CNN vuole sentire.
E questo nelle situazioni in cui comunque le testate, in particolare quelle occidentali, erano favorevoli alle proteste.
In un certo senso è proprio l’incredibile numero di persone che scendono a manifestare a diventare l’elemento caratterizzante di queste proteste, perché in un certo modo dimostra in modo inconfutabile la ragion d’essere della manifestazione. Eppure i gruppi che organizzano le proteste restano piccoli e, nel contesto dell’orizzontalismo e della prefigurazione, questa crescita esponenziale finisce per limitare l’operato e le possibilità delle manifestazioni – che poi forse è la tesi del tuo libro. Le masse insomma mi sembrano diventare mezzo e fine delle proteste.
E per venire alla tua domanda, la mia ricerca alla fine mi porta a dire che questi movimenti sostanzialmente spontanei, senza leader, strutturati in modo orizzontale e coordinati digitalmente sono perfetti per portare le persone in piazza. E che questo incremento quantitativo produce delle opportunità.
Lo stesso vale per gli elementi prefigurativi, importanti nella prima fase per dimostrare alle altre persone che a) si tratta di qualcosa a cui vogliono partecipare e b) dimostrare al mondo che quello che si sta chiedendo è effettivamente positivo.
Tuttavia una volta che questa enorme massa di persone è per strada e genera quelle opportunità, si è visto che questo tipo di protesta non è riuscita a sfruttarle a proprio vantaggio. E così in molti paesi quello che è accaduto dopo è stato dettato da chi, al contrario, è riuscito a volgere a proprio vantaggio questi vuoti di potere. Molto spesso si tratta di gruppi non animati dall’orizzontalità, né dediti alla prefigurazione, ma piuttosto eserciti, o forze reazionarie, ultras di calcio con precisi indirizzi ideologici, o forze imperiali dell’area o le grandi potenze del mondo, come gli Stati Uniti o la NATO.
Le rivolte di cui ti occupi riescono a rovesciare e destabilizzare i governi, ma non si preparano per il giorno dopo. Accade tutto troppo velocemente, perché possano elaborare una strategia di azione? Perché non riescono a sfruttare questi vuoti di potere, che pure chiamano?
Nell’esempio del Brasile, il gruppo orizzontalista del Movimento Passe Livre (nato contro l’incremento del biglietto del trasporto pubblico, n.d.I.) che ha dato vita alle rivolte di giugno 2013 insisteva sull’assoluto consenso del gruppo per poter agire, che è difficile ma possibile da ottenere tra trenta o quaranta persone, ma su una scala di milioni di persone non è fattibile.
Non si è trovato un modo di elaborare una serie di risposte comuni di fronte a opportunità e problemi inaspettati. E dunque questo tipo di proteste non può farsi strada in quel vuoto di potere o rispondere alla domanda su come formare un nuovo governo o persino prendere parte a una fase di transizione rivoluzionaria. Il libro si concentra proprio su chi invece sfrutta questi momenti.
E nel caso del Brasile non parliamo di un paese con un governo autoritario, né di un governo che viene improvvisamente rovesciato, anzi, Dilma Rouseff sembra reagire positivamente di fronte alle proteste.
Se vogliamo fare un esempio forse un po’ estremo, prendiamo Fidel Castro e Che Guevara che riescono con la loro guerriglia prima a bloccare e poi a rovesciare il governo di Batista e che a quel punto o non riescono o non vogliono formare un nuovo governo. Cosa pensi sarebbe successo? Probabilmente quel che restava del vecchio esercito avrebbe negoziato dietro le quinte con le élite economiche e i rappresentanti del capitale cubano e statunitense per formare un regime identico a quello di Batista, ma con un altro leader. Anche nei casi in cui la volontà è riformista, per esempio nel caso di lavoratori portuali o degli operai che scioperano, come nell’Inghilterra o l’Italia di inizio Novecento: se, quando il capo della fabbrica chiedeva cosa volevano, non ci fossero stati sindacati a elaborare la richiesta di un salario più alto o altri benefici, lo sciopero si sarebbe limitato a continuare a oltranza e il capo avrebbe o deciso di aspettare che le cose rientrassero o chiamato delle forze repressive. Al di là dell’eventuale disponibilità di chi è al vertice, servono obiettivi.
In questo periodo diventa evidente il sentimento di avversione popolare nei confronti dell’establishment politico. Mi pare che questa sia la grande lezione di questo decennio, solo che a usarla sono state le destre. Negli Stati Uniti Trump ha vinto un secondo mandato e, nonostante fosse alla terza campagna presidenziale, ancora si presenta come un outsider. Non mi viene in mente un leader più organico alle élite finanziarie di Macron, eppure anche lui in Francia ha rappresentato una alternativa di cambiamento; per non parlare di Bolsonaro che è stato trent’anni in parlamento e si è presentato come un candidato anti-politico. Pensando al tuo libro, vorrei chiederti se non è la limitata efficacia di questi movimenti che ha ulteriormente nutrito la disillusione nei confronti della politica?
Nelle rivolte degli anni Dieci vengono messe in atto una serie di tattiche che rigettano la rappresentazione di per sé, che è un approccio comprensibile in questa fase storica, in cui tutte le strutture rappresentative sono crollate e la rappresentazione si è trasformata in un processo arduo, per cui alla fine la soluzione è rifiutarla. Nelle sue istanze più estreme, poi, l’orizzontalismo è un approccio anti-rappresentativo, per cui ognuno deve avere una voce, che ha pari valore alle altre. Nelle strade riecheggia lo slogan “Non ci rappresentate” rivolto ai leader politici. Questo tipo di proteste è, insomma, anche una risposta alla crisi della rappresentazione. Per citare un sociologo ucraino, Volodymyr Ishchenko, il circuito delle rivoluzioni “mancate” che emergono in risposta alla vera crisi della rappresentazione – o dell’egemonia nel caso dei paesi post sovietici – semplicemente riproducono e rendono più profonda la crisi.
Queste proteste hanno reso chiaro il desiderio di cambiamento, ma le tattiche e le strategie messe in atto non hanno risposto a questo problema, perché non hanno creato un nuovo sistema di strutture né hanno ricostruito i sistemi rappresentativi in un modo solido, positivo e democratico – anche se penso che in realtà che lo volessero.
Una risposta, molto negativa, a questa crisi la vediamo invece nel populismo di destra degli Stati Uniti e in Europa occidentale. Negli anni Dieci diventa evidente che le persone vogliono eleggere chi si presenta in opposizione alla classe politica, come outsider: vedi Obama, o Arnold Schwarzenegger che, in quanto attore, si pensava dovesse essere estraneo al sistema. Adesso con l’invasione russa ha assunto una posizione diversa, ma anche Zelensky, in precedenza attore, si è presentato al tempo con un candidato anti-politico.
Queste risposte dell’antipolitica, di cui il populismo di destra di cui Bolsonaro e Trump fanno chiaramente parte, hanno riprodotto poi le medesime strutture. Il modo in cui rigettano la politica sfocia rapidamente nell’autoritarismo più palese e nel rifiuto della democrazia. È come se dicessero: se la rappresentazione non funziona più, eliminiamola; io sarò il leader e non dovrò rispondere a nessuno, datemi il potere. E questo storicamente è il tipo di crisi che produce movimenti pericolosi.
Non è un contesto facilmente risolvibile, ma lascia aperta la domanda su come rispondere, attraverso un approccio concreto, a questa crisi. Non sarà semplice o rapido ricostruire il sistema rappresentativo in un modo che risulti veramente democratico e probabilmente radicalmente diverso da quella che attualmente abbiamo.
È anche il tema di Immediacy. The Style of Too Late Capitalism di Anna Kornbluh (Verso, 2024): dice la teorica che la nostra società è dominata dalla sensazione di immediatezza, cioè da un senso di velocità e desiderio di trasparenza, che elude o rifiuta qualsiasi organismo di mediazione. Non crediamo in strutture rappresentative che fungano da intermediari, come i sindacati o i partiti, e quindi ci troviamo in questo paradosso per cui non pensiamo che nessun altro possa fare le nostre veci e vogliamo, però, sentirci rappresentati, vederci nel mondo.
Adesso che ne parliamo, ho l’impressione che quel sentimento di interconnessione, di solidarietà dichiarata tra le proteste – lo striscione a San Paolo con su scritto “L’amore è finito! La Turchia è qui” e la risposta da Istanbul “Todo Lugar é São Paolo!” – abbia a che fare con un desiderio di rappresentazione, di rappresentazione orizzontale e vicendevole tra questi diversi movimenti, un sentimento di appartenenza a una stessa umanità, generazione, agli stessi ideali. Questo in un contesto in cui gli scenari politici, dall’Egitto, alla Turchia, al Brasile alla Siria a Occupy Wall Street, sono chiaramente molto diversi.
Grazie ai progressi tecnologici, potevamo vedere cosa succedeva a Tahrir, lasciarci ispirare, ma anche entrare subito in dialogo con chi era in quella piazza, che fossimo in Italia o in Giappone. Questo dialogo era cruciale: doveva esserci uno scambio di idea di pensieri e idee tra le persone, e con questo una solidarietà internazionale, trovare modalità di risposta comuni in parti diverse del mondo. Tuttavia molto di quello che vediamo negli anni Dieci è un copia e incolla di immagini di grande impatto da un lato del mondo all’altro, ma la somiglianza superficiale tra le immagini non basta.
Riflettevo su come dopo la caduta del muro di Berlino ci sia stata in Occidente una fiducia cieca nel progresso, per cui “l’arco dell’universo morale è lungo ma si piega verso la giustizia” solo che invece della giustizia abbiamo trovato l’americanizzazione del mondo. Questa visione ha spinto l’Occidente ad abbracciare molte di queste proteste: per le persone comuni con una ingenuità a tratti ottusa, mentre per gli stati nazionali questo appoggio generalizzato spesso ha celato l’opportunismo di infilarsi nei vuoti di potere creati dalle rivolte. Mi chiedo, però, quale sia l’eredità di questo decennio in Occidente: penso per esempio alle proteste Pro-Palestina, all’occupazione dei campus.
Dunque alcune cose restano le più semplici da fare rispetto a, che so, ricostruire il movimento operaio o qualsiasi movimento sociale strutturato. Tuttavia quando guardiamo agli accampamenti vediamo che hanno adottato un approccio che dà meno spazio alla spontaneità e all’orizzontalità di per sé. Molto chiaro è anche il cambio di atteggiamento nei confronti del resto della società e dei giornalisti. I giornalisti delle testate più importanti si aspettavano di potersi presentare nei campus e fare quello che avevano fatto dieci anni prima, cioè prendere una persona che gli avrebbe permesso di rappresentare il movimento così come volevano loro. Quando, però, è stato chiesto loro di rivolgersi alle persone che gli studenti stessi avevano eletto come rappresentanti nelle comunicazioni, dicendo che avrebbero volentieri organizzato una intervista, i giornalisti hanno risposto con orrore e rabbia, come se si trattasse di stalinismo o di un oltraggio. Se vai negli uffici del New York Times o della CNN e chiedi a un giornalista qualsiasi di dare la loro opinione su Gaza ti diranno di parlare con gli addetti stampa della testata, ma non sopportavano che questi studenti chiedessero loro di fare lo stesso. Negli accampamenti vediamo anche nuovi processi di elaborazione delle richieste: queste non solo sono possibili, ma sono presentate a chi, nell’amministrazione, può davvero rispondere. C’è poi il coinvolgimento di organizzazioni presenti da tempo all’interno dei campus, o almeno da quando io andavo all’università, che sono ben strutturate, e questo è un segno che le idee sono cambiate ed evolute. C’è un atteggiamento meno positivo nei confronti dei social media e una diversa intenzione nell’interagire con forze più grandi di loro. Poi non è detto che così si vinca o si ottenga quello che uno vuole. Le condizioni materiali, infatti, sono ancora molto simili a quelle degli anni Dieci e il panorama dei media è ancora dominato dalle testate tradizionali, mentre molti altri spazi sono ora posseduti dagli stessi oligarchi che posseggono anche i social – insomma è un panorama con cui è molto difficile interagire.
Per ultimo, per scrivere questo libro hai intervistato moltissime persone. Chiedi a loro di fare un doppio esercizio: ricostruire il passato e raccontare cosa hanno imparato. Quale è la reazione alla prima domanda e quali le lezioni che vogliono passare alle nuove generazioni?
Ho chiesto loro cosa avrebbero fatto di diverso e che cosa direbbero alla prossima generazione che si troverà in un momento di trasformazione politica di proteste di massa: ci sono state tante risposte, ma come le tattiche avevano spesso tratti in comune, così anche queste si sono sovrapposte.
Spesso hanno risposto che avrebbero desiderato organizzarsi di più, perché quando la Storia con la S maiuscola bussa alla porta, non è possibile creare una struttura organizzativa nel pieno dell’azione. Chi aveva già legami, strutture o organizzazioni, per quanto deboli, è riuscito a sfruttare l’occasione al posto loro.
Inoltre c’è la consapevolezza che questo tipo di rivolta non sia l’unica possibile e che sia legata a un momento e condizione storica: se non funziona più ci possono essere altre soluzioni. C’è meno fiducia nella spontaneità e nell’assenza di strutture o orizzontalità come elementi positivi di per sé; si pensa che la prefigurazione faccia ottenere obiettivi specifici ma non vale per tutto. Puoi credere di voler essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo, ma se un esercito nazista ti invade forse non devi per forza comportarti come vorresti dopo la fine della guerra, devi agire altrimenti, invece di manifestare la società che vuoi.
Uno dei rivoluzionari egiziani ha dichiarato che non solo avrebbero voluto farsi trovare più preparati ma che oggi riconosce che la rappresentazione è l’essenza della democrazia e che non dovremmo averne paura, né timore di costruire la nostra rappresentazione in modo democratico.
Parlando del Cile, dove in parlamento erano stati eletti alcuni elementi legati ai movimenti antineoliberisti progressisti di sinistra, quando nel 2019 sono andati al governo, si è avuta la sgradevole consapevolezza della quantità di vincoli contro cui lottare. Tuttavia l’idea generale è che le persone che sono presenti nelle strutture di potere, dentro o fuori dal parlamento, prima di queste esplosioni saranno quelle che prenderanno una posizione significativa per il risultato finale. Più costruisci queste strutture o ti allei con chi ha queste strutture di potere, che siano istituzionali o meno, più avrai voce in capitolo in questi momenti. Perché sono state le forze organizzate anche se erano deboli piccole o si muovevano al limite della società neoliberale – dagli ultras, alla “società civile” delle ONG che rappresentano gli interessi delle élite economiche o degli Stati Uniti e dei loro alleati, agli eserciti alle forze repressive – che hanno colto quelle occasioni e si è dato il caso che la maggior parte di queste non fossero di sinistra.