I
n un celebre articolo (confluito poi nelle Lettere luterane), dalle colonne del Corriere della sera – è il 18 ottobre 1975 –, Pasolini propone l’abolizione della scuola media (e della televisione). Ai nostri occhi appare incomprensibile, una pura boutade: la riforma scolastica che ha introdotto la scuola media unica è ritenuta, e a ragione, uno degli avanzamenti sociali più significativi in termini di istruzione dei cosiddetti “governi di centro-sinistra”, negli anni Sessanta dello scorso secolo. Finalmente l’obbligo scolastico si estende fino ai 14 anni e viene eliminata l’odiosa alternativa secca che, all’età di 11 anni, imponeva di scegliere tra la scuola media e l’avviamento professionale. Alberto Moravia, pochi giorni dopo, riprende l’argomento, sempre sul Corriere, spostando su un piano serio il suggerimento ironico («swiftiano», diceva Pasolini, con riferimento al sarcasmo del pamphlet Una modesta proposta di Jonathan Swift). La “modesta proposta” è prensa alla lettera, sul Corriere del 20 ottobre del ‘75: Secondo me, bisognerebbe abolire la scuola media lasciando peraltro intatte le scuole elementari, dove si impara a leggere, a scrivere e a fare i conti, nonché l’università […].
Per quanto riguarda gli anni oggi perduti nelle scuole medie, penso che bisognerebbe sostituire le scuole con un rapporto più diretto con la realtà della vita e del lavoro. Per esempio mandare i ragazzi in campagna a partecipare ai lavori agricoli, nelle fabbriche […] nelle botteghe […]. Intanto essi dovrebbero studiare “tutto quello che anche nella presente situazione” studierebbero comunque per libera elezione e spontanea curiosità.
Chi suggerisse oggi una simile soluzione sarebbe tacciato come reazionario – et pour cause. Ci stupiamo anzi che a mondare l’idea dell’originaria ironia sia proprio il razionale e progressista Moravia, nelle cui parole non troviamo alcuna ambiguità: sarebbe davvero un bene, per lui, che la scuola media fosse cancellata, poiché quegli anni sono “perduti”.
A contestualizzare i fatti possiamo rammentare il clima generale del lungo ‘68 italiano: la decostruzione della gerarchia scolastica e i processi di democratizzazione della conoscenza avevano rapidamente messo in luce la concezione ideologica e classista del sapere, e in particolare dei suoi strumenti di trasmissione formale, direbbe Bourdieu, ossia costituiti cioè percorsi di istruzione progressivi e universali. Nel 1971 (in traduzione italiana nel ‘72) usciva Descolarizzare la società, del filosofo Ivan Illich, che contestava da un punto di vista libertario l’organizzazione sociale regolata attraverso attestati e licenze (e in particolare il rapporto tra agenzie educative, enti certificatori e mondo del lavoro). E di nuovo: chi sia nato nella culla avvelenata del neoliberismo non può esimersi dal notare con sconcerto, durante la lettura di Illich, che buona parte della deregolamentazione proposta in quel testo (soprattutto per quanto riguarda il definanziamento del welfare) è stata, pochi anni dopo, perversamente messa in atto dalle politiche (anti)sociali dei governi di mezzo mondo.
La riforma che ha introdotto la scuola media unica è degli anni Sessanta. Finalmente l’obbligo scolastico si estende fino ai 14 anni e viene eliminata l’odiosa alternativa secca che, all’età di 11 anni, imponeva di scegliere tra la scuola media e l’avviamento professionale.
Al di là delle prese di posizioni di alcuni intellettuali pubblici, la scuola media non gode di buona fama nemmeno tra coloro che la dovranno attuare. Il timore fondamentale di una buona parte del corpo docente, come riporta un’inchiesta dei sociologi Marzio Barbagli e Marcello Dei uscita già nel 1969 (Le vestali della classe media, Il mulino, Bologna), era quello che emerge nei momenti in cui si aprono le vie d’accesso alla cultura agli strati sociali cui non erano concesse in precedenza, una sorta di sindrome da “barbari ai confini”: declassamento della cultura, livellamento verso il basso della qualità, appiattimento delle capacità individuali sui farraginosi ritmi collettivi. Una docente afferma:
Mi sembra un cambiamento troppo radicale, nel senso che io sarei stata, sì, per la scuola dell’obbligo, ma non per l’unicità. Ero per lasciare la distinzione [tra scuola media e avviamento professionale,
nda] che mi sembrava più consona alle attitudini dei ragazzi. Quando esce dalle elementari, il ragazzo ha già una certa preferenza. Perché non lasciargli esplicare subito questa preferenza senza fargli perdere tre anni?
In un simile, candido, classismo è distillato il conservatorismo profondo e codino della classe piccolo borghese di allora, i suoi timori meschini di perdere le misere acquisizioni di potere di chi inconsciamente si sente sempre minacciato negli avanzamenti individuali, e guarda con occhi timorosi ad ogni trasformazione dello status quo. D’altra parte l’idea che la distinzione del percorso scolastico, in armonia con le attitudini personali innate, si generi naturalmente è un assunto intimamente reazionario, che legittima l’istituzione scolastica nelle sue esclusive funzioni di apparato ideologico riproduttivo, poiché naturalizza processi che invero sono storico-sociali e isola l’individuo di fronte ad un sapere idealizzato. Si tratta di un truismo pedagogico che riemerge oggi e sostanzia i provvedimenti legislativi che stanno trasformando la scuola.
La professoressa classista ha ragione: c’è chi preferisce imparare un mestiere e chi preferisce studiare. Il problema, naturalmente, è non solo come si produce una simile divaricazione (un problema storico e sociale davvero troppo grande per essere evaso qui), ma – è questo il punto – come la scuola si pone di fronte ad essa.
L’idea che la distinzione del percorso scolastico, in armonia con le attitudini personali innate, si generi naturalmente è un assunto intimamente reazionario.
Qualche anno dopo, un commento di Andrea Zanzotto (in Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, un volume collettaneo curato da Laura Betti e uscito per Garzanti nel 1977) riesce a cogliere la critica alla scuola media con parole che restituiscono un senso ancora oggi comprensibile agli interventi di Pasolini e Moravia: [Pasolini]
aveva perfino identificato la tara di nascita dell’attuale media dell’obbligo, quella di essere stata creata sulla base della vecchia media per signorini e non della cosiddetta, e ben più sana, scuola di “avviamento al lavoro”; cosicché tutti erano stati obbligati a “idealizzarsi” come signorini e borghesi piccoli piccoli, il più possibile irresponsabili verso il lavoro (la produzione) e quindi, il più possibile consumatori di ogni “bene”, usufruitori di servizi e servigi.
Zanzotto non mostra alcuna preoccupazione rispetto al “livello di cultura” che offre la scuola, nella consapevolezza che una simile concezione è fondata su un’idea del sapere idealizzata e distante dalla realtà, mentre è chiaro che il principale problema educativo si innesta sul piano dell’identificazione e del desiderio: la scuola media unica, poiché modellata sulla precedente scuola media “per signorini” – destinata cioè ai figli degli strati sociali borghesi (o piccolo-borghesi in rapida scalata sociale) che, da lontano, osservavano con un certo sprezzo il lavoro “di fatica” – rimuove lo scandalo del lavoro e persegue la costruzione di un ideale dell’io studentesco estraneo ai processi materiali e politici della produzione e del lavoro.
L’identificazione proposta dalla scuola è così quella di un intellettuale borghese, isolato, arroccato nella sua torre eburnea e nel latinorum oppure, di contro, integrato, parte della classe dirigente: in ogni caso “irresponsabile”, per un motivo o per un altro, verso il lavoro. Si comprende meglio allora la celebre metafora di Lettera ad una professoressa, secondo la quale la scuola “è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”: è naturale che la scuola così pensata non solo respinga gli strati sociali più umili, ma che in loro instauri un senso di inadeguatezza e un’identificazione frustrata.
La scuola così pensata non solo respinge gli strati sociali più umili, ma instaura in loro un senso di inadeguatezza e un’identificazione frustrata.
Facciamo scorrere in avanti rapidamente il tempo. Riportare alla luce quel rimosso ha forse un valore euristico per un dibattito contemporaneo, ma da allora sono cambiate molte cose: ha ancora senso una simile osservazione? Il sapere a scuola è ancora idealizzato nella sua versione “per signorini”? In un precedente articolo criticavo l’ultima riforma degli istituti professionali, che acuisce i tratti classisti dell’istituzione scolastica, irrigidendo surrettiziamente le barriere sociali dei percorsi di istruzione e mistificando i contenuti disciplinari in termini commerciali.
Un sintetico aggiornamento, per la cronaca: il governo sta lavorando ad una riforma degli istituti tecnici che sembra prendere le mosse da simili premesse (mismatch, richiesta di manodopera delle aziende et similia) e andare in un’analoga direzione (formazione al posto di istruzione, aumento dell’alternanza scuola-lavoro, ecc…). Insomma, per quelle scuole che si prefiggono di insegnare una serie di competenze tecnico-pratiche il disegno è complessivo: la didattica (ma dovremmo chiamarla formazione) sarà improntata, nel merito dei contenuti e dei metodi, sulla base di ciò che le aziende del territorio, qualificate sempre più come agenzia educante e dunque in pieno diritto di intervenire, necessitano. Vedremo che cosa si farà con i licei.
Tra le interazioni a quell’articolo, sulla pagina Facebook de Il Tascabile, un tale riprende la posizione della professoressa conservatrice, in un commento apodittico: “Cmq non è che tutti vogliono studiare, anzi… Molti preferiscono zappare.” Vero e sacrosanto: nulla obbliga a studiare, e non c’è alcuna tara originaria, o peggio vergogna atavica, nell’attività lavorativa fisica o più in generale subordinata. Altro però è chiedersi come si produca e si riproduca il desiderio di “zappare” e se per caso non si tratti di una costruzione ideologica indotta e costruita ad hoc per addomesticare una manodopera docile e sottopagata, per plasmare i desideri e insomma per fare, come si dice, di necessità virtù. I servi scelgono liberamente di non sapere, di rimanere servi, e perfino di non riconoscersi come tali: nessuna dialettica con il padrone, con buona pace di Hegel. In ogni caso una simile obiezione, nella sua banalità, pone gli insegnanti (e più in generale chi si occupa di educazione e di istruzione) di fronte ad un rimosso originario, forse mai affrontato sul serio in passato e meno che mai di questi tempi, durante i quali ritorna in forme particolarmente preoccupanti.
Ho l’impressione che, da un lato, l’idea di sapere abbia rafforzato il carattere classista: lo s’intende dalla divaricazione sempre più netta tra i percorsi dell’istruzione secondaria di secondo grado, così come da una generale convinzione – ideologica e fallace – che sempre più spesso si sente affermare con straordinario fervore: che un idraulico o un elettricista o un operaio, in fondo, non debbano conoscere che i rudimenti di matematica o di storia della letteratura, e forse nemmeno quelli. D’altra parte, però, la mutazione dei protocolli di legittimazione culturale ha rapidamente riorganizzato la gerarchia dei saperi, e sembra che il mai abbastanza biasimato mercato abbia infine tratto le dovute conclusioni: chi impara non sappia più del necessario di quanto serve ad eseguire in modo efficace.
Il mai abbastanza biasimato mercato ha infine tratto le dovute conclusioni: chi impara non sappia più del necessario di quanto serve ad eseguire in modo efficace.
Così non solo il sapere umanistico, poiché “ozioso”, è sempre più marginalizzato rispetto a quello tecnico, ma anche quest’ultimo diviene accessibile solo a determinate condizioni, secondo certi modelli, rispettando certi limiti. Si tratta di una concezione puramente funzionale del sapere, che su una scala di massa attua un’idea di educazione tecnico-professionale secondo una logica di comando e di ammaestramento all’ordine sociale stabilito.
L’idea di fondo della nostra insegnante degli anni Sessanta si è sostanzialmente imposta, con la differenza che se allora si rimuoveva il lavoro di fatica, frutto di un fallimento e di una vergogna (“se ti spacchi la schiena è solo perché fallisci a scuola”), oggi quel lavoro è l’esito fatale di un destino di massa, verso il quale parte degli studenti sono guidati (orientati, nelle parole dell’istituzione scolastica) e preparati con ossequiosa rassegnazione (resilienza). A giustificare il tutto, naturalmente, ancora l’assunto pedagogico brutale: le attitudini, le capacità innate, la “voglia” di studiare.
Una volta tracciato il quadro, le ragioni per le quali da più parti si richiede un’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro sono evidenti. Così concepita, l’esperienza dello studente nel mondo del lavoro è lontanissima dall’esperienza della realtà produttiva nel suo complesso. Piuttosto, si tratta di un’efficace esperienza di sfruttamento. Naturalmente le ore lavorate da uno studente, per quanto inesperto, vanno retribuite. Ma questo non basta: occorrerebbe che l’esperienza fuori dalle ore scolastiche in senso stretto sia articolata a partire da un principio prettamente esplorativo, didattico, che abbia l’obiettivo di mostrare la realtà nelle sue complesse stratificazioni e nei suoi conflitti. Solo così la scuola, nella sua funzione di istituzione che si confronta con milioni di persone in crescita, può ritrovare un suo mandato sociale non ideologico e addirittura una dimensione liberatoria.
Così si potrebbe immaginare, in sostituzione dei PCTO (i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento: l’ennesimo eufemismo governamentale con il quale si è deciso di camuffare l’alternanza scuola-lavoro), che le esperienze di osservazione ed eventualmente di lavoro in un’azienda fossero in grado di restituire a chi le vive un quadro complesso, come del resto è la realtà – con tutti i suoi nodi storici-politici, conflittuali, materiali, tecnici, economici.
Nell’alternanza scuola-lavoro, l’esperienza dello studente nel mondo del lavoro è lontanissima dall’esperienza della realtà produttiva nel suo complesso. Piuttosto, si tratta di un’efficace esperienza di sfruttamento.
In un’ipotesi di avvicinamento didattico ad un’attività produttiva, andrebbero considerati molti fattori, in vari ambiti:
– il percorso della materia, nel suo complesso: la materia prima (da dove viene? il suo reperimento è causa di tensioni politiche? Quali sono le condizioni e le implicazioni del suo approvvigionamento?), il processo di lavorazione (in termini di tipo di lavoro, di quantità di energia richiesta), di distribuzione e di commercializzazione (quali vie segue, perché? Qual è il suo impatto ambientale?);
– l’organizzazione della produzione: dal un punto di vista manageriale (le strategie di massimizzazione dei profitti, l’analisi del capitale fisso e mobile ecc…) e dal punto di vista del lavoro (l’analisi dei contratti, delle mansioni, le testimonianze e i vissuti degli individui, il ruolo delle associazioni dei lavoratori); un’analisi dei fattori e degli interessi economici che reggono l’attività (i margini di guadagno, il valore aggiunto, i profitti in relazione ai salari);
– gli scenari alternativi di produzione (che investono criticamente tutti i fattori precedenti), in ragione dei principali problemi ambientali e socio-economici che la contemporaneità pone.
Alla fine un simile percorso, da realizzarsi attraverso un’estensione delle ore a scuola e nelle uscite didattiche (e dunque con un investimento sostanzioso nelle risorse per il personale e per le attività al di fuori della scuola, ad oggi sostanzialmente volontarie), è possibile anche pensare a qualche giornata immersiva di contatto reale con il lavoro vero e proprio in una specifica attività produttiva, a patto che vi sia un’adeguata retribuzione e che lo studente abbia ben presente i dispositivi di sicurezza e di organizzazione sindacale (cui avrebbe diritto ad accedere, proprio come qualsiasi altro lavoratore, in quanto parte integrante della realtà lavorativa). Il ruolo ancillare che oggi ricopre lo studente nelle attività di alternanza verrebbe così a trasformarsi radicalmente, assumendo un’inedita postura di osservazione e di ricerca – che ricorda i metodi dell’antropologia – in grado di guardare alla realtà in maniera complessa, critica e dunque immaginativa.
Serve riscoprire il valore etimologico della parola scholé: tempo libero. Un otium che, a differenza di quello antico, sia di massa: tempo libero per tutti, tutte, esteso a tutti gli ordini scolastici.
Siamo lontanissimi da un simile scenario, ne sono consapevole, e mi rendo conto che l’effetto può essere quello di un delirio. E in effetti lo è, come ogni proposta: generica, emendabile, discutibile. Nondimeno, trovo che si tratti di un delirio più avvicinabile alla realtà di quanto lo siano le parole del gergo pedagogico che sempre più legittimano retoricamente le riforme recenti, orientate all’interesse delle proprietà aziendali del territorio.
I difensori dell’attuale sistema di alternanza diranno forse che la formula del PCTO prevede già una contestualizzazione dell’attività lavorativa dello studente, simile a quanto qui si è immaginato. Non è così. Le attività non strettamente lavorative che rientrano nelle ore PCTO non hanno nulla di sistemico, poiché si tratta spesso di una serie di progetti eterogenei e confusi riguardanti alcuni aspetti collaterali dell’attività lavorativa (come la sicurezza o la lettura dei contratti) – aspetti che però collaterali non sono affatto. Il rapporto tra scuola e realtà è regolato dall’orizzonte esclusivo del quieto inserimento in azienda, in un percorso unidirezionale dalla prima alla seconda – come se i luoghi d’istruzione fossero una sorta di buco spazio-temporale e non avessero dignità ontologica di far parte della realtà. Non vi è alcuna volontà di ripensare la relazione scuola-realtà come una serie di interdipendenze e di retroazioni che possano influenzarsi e trasformarsi reciprocamente.
Si tratterebbe insomma di una riscolarizzazione della società – correlata, anche se contraria, a quella che proponeva Illich – che rigetti, beninteso, il senso burocratico e repressivo della scuola come istituzione totale e scopra invece il valore etimologico della parola scholé: tempo libero. Un otium che, a differenza di quello antico, sia di massa: tempo libero per tutti, tutte, esteso a tutti gli ordini scolastici. Licei e “signorini” compresi.