S avita Halappanavar muore all’ospedale universitario di Galway, nella Repubblica d’Irlanda, il 28 ottobre 2012. La morte è dovuta alle complicanze di un aborto spontaneo che le aveva causato una sepsi, ma che secondo i medici dell’ospedale non metteva a rischio la sua vita: Halappanavar aveva richiesto un aborto chirurgico, negato perché il feto presentava ancora battito cardiaco.
C’è l’ombra della sua morte dietro la storica vittoria che il 25 maggio 2018 ha portato all’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione irlandese, introdotto nel 1983 per rendere l’interruzione di gravidanza virtualmente impossibile e l’aborto un crimine contro la persona. Negli ultimi 25 anni, si calcola che circa 170.000 donne irlandesi siano andate ad abortire nel Regno Unito, dove la legge consente l’interruzione di gravidanza entro la ventiquattresima settimana di gestazione; con l’eccezione dell’Irlanda del Nord, dove la legge riflette lo stesso atteggiamento punitivo del resto dell’isola.
Per capire la portata di quello che è successo il 25 maggio non basta seguire i post commossi delle attiviste della campagna Repeal the 8th sui social. Fino all’ultimo, i media nazionali prospettavano un margine di vantaggio molto ristretto per il sì: nessuno si aspettava che il risultato fosse così ampiamente a favore dell’abolizione, con più del 60% di sì. A spoglio ancora in corso, il partito del No aveva già ammesso la sconfitta. Davvero un trionfo per le donne dell’Éire, uno dei paesi più conservatori dal punto di vista sociale in tutta l’Unione, dove almeno fino al 1993 le donne che rimanevano incinte fuori dal matrimonio, venivano violentate o erano semplicemente vivaci venivano internate, separate dai figli e costrette ai lavori forzati nelle Magdalene Laundries, conventi riadattati a lavanderie (le loro storie sono state parzialmente raccontate al cinema dal film Philomena di Stephen Frears e da Magdalene di Peter Mullan). Nella postfazione del suo romanzo Te la sei cercata (Hot Spot Il Castoro, 2017), la scrittrice irlandese Louise O’Neill – attivista della campagna referendaria – racconta che solo l’1% delle violenze sessuali arriva a processo. L’Irlanda non è un paese per donne, e per questo le donne hanno deciso di prenderselo, sulla spinta dell’entusiasmo per il passaggio del referendum sul matrimonio paritario che nel 2015 ha consentito a tutti di sposarsi, a prescindere dall’orientamento sessuale.
Fino all’ultimo, i media nazionali prospettavano un margine di vantaggio molto ristretto: nessuno si aspettava che il risultato fosse così ampiamente a favore dell’abolizione, con il 66,4 % di sì.
L’avvento dei fascismi o di governi di destra ultraconservatrice porta inevitabilmente a una restrizione dei diritti civili per tutti, ma soprattutto per le donne, i disabili, le minoranze etniche e di orientamento sessuale. La legge sull’aborto in Polonia, introdotta dopo la caduta del Muro e la fine del regime comunista e progressivamente ristretta da allora, proibisce l’interruzione di gravidanza tranne in caso di aborto o grave malformazione del feto. Nel 2016 e di nuovo quest’anno il governo polacco ha cercato di introdurre norme per la criminalizzazione totale dell’aborto: da qui nasce la Czarny Protest, la “protesta nera” delle donne polacche, che sono scese in piazza a più riprese per manifestare contro questa violazione della loro libertà individuale. A queste manifestazioni si attribuisce il merito di aver generato una protesta analoga, Strike 4 Repeal, proprio in Irlanda.
E da noi? Vale quello che si diceva poco sopra sull’avvento della destra ultraconservatrice. La situazione della legge 194 è da tempo di dominio pubblico: una norma equilibrata resa in sostanza quasi inapplicabile da un lavoro sottotraccia che ne sfrutta un’inevitabile debolezza, ovvero il comma che tutela l’obiezione di coscienza, introdotto per non costringere i medici che si erano specializzati prima della sua promulgazione a compiere operazioni contro la loro etica personale e fino a quel punto illegali. A quarant’anni da quella norma, circa il 70% dei medici ginecologi operanti nelle strutture pubbliche italiane non compie aborti, ufficialmente per motivi di coscienza, ufficiosamente – come dicono apertamente gli operatori sanitari – perché là dove il primario si dichiara antiabortista, chi fa gli aborti non fa carriera e passa il resto della sua vita da medico a fare aborti. Una situazione viziata da un’insopportabile ipocrisia, dato che l’obiezione è autocertificata e nessuno può metterla in dubbio. L’informativa presentata alla Camera dei Deputati nel 2016 dall’allora Ministra della Salute Beatrice Lorenzin in risposta a un richiamo del Consiglio d’Europa certifica che le interruzioni di gravidanza sono diminuite, e che l’allarme sull’obiezione di coscienza è ingiustificato. Nel 2017, Nicola Zingaretti – presidente della Regione Lazio – ha aperto un bando di concorso per l’Ospedale San Camillo di Roma per ricercare due dirigenti medici non obiettori. Un bando che ha aperto un mare di polemiche, fra l’opposizione della stessa Ministra e gli strali della Conferenza Episcopale Italiana, vero motore (come braccio armato della Chiesa Cattolica) del silenzioso boicottaggio ai danni delle donne italiane, il cui diritto a disporre del proprio corpo viene sabotato facendo affidamento sulla vergogna. Nel frattempo – i dati sono stati riferiti alla Camera sempre da Lorenzin nel 2017 – in Italia si stima che gli aborti clandestini siano fra i 15 e i 20.000 all’anno.
A quarant’anni dalla legge 194, circa il 70% dei medici ginecologi operanti nelle strutture pubbliche italiane non compie aborti.
E proprio in questi giorni, forti della virata del paese a destra, le associazioni antiabortiste hanno rialzato la testa, con giganteschi cartelli piantati in tutta Roma che tracciavano arditi paralleli fra il femminicidio e l’aborto (tirando in ballo gli aborti selettivi, che in Italia sono illegali, e mettendoli sullo stesso piano con l’uccisione di una donna per il solo fatto di essere una donna) o negavano la scelta della donna con un artificio retorico: “Tu sei qui perché tua mamma non ti ha abortito” e non perché ha scelto, eventualmente, di averti. Non è difficile vedere in filigrana, oltre alla disonestà intellettuale (e alla vasta disponibilità finanziaria di queste associazioni) l’idea che le posizioni a favore della scelta individuale siano in realtà “pro-aborto”, come se l’assolutismo che caratterizza chi vi si oppone fosse trasferibile in maniera speculare su chi invece spinge per lasciare a ogni donna la possibilità di decidere per sé. Le donne sono infide, del resto, assassine, non vogliono portare la colpa della loro promiscuità: per questo bisogna obbligarle con la forza a portare avanti gravidanze non volute, e là dove la forza fallisce si prova con il senso di colpa, o il paternalismo del “poi sarai contenta”. Viene anche spontaneo collegare questa risorgenza degli antiabortisti a quella analoga dei movimenti neofascisti, che hanno fallito la corsa per le politiche nazionali ma stanno vincendo quella delle politiche locali, e ai populismi vari, che della facile propaganda fanno la loro base ideologica.
La vergogna è l’ostacolo più duro da superare in quasi tutto quello che riguarda il corpo femminile. La legge sulla violenza sessuale, come abbiamo scoperto dopo l’esplosione del movimento antimolestie, limita la denuncia a sei mesi dopo il fatto, e in questo modo garantisce l’impunità alla stragrande maggioranza degli stupratori, che sono a larga maggioranza noti alle loro vittime e solo in rari casi estranei aggressori: il 4,6%, secondo i dati pubblicati dall’Istat nel 2017. Il resto lo fa la sistematicità con cui si riversa sulle vittime la colpa dell’aggressione subita. Dell’aborto si parla ancora meno: la vergogna per l’interruzione in sé si appaia a quella per l’evidenza del rapporto sessuale, sempre colpevole. Una colpa che va espiata rinunciando a esercitare il diritto di interrompere la gravidanza in sicurezza, e affrontando piccole e grandi violenze e umiliazioni quotidiane, dal farmacista che non ti fornisce la contraccezione di emergenza perché “obiettore” all’infermiere del pronto soccorso ginecologico che fa battute sulla tua vita sessuale, alla coda interminabile fino dall’alba per poter effettuare l’intervento con l’unico medico disponibile.
Le donne irlandesi hanno affrontato tutto questo a viso aperto, raccontando i loro aborti, i voli Ryanair per Londra, l’emorragia sul volo di ritorno, la paura, la desolazione, il sollievo di non essere più incinte, le gravidanze successive accolte con gioia. Forse questo è lo scatto che manca alle donne italiane per riprendere il pieno controllo della loro fertilità e della loro salute riproduttiva: dire “io ho abortito” a voce piena e viso aperto.