I n Italia il film del regista parigino figlio d’arte Romain Gavras dello scorso anno Athena è stato accolto, soprattutto sui social media, con un coro di lodi. In Francia però le reazioni avevano altri toni: oltre alle critiche negative o tiepide di testate giornalistiche autorevoli come Le Monde, Libération, L’Humanité, Les Cahiers du Cinéma e LesInrocks, ad aizzare il dibattito pubblico transalpino ha contribuito la netta stroncatura di Louisa Yousfi, giovane scrittrice e giornalista di origine algerina che si definisce “un’araba in Francia”, autrice del saggio Rester barbare uscito a marzo 2022 per le edizioni francesi La Fabrique e da poco tradotto e pubblicato in italiano da DeriveApprodi con il titolo Restare barbari – I selvaggi all’assalto dell’impero.
Il film di Gavras, distribuito da Netflix, è ambientato in una cité immaginaria della periferia francese, uno dei cosiddetti “quartieri sensibili” isolati, poco serviti e dominati dai blocchi di cemento. La vicenda messa in scena è incentrata su un topos dei soggetti cinematografici ambientati in banlieue: lo scontro tra i giovani residenti dei palazzoni, per lo più di origine africana, e la polizia. Ma per quanto questo conflitto tra i banlieusard e gli unici rappresentanti dello Stato presenti stabilmente nei loro quartieri, i poliziotti, sia una violenta e tragica routine della realtà delle periferie francesi più disagiate, il modo di raccontarlo, chiaramente, fa la differenza. Gavras, pur avendo dichiarato e messo in evidenza già dal titolo l’ispirazione ai classici greci, quasi a voler rimarcare il carattere epico dell’opera, ha comunque espresso un punto di vista sulle persone razzializzate e Yousfi ha reagito con due lunghi post sul suo profilo Instagram.
Il primo a caldo, arrabbiato, in cui tra l’altro ha scritto questo: Ci sono belle immagini di rivolte, immagini di clip alla Gavras, immagini di fuoco che galvanizzano, ti fa quasi venire voglia di essere lì, beh non proprio, non proprio perché questa gente incappucciata che si rivolta e brucia tutto non esiste, e non sto parlando della realtà (non è questo il punto), sto parlando del film stesso. Queste persone non esistono e non voglio nemmeno parlarne perché siamo stanchi di dovervi ricordare cose del genere, perché siete così stupidi, perché non sapete guardarci, non sapete leggerci, non sapete niente, siete noiosi. Continuo a preferire i vostri film verbosi in cui non succede niente.
Un vero e proprio sfogo a cui ha fatto seguito, una settimana dopo, un secondo post, più ponderato ma per nulla condiscendente, in cui ha parlato di un regista completamente autocompiaciuto dalla tecnica, con “una distanza contemplativa” dai destini dei personaggi e di una “mania del viaggio safari-antropologico (ecco gli spacciatori, ecco i musulmani, ecco le persone oneste prese in ostaggio ecc.)” per poi aggiungere: La banlieue, la violenza che vi si compie, non può soffrire di approssimazione o tiepidezza perché, contrariamente alle apparenze, questo è un film tiepido. In fondo è proprio questo che gli rimproveriamo. Di aver avuto l’opportunità, i mezzi e l’idea iniziale di fare un film esplosivo sulla rivolta, la nostra rivolta, un film che andasse fino in fondo alle cose, che non tremasse in ciò che osava mostrare, il risveglio di un popolo disprezzato che sta per mettere tutto a soqquadro, e di essersi, alla fine, immerso in una sorta di melassa morale: ci sono buoni e cattivi dappertutto, abitanti della periferia che ragionano e altri che sono completamente pazzi, poliziotti simpatici e altri che fanno ‘gaffe’, e un’estrema destra che è davvero molto, molto cattiva, ed è l’unica colpevole. Di conseguenza, mettere nelle mani degli abitanti della periferia un’estetica della furia distruttiva in questo scenario, che non presuppone la tragedia greca a cui dice di ispirarsi – cioè la situazione insolubile, l’esito impossibile – significa di fatto consentire una lettura spontaneamente razzista.
La passione contenuta in queste reazioni ha prima di tutto un legame con l’identità di Yousfi e, di riflesso, con il suo saggio, Restare barbari, che si concentra su una forma di resistenza a quella mentalità occidentale, in particolare eurocentrica, autoassolutoria se non cieca rispetto alle violenze perpetrate dal colonialismo, ai suoi effetti, e che ancora oggi vede gli Altri sempre e comunque inferiori culturalmente se non, appunto, barbari nell’accezione dispregiativa. Lo scritto è una sorta di invito a diventare fieri di quest’ultima “stimmate” e a prendere coscienza che la domesticazione dei barbari viene mascherata dietro il concetto di integrazione. Lo spunto di partenza arriva da una dichiarazione del poeta e scrittore algerino Kateb Yacine (1929 – 1989): “Sento di avere così tanto da dire che è meglio che non sia troppo acculturato. Devo mantenere una specie di barbarie, devo restare barbaro”.
Yousfi invita a diventare fieri e a prendere coscienza che la domesticazione dei barbari viene mascherata dietro il concetto di integrazione.
Da questa “formula magica”, Yousfi si è lasciata ispirare per scrivere un saggio politico e sociologico che si apre con un’altra citazione di un altro scrittore algerino, Mohammed Dib (1920 – 2003), che ha il sapore di un inno all’indipendenza visto che è contenuta in Dieu en Barbarie, romanzo uscito nel 1970 e ambientato subito dopo la fine della guerra d’Algeria: “A forza di vivere nelle tenebre, abbiamo finito per firmare un patto con i mostri e le larve che vi trovano rifugio. Questo patto bisogna romperlo adesso e osare guardare il giorno, fissare il nostro sole di Barberia in faccia” (in francese la parola barbarie può indicare sia la Barberia, appunto, dunque i paesi della costa berbera, del Maghreb, sia il sostantivo barbarie. In questo caso è scritta con l’iniziale maiuscola quindi in italiano va tradotta con questa denominazione un po’ desueta ma una volta molto usata da tutti gli europei).
Yousfi ha un punto di vista che si addice perfettamente all’autodefinizione di sé (“un’araba in Francia”) perché dalla lettura del suo libro emerge presto un’estrema consapevolezza delle violenze del colonialismo, delle profonde ferite che ha lasciato, ben sintetizzate in questo passaggio: “I nostri mostri non nascono a causa di una mancanza di voi ma da un eccesso di voi – troppa Francia, troppo Impero”. Quando è stata ospite, a maggio 2022, del podcast francese “Kiffe Ta Race”, condotto dalla giornalista Rokhaya Diallo e dalla scrittrice Grace Ly, per spiegare lo spirito del libro e il concetto attribuito al termine barbarie, ha dichiarato: È una formulazione estetica che mira a dire… ’ecco chi siamo’. Noi siamo dei barbari e, nello stesso tempo, non lo siamo. Si tratta di una storia dell’integrazione vista dall’interno di essa. Siamo dei barbari che non lo sono più, di fatto, perché stiamo nel cuore dell’impero, padroneggiamo i codici dell’impero, padroneggiamo la lingua dell’impero e, nello stesso tempo, non siamo del tutto integrati, c’è qualcosa in noi che resiste, c’è ancora un’alterità dentro di noi che permane e penso sia questo l’obiettivo dell’impero, la sua ultima terra di conquista, perché non è arrivato a tutto. Credo che questa sia davvero la specificità del rapporto coloniale e di quello razzista. Non si tratta solo di una dominazione strutturale ma di una dominazione intima che si insinuerà in ogni angolo della nostra esistenza e quindi c’è una parte di noi che non riesce a capirlo e questa è una specie di terra di nessuno, in fondo all’anima, che resiste all’impero, alla domesticazione ecc. Ecco, io penso che bisogna investire su questo, in letteratura o in altre forme d’arte. Partendo da qui diventa possibile immaginare qualcosa di nuovo, che non è intrappolato direttamente nella rete dell’integrazione.
Nel dibattito pubblico italiano è difficile che si metta seriamente in discussione il punto di vista eurocentrico e c’è una sorta di sacralità attorno al concetto di integrazione, reputato in maniera trasversale giusto, civile e doveroso, quanto meno a giudicare dai mass media e dall’opinione pubblica che si scorge sui social media. Al netto delle differenze tra la storia e la società francesi e italiane, Yousfi mina il primo postulato e permette di rivedere la seconda convinzione. Durante il suo intervento in “Kiffe Ta Race”, per esempio, osserva: Per esistere in questa società bisogna negarsi, negare tutto quello che costituisce il nostro essere elementare, quindi le nostre origini, i nostri valori, le nostre lingue, le nostre culture, la nostra religione. E dunque c’è questo paradosso che per esistere bisogna cessare di esistere. C’è un’impasse, un’aporia che può far diventare pazzi (…). Credo si debba elaborare una sorta di spazio, di luogo di denuncia che, di fatto, sarebbe come una piccola utopia decoloniale (…) bisogna resistere a quello che stiamo per diventare
“”.
Il libro di Yousfi dimostra che gli intellettuali eredi degli scrittori che cita non sono i rappresentanti contemporanei più autorevoli di questa resistenza “barbara”, perché a portarla avanti ci sono degli insospettabili: i rapper delle banlieue. Sono loro a contaminare la lingua dell’impero, il francese, con altri linguaggi. La liberano dalle regole, la maltrattano – scrive -, e dunque la sabotano togliendole le ambizioni civilizzatrici che rappresenta. Ecco di chi si tratta. In un paese come la Francia, che è il secondo mercato discografico rap al mondo dopo gli Stati Uniti e dove la maggioranza degli esponenti di questo genere musicale proviene, appunto, dalle banlieue, non è una considerazione irrilevante. Il rap è un mezzo d’espressione che nell’Esagono, infatti, ha assunto una popolarità di massa da molti più anni rispetto all’Italia. Quando qui, negli anni Novanta, c’erano degli sporadici exploit in questo senso, lì c’erano già rapper ospitati abitualmente in talk show televisivi, intervistati di continuo da TG e testate rilevanti, e i numeri delle vendite dei loro dischi dicevano che il pubblico non si limitava certo alle banlieue. Inoltre le opere cinematografiche che accennavano alla loro cultura di riferimento, l’hip hop, e ambientavano storie nei loro quartieri, non erano poche. Ben prima di Athena ci sono stati tanti altri film che hanno raccontato questi ambienti e il più rilevante è L’odio di Mathieu Kassovitz (1995) in cui erano presenti tracce di breakdance, djing, writing e rap, le quattro discipline originarie dell’hip hop, appunto. Un film premiato al Festival di Cannes e che ha ottenuto successo in mezzo modo, tanto che nella stessa Italia ancora oggi i rapper lo citano nei testi.
I rapper delle banlieue contaminano la lingua dell’impero, il francese. La maltrattano e dunque la sabotano, togliendole le ambizioni civilizzatrici che rappresenta.
Yousfi parla di artisti rap molto popolari e di diverse generazioni, a partire dal veterano Booba, di madre francese e padre senegalese, che tra l’altro ha dichiarato di non dover niente alla Francia perché la Francia non ha dato niente a lui e, nel 2010, parlando del suo trasferimento a Miami, ha lanciato una provocazione sfrontata dicendo che negli Stati Uniti la polizia non segue la profilazione etnica come accade nella nazione dove è nato e cresciuto – in cui, notoriamente, non c’è uno spiccato sentimento popolare filoamericano come in altri paesi europei. Yousfi sottolinea come Booba costruisca la sua narrazione intorno a un’ossessione: trovare il tesoro su cui è stata edificata questa civiltà. Un tesoro rubato, usurpato, da recuperare. Ma questo tesoro non ha prezzo. È un desiderio di vendetta quasi metafisico, la visione allucinata di un desiderio di emancipazione piuttosto che di sottomissione al regno consumistico
. Il successo e il lusso ostentato dall’artista, insomma, diventano una forma di rivalsa.
Discorso simile quando passa all’analisi dei PNL, ossia Tarik (Ademo) e Nabil (N.O.S), due fratelli di sangue appartenenti a una generazione successiva rispetto a Booba ma cresciuti come lui nella banlieue parigina e che hanno esordito a marzo del 2015. Appena quattro anni dopo la pubblicazione del loro primo singolo, nel 2019, i due hanno ottenuto un successo – nazionale e internazionale – così grande da potersi permettere di girare un video in cima alla Tour Eiffel, apparendo come dominatori di Parigi. A differenza di Booba, in tutti questi anni non hanno mai rilasciato interviste, comunicando con il loro pubblico esclusivamente tramite i social media e dei videoclip che sembrano dei cortometraggi d’autore. Yousfi dice che questo silenzio stampa dipende dal fatto che “la banlieue dei PNL non fa rap ’consapevole’, non interpella nessuna istituzione, non sensibilizza nessuna coscienza. Non si aspetta più niente dall’esterno, non ha più niente da dirgli”.
Poi evidenzia una curiosa coincidenza, ossia come il duo si sia formato e abbia cominciato la sua ascesa nello stesso anno dei tragici attentati terroristici in Francia, tra cui quelli nella redazione di Charlie Hebdo e al Bataclan, sottolineando come tra i responsabili di questi violenze ci fossero altre coppie di fratelli banlieusard. Nei testi delle loro canzoni i PNL raccontano come chi è cresciuto nei loro ambienti nutra un odio verso “l’impero” innescato dalle violenze subite dai loro ascendenti e da una frustrante quotidianità. I due, come dicono le note biografiche di un comunicato stampa ufficiale molto sui generis, sono stati “indotti presto a spacciare per provvedere ai loro bisogni e a quelli della loro famiglia” e poi hanno deciso insieme “di investire i soldi provenienti dalla droga per finanziare la loro impresa musicale”. Crescere nelle cité, insomma, significa essere disprezzati e svantaggiati e questa condizione crea un sentimento di odio diffuso che poi può prendere strade ben diverse.
Florent Le Reste, professionista del campo televisivo cresciuto tra gli anni 80 e 90 in una cité della Seine Saint Denis da cui è riuscito a uscire, testimonia la via più battuta per affrancarsi da certe dinamiche, il lavoro, ma nel 2011 non ha scritto la sua storia in Homeboy. Du quartier au hip-hop (Ed. Michalon), per dire come gli sia andata bene. Nel libro, infatti, descrive le banlieue come territori dimenticati, a partire dalle scuole che, a suo dire, sono rifugio di insegnanti mediocri, sul viale del tramonto o psicotici che indirizzano gli studenti esclusivamente a lavori di fatica e mal retribuiti. Per rendere in maniera efficace l’idea della realtà di questi quartieri, a un certo punto li paragona alla Palestina perché “ci sarà sempre una forma di resistenza, un rifiuto di abbassare la testa davanti all’autorità arbitraria. Una non accettazione della propria condizione”, scrive. Le Reste da ragazzo ha trovato rifugio nell’hip hop e, per lui, il rap resta il mezzo migliore per canalizzare l’energia rabbiosa dei giovani banlieusard, “l’aggressività generata dalle frustrazioni”, l’odio insomma. Kassovitz ne parlava nel 1995 e il suo era un occhio esterno che aveva colto così bene lo stato d’animo dominante nei giovani di certe banlieue da scegliere il titolo più corrispondente alla realtà che raccontava, descrivendone bene anche la genesi. I PNL mettono un carico beffardo su questo odio quando Ademo in un verso del brano Hasta la vista citato da Yousfi sembra rivolgersi al pubblico più lontano dal loro ambiente di provenienza (molto nutrito) e dice: “Sono lieto che il mio odio vi piaccia. Lieto che vi stiamo fottendo”. In Rester barbare, due pagine dopo questa citazione, viene riportato un altro verso, questa volta di N.O.S, contenuto in Sibérie, brano che fa parte dello stesso album del 2019, Deux frères: “hanno distrutto le nostre torri ma non distruggeranno l’impero che abbiamo costruito nei nostri cuori”. Le torri sono i blocchi di cemento della cité in cui i due fratelli rapper sono cresciuti ma Yousfi si sofferma sull’ “impero interiore” perché è lì che vede l’eredità di quella “specie di barbarie” evocata da Kateb Yacine.
La banlieue non fa rap ’consapevole’, non interpella nessuna istituzione, non sensibilizza nessuna coscienza. Non si aspetta più niente dall’esterno, non ha più niente da dirgli.
La figura del rapper, già poco dopo le sue prime apparizioni negli Stati Uniti, è risultata indigesta al cittadino medio e in parte lo è ancora oggi, soprattutto perché molti faticheranno sempre e comunque a decifrare i testi, lo stile di scrittura, più in generale la sfrontatezza del linguaggio del rap, e a contestualizzare il background da cui derivano certe tematiche e l’attualità che le stimola. Yousfi ha colto e apprezzato appieno l’attitudine di certi rapper e nel capitolo finale del suo saggio innalza ancora di più queste figure anche attraverso una confessione personale: “Ho scritto questo libro perché ho fallito. Non sono rimasta barbara. Sono una buona allieva della Repubblica” e poi aggiunge “Ho la sensazione che sono i rapper ad aver parlato per me. Non di me ma per me. Il loro linguaggio, i loro eccessi, la loro irriverenza nei confronti della grammatica stabilita, offrono alla mia scrittura di integrata l’opportunità di respirare un po’”.
I rapper, conclude, “immergendosi nelle profondità dello sporco, sono la testimonianza paradossale di una santità impedita”. Le violenze discriminatorie, razziste e classiste, derivanti prima dal colonialismo, poi dal capitalismo – che funziona e si sviluppa anche grazie alla differenziazione razziale – e infine dal neolibersimo, insomma, in Francia hanno trovato una risposta “barbara” nel rap e una ponderata in un’intellettuale come Louisa Yousfi che, in ogni caso, dimostra di avere un approccio critico, brillante e molto dignitoso all’integrazione.