L a pandemia di COVID-19 ha imposto a ciascuno un ripensamento del legame tra comportamenti individuali e vita sociale collettiva. Davanti alla dinamica del contagio ci siamo stupiti di quanto rapidamente un virus pericoloso possa diffondersi attraverso la fitta trama di connessioni di una società globale. Una dinamica che lega la piccolezza di gesti apparentemente innocui — stringersi la mano o conversare — alla grandezza dei numeri dei contagi quotidiani. Indossare una mascherina, decidere se salire su un mezzo pubblico, riflettere sull’opportunità di invitare amici a casa, sono parte ormai di una quotidianità che ci costringe continuamente a riflettere sulle conseguenze che le nostre azioni producono non solo sulla nostra salute, ma anche su quella delle persone a noi care. E, ancora, pianificare la vita oltre la pandemia, chiedersi quando un’efficace vaccinazione di massa ci libererà finalmente dalle restrizioni, ha reso evidente la dipendenza ineludibile delle nostre vite non solo dai nostri comportamenti, ma anche e soprattutto da quelli degli altri, che non conosciamo e non possiamo controllare: non basta che io mi vaccini per mettermi al riparo dalle conseguenze del virus, devono farlo anche gli altri.
In questo contesto, il tema della responsabilità individuale ha guadagnato un posto di primo piano nel discorso pubblico: i governi la chiedono ai propri cittadini, gli intellettuali ne illustrano la ragionevolezza sui quotidiani nazionali. In occasione delle riaperture disposte dal Governo Draghi, il direttore de La Repubblica Maurizio Molinari notava in un editoriale che la ritrovata libertà non comporterà conseguenze nefaste “se i cittadini dimostreranno responsabilità nei loro comportamenti”. È alla responsabilità “di ciascuno di noi” che si è appellato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno 2020, legando il concetto a un presunto “senso del dovere”. Ancora prima, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva invocato il “senso di responsabilità degli italiani” più volte a partire dall’annuncio delle parziali riaperture della fase 2, nel maggio dello scorso anno. Non è forse un caso che gli appelli alla responsabilità siano iniziati quando, da un lato, il governo allentava le restrizioni, mentre, dall’altro, sempre più persone, dopo una prima fase di paura e di forte incertezza tanto sulla meccanica del contagio quanto sui rischi concreti della malattia, riprendevano timidamente a uscire di casa e si accorgevano di quanto poco il rispetto delle norme fosse affidato al controllo delle forze dell’ordine.
Come si fa a governare un’epidemia così pericolosa, che si diffonde proprio attraverso l’esercizio delle libertà personali di associazione e movimento? Gli appelli alla responsabilità tradiscono la debolezza strutturale degli strumenti a disposizione di uno stato liberal-democratico per fronteggiare una pandemia. La richiesta — quasi una preghiera — ai cittadini di continuare a sacrificare le proprie libertà in nome della responsabilità sembra il ricorso a una soluzione di governo residuale, unica alternativa a un indesiderabile quanto impraticabile controllo poliziesco, tanto più che questo sarebbe realmente efficace solo se estremamente capillare.
Il punto, però, è che gli appelli rischiano di cadere nel vuoto se la collettività verso cui si invoca responsabilità esiste solo sulla carta ma non nella percezione comune di chi è chiamato a essere responsabile. La “responsabilità” è sempre verso qualcosa o qualcuno, è disponibilità a considerare le conseguenze delle proprie azioni su altre persone, a prendersi cura di un altro. Ma chi sono questi altri? Cosa hanno mai fatto per me? Chi mi assicura che anche loro sosterranno gli stessi sacrifici per proteggere me? È nelle nostre menti, prima che nei fatti, che il filo fragile che ci lega al resto della società rischia di sfilacciarsi, specie se il tessuto sociale su cui ci appoggiamo è già sfibrato.
Gli appelli cadono nel vuoto se la collettività verso cui si invoca responsabilità esiste solo sulla carta ma non nella percezione comune di chi è chiamato a essere responsabile.
Non basta ricordare che gli altri sono coloro dai quali dipende razionalmente anche il mio interesse personale, come fa la politologa Nadia Urbinati (La Repubblica, 16/6/20) spiegando che “i privati interessi saranno più sicuri o meglio protetti se lo saranno anche quelli degli altri” e che “una società meno ingiusta e diseguale è anche più sicura per tutti”. Le argomentazioni razionali, purtroppo, richiedono ascoltatori pazienti e contesti sociali adeguati a tempi lunghi di comprensione. Non a caso, Urbinati stessa nota che questo “interesse bene inteso”, teorizzato da Alexis de Tocqueville in La democrazia in America (1835-40), “presume che i cittadini abbiano consapevolezza del fatto che sia nel loro interesse soccorrersi ed associarsi per meglio risolvere i loro problemi”. Una “consapevolezza” tutt’altro che scontata. Raggiungerla significa convincersi che le rinunce di oggi saranno compensate da un pezzo del bene collettivo al quale si contribuisce, rinunciare alla certezza del qui e ora in cambio dell’incertezza del futuro, fidarsi degli altri e della loro disponibilità a sacrificarsi a loro volta. Rinunce potenzialmente difficili, specie se si considera l’asimmetria tra sacrifici richiesti e rischi di salute per la maggior parte della popolazione. Chi sostiene maggiormente i costi delle restrizioni (adolescenti in DAD, lavoratori in smart working con bambini, dipendenti in cassa integrazione, commercianti) è, infatti, chi, in gran parte, potrebbe sopportare la malattia con un decorso relativamente breve e — per quanto è possibile saperne al momento — senza conseguenze gravi per la propria salute: non sorprende ormai più, infatti, che l’86,2% dei decessi italiani da Covid-19 al 1 marzo scorso sia composto da ultra-settantenni, secondo i dati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità.
Non solo la demografia, ma il funzionamento stesso della nostra mente in contesti di ansia e incertezza radicale ostacola il raggiungimento della “consapevolezza” che presuppone la responsabilità. Le scienze del comportamento sociale, a partire dai primi studi sulla dual process theory, hanno mostrato come gran parte delle azioni e decisioni che intraprendiamo quotidianamente siano il risultato dell’attivazione di un canale cognitivo rapido e largamente inconscio della nostra mente, che ci permette di orientarci nella vita sociale secondo euristiche consolidate dall’esperienza, non solo personale ma anche ereditata dai tempi lunghi dell’evoluzione sociale. Al contrario, la razionalità calcolativa, capace di soppesare freddamente costi e benefici in maniera più complessa, viene attivata in situazioni che consentono tempi lunghi di decisione e una relativa serenità psichica. In questo senso, la paura dell’ignoto e l’incertezza dell’orizzonte temporale di questa pandemia definiscono senz’altro un contesto sfavorevole alla comprensione e accettazione di argomenti razionali.
Lontano, quindi, dall’essere il prodotto di quotidiani bilanci tra costi e benefici, i comportamenti responsabili richiesti derivano da un’interazione complessa tra un senso di solidarietà che ci spinge alla cura degli altri, e la difficoltà nell’accettare i sacrifici che questa comporta. Non è un caso che proprio intorno a questa tensione si sia sviluppata la sociologia moderna. Nella sua Divisione del lavoro sociale (1893), Émile Durkheim trovava che la ragione per cui le società industriali, così diversificate al proprio interno, non si risolvevano in un continuo caos hobbesiano, stesse proprio nello sviluppo di una forma di solidarietà basata sull’interdipendenza degli eterogenei interessi individuali. Ma, precisava, non perché gli individui riconoscessero razionalmente l’utilità della solidarietà verso gli altri, bensì perché questa era diventata nel tempo un “vincolo morale”, che orientava i comportamenti individuali in modo quasi automatico, alle spalle delle decisioni razionali.
Il punto, allora, per la nostra situazione pandemica, è se questo “vincolo morale” risulta effettivamente percepito o, altrimenti, se risuona soltanto nell’astrattezza degli appelli. Nella concretezza della vita sociale, le decisioni quotidiane, prese dal canale “rapido” della nostra mente, sono orientate da diversi frames — “cornici” di senso che definiscono obiettivi, valori e norme di comportamento —, che coesistono e si attivano secondo le diverse situazioni sociali in cui ci si trova: in una relazione professionale è accettabile negoziare per minimizzare i costi di una transazione commerciale; se la stessa relazione si sviluppa in un’amicizia, allora il frame competitivo cederà il passo a uno più cooperativo e un duro negoziato sarà considerato inappropriato. Utilizzando i lavori del sociologo tedesco-olandese Siegwart Lindenberg, nella vita sociale quotidiana agiamo quasi spontaneamente in un frame solidaristico, comportandoci in modo cooperativo e responsabile verso gli altri membri di una collettività — gli altri passeggeri del tram, gli altri colleghi di lavoro, gli altri abitanti di uno stesso paese, ecc. —, in modo simile al “vincolo morale” durkheimiano, relegando in secondo piano un frame egoistico, in cui valutiamo freddamente costi e benefici della nostra vita nella società.
La paura dell’ignoto e l’incertezza dell’orizzonte temporale di questa pandemia definiscono un contesto sfavorevole alla comprensione e accettazione di argomenti razionali.
Cosa succede, però, se il frame solidale smette di essere cognitivamente saliente? Può succedere, allora, che il frame egoistico passi dallo sfondo al centro della nostra attenzione e ci si cominci a chiedere se i costi dei sacrifici richiesti siano effettivamente compensati dai vantaggi che la collettività ci restituisce. E, in tempi di ansia e incertezza, può succedere che la convenienza a lungo termine della solidarietà ci appaia troppo astratta. In un colpo solo, il richiamo alla “responsabilità” perde autorevolezza morale e la ragionevolezza della solidarietà non viene compresa. È qui che quel filo fragile che ci lega a una collettività ampia può spezzarsi: non riconosciamo chi ci sta intorno come dei “nostri”, non ci sentiamo parte della stessa collettività. Qui si può decidere che, forse, non vale la pena di sacrificarsi così tanto, di essere così responsabili.
Se la collettività verso cui essere responsabili è di fatto un concetto astratto nella vita sociale quotidiana, illustrarne la ragionevolezza rischia, tutt’al più, di convincere solo chi convinto era già. In questo modo l’argomento razionale diventa simbolo di un’appartenenza a un gruppo, quello dei “ragionevoli”, di chi si sente colto o intelligente a sufficienza per comprendere le ragioni dell’“interesse bene inteso”. Ancora peggiore, poi, è il rischio di invocarne la moralità, generando un effetto di amplificazione identitaria ancora più forte, contrapponendo la giustezza del “noi” contro l’egoismo dell’“io” — come se potesse esistere davvero un “noi” senza gli “io”. Qui il campo aperto della discussione razionale, spiazzato dal contesto di ansia e incertezza, cede il passo alla tendenza allo schieramento, alla polarizzazione, al conflitto culturale, prima ancora che politico.
Non può esistere responsabilità senza solidarietà. Ma la solidarietà non può essere un mito da invocare quando non si trovano altri strumenti politici a disposizione, né un valore morale da sbandierare per dividere gli schieramenti in buoni e cattivi. Ogni solidarietà ha bisogno, invece, di una comunità entro cui esercitarsi. La sociologa statunitense Francesca Polletta si è chiesta, nel suo libro Inventing the Ties That Bind, com’è che si riesca, ad alcune condizioni, a comportarsi in maniera solidale con persone sconosciute, lontane per appartenenza etnica, religiosa, socio-culturale. Facendo leva sul concetto di “comunità immaginate”, originariamente proposto dallo storico del nazionalismo Benedict Anderson, Polletta illustra un campionario di casi di studio in cui l’attivazione di solidarietà si è sviluppata dalla capacità di persone diverse di “immaginare” legami con altri sconosciuti, con i quali non avrebbero mai interagito direttamente, generalizzando passate esperienze concrete di relazioni solidali. Partire, dunque, dalla memoria dei vantaggi passati di relazioni solidali concrete — in una comunità di quartiere o vicinato, ad esempio —, per poi applicare gli stessi comportamenti ad altri contesti analoghi, sebbene con persone diverse, lontane, mai viste prima.
Alla base di questo processo di generalizzazione ci sono i meccanismi stessi con i quali il canale rapido della nostra mente ci spinge a comprendere gli altri sconosciuti, a interpretarne l’affidabilità. Se non si hanno a disposizione relazioni passate da generalizzare, gli altri vengono più facilmente allontanati ed etichettati sulla base di tratti esteriori, comportamenti, abitudini, accentuandone la diversità da sé. In una società globalizzata e multiculturale, in aree metropolitane affollate di volti diversi, può essere molto difficile immaginare legami solidali con persone sconosciute, tanto diverse da sé per aspetto, accento, risorse, gusti. I confini della collettività verso cui sentirsi solidali, l’ampiezza del gruppo di altri verso cui essere responsabili, rischia di assottigliarsi in un cerchio concentrico sempre più ristretto intorno a noi, fino a coincidere, all’estremo, con i propri affetti più stretti.
Il successo auspicato della campagna vaccinale incarna il fatto che la possibilità di riguadagnare le libertà sospese non dipende soltanto dalla nostra scelta di vaccinarci, ma soprattutto da quella degli altri. L’agognata “immunità di gregge” non sarà composta soltanto dai pochi che compongono le confortevoli bolle minoritarie di persone simili a noi per valori e ragionamenti, ma dei tanti altri, di tutti gli altri, che compongono una soglia di decine di milioni di persone. Non basterà appellarsi alla giustezza morale della vaccinazione, né alla ragionevole sicurezza statistica dei risultati sperimentali per convincere chi rischia relativamente poco con il COVID-19 a sottoporsi a un vaccino i cui effetti possono, comprensibilmente, spaventare.
La solidarietà non può essere un mito da invocare quando non si trovano altri strumenti politici a disposizione, né un valore morale da sbandierare per dividere gli schieramenti in buoni e cattivi.
In tempi straordinari si raccoglie ciò che si è seminato in tempi ordinari e, ora, la necessità di contenere i danni toglie il fiato a discorsi proiettati verso un orizzonte più lungo. Tuttavia, non si può pretendere di cogliere i frutti di una collettività solidale quando questa è lacerata. Per costruirla, c’è bisogno di uno sguardo lungo, di far circolare sostegno, reciprocità, cura, in relazioni concrete, che consentano di immaginare comunità ampie verso cui sentirsi responsabili, spiazzando gli schemi di appartenenze ristrette che prosperano, altrimenti, nell’incertezza. Per questo, è cruciale che si continui a discutere di come creare solidarietà e responsabilità collettiva, ripartendo dai meccanismi sociali che la producono, non a partire da un’astratta moralità. Iniziare questa discussione non risolverà molto ora, ma ci consentirà di essere pronti alla prossima crisi.