C ome valutiamo qualcuno che sceglie di intrattenere una relazione multipla rispetto a chi decide di ricalcare lo schema della famiglia nucleare? Perché dovremmo preferire la vita di campagna a quella di città? Come distinguiamo un buon lavoro da uno alienante? Sono alcuni dei quesiti che pone Rahel Jaeggi nell’introduzione di Critica delle forme di vita, testo del 2014 pubblicato di recente in italiano da Mimesis edizioni, e curato da Giorgio Fazio e Walter Privitera.
Jaeggi è docente di Filosofia pratica alla Humboldt-Universität di Berlino, ed è esponente di spicco della nuova generazione della Scuola di Francoforte, che si propone oggi di riattualizzare la tradizione che faceva originariamente capo a Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Le similarità con la prima generazione della Scuola sono presenti nella linea filosofica di Jaeggi sia naturalmente dal punto di vista delle scienze sociali, che, come nota Giorgio Fazio – ricercatore in Filosofia politica alla Sapienza e studioso di teoria critica contemporanea – nel quadro dei parallelismi con il contesto storico-politico attuale, perchè “la costellazione storica con cui si confrontavano Horkheimer e Adorno presenta diversi punti di contatto con i fenomeni che stiamo vivendo attualmente. I due studiosi si sono concentrati sull’analisi delle forme di capitalismo sorte dopo la crisi del ’29, così come anche sui meccanismi incarnati dal totalitarismo; Jaeggi oggi torna su alcuni elementi chiave, la cornice neoliberista e le crisi della democrazia in primis”.
In questo senso si rende evidente la necessità di recuperare un progetto di teoria critica forte e interdisciplinare, che prenda in esame tutto il ventaglio di fenomeni complessi che influenzano il dibattito e le crisi della contemporaneità, attraverso punti di vista sfaccettati: dalla filosofia all’economia politica, fino alla riflessione sui processi culturali, proprio come fece la prima Scuola, e che la pensatrice aveva già anticipato in Forme di vita e capitalismo, una raccolta di cinque saggi che introducevano il suo lavoro indagando il rapporto tra pratiche, forme di vita e inadeguatezza di queste nel contesto capitalista.
In questo nuovo testo l’autrice non riflette tanto sulla necessità di un nuovo paradigma filosofico che si limiti ad esaminare oggetti diversi, ma sull’esigenza di esaminare diversamente gli oggetti, di cambiare prospettiva e analizzare il reale sotto una luce nuova. La critica delle forme di vita non riguarda infatti solo il modo in cui dobbiamo agire, ma anche il contesto in cui lo facciamo ed entro il quale ci orientiamo, e quindi anche che tipo di modello collettivo d’interpretazione adottiamo. Da questo punto di vista Jaeggi imputa ad alcune tendenze della modernità, quali il liberalismo politico che fa capo a Rawls e una certa concezione della differenza categoriale tra morale ed etica inquadrata da Habermas, degli sviluppi che hanno progressivamente portato verso la credenza che non possa esistere un punto di vista valido da cui criticare le forme di vita. La posizione della filosofa nei confronti di questa complessiva astensione etica è fortemente critica, in quanto sostiene che adottando uno sguardo di questo tipo sulla realtà, e astenendosi dal giudizio, si arriva al punto in cui non si riescono più a percepire le forme di vita come tali, e si cessa di credere nella possibilità di costruire delle alternative diverse.
Jaeggi è esponente di spicco della nuova generazione della Scuola di Francoforte.
Le forme di vita vengono sostanzialmente essenzializzate dalla cornice del discorso liberale e, cristallizzandole, diventa più difficile immaginare che esistano delle prassi diverse con cui poterle decostruire e criticare, accreditando la convinzione che non siano modificabili. Ciò che consente a questa tesi liberale della neutralità totale di proliferare è soprattutto la posizione che guarda ai diversi modi di vivere come mere preferenze private, come scelte e abitudini personali che riguardano gusti e scelte non questionabili e criticabili.
All’interno dei processi democratici, però, la prassi filosofica costituisce ancora una risorsa indispensabile, che agisce dall’interno, ed è lo strumento privilegiato con il quale poter denunciare i tratti alienati di una forma di vita e quindi anche poterla criticare, non tanto come giudici esterni, ma a partire dall’interno delle forme di vita stesse. La tesi centrale di Jaeggi è infatti costituita dall’assunto per cui:
Le forme di vita possono essere valutate (e sotto certi aspetti reciprocamente confrontate) proprio perché incarnano strategie di risoluzione dei problemi. I criteri per il loro successo o fallimento possono quindi essere stabiliti sulla base della loro effettiva capacità di risolvere i problemi che sono chiamate ad affrontare.
Il concetto di forma di vita è così intrinsecamente collettivo, e già nel modo di essere inteso e definito incarna una specifica visione del mondo. Le forme di vita sarebbero infatti degli ordinamenti collettivi della vita umana, che non esistono in quanto individuali, ma soltanto in quanto condivisi socialmente, come critiche e soluzioni comuni ai problemi. In alcuni tratti il modello collettivo proposto da Jaeggi può ricordare le tendenze presenti di gestione tecnocratica, ma vi si distanzia smantellando la separazione tra pubblico e privato tipica del sistema liberale.
La critica delle forme di vita non riguarda solo il modo in cui dobbiamo agire, ma anche il contesto in cui lo facciamo ed entro il quale ci orientiamo.
Ci troviamo sempre all’interno di pratiche sociali, e agendo una qualsiasi pratica ci si trova sempre all’interno di un campo collettivamente normato. Queste deliberazioni e norme hanno dato forma a diversi modi di vita, spesso influenzati dai problemi passati. Ricostruendo queste pratiche e il contesto circostante possiamo riuscire a trovare delle risposte e a comprendere come procedere, continuando a costruire nel merito di queste. La dimensione collettiva del concetto riguarda anche il fatto che chiunque sia partecipe di una forma di vita sia anche un suo agente attivo: “Le regole dei giochi sono fatte da noi e valgono solo fin tanto che i giocatori accettano di condividerle.”
Alla luce di questo è interessante una riflessione di Jaeggi sulle donne di seconda generazione del quartiere berlinese di Kreuzberg, che ricorda Giorgio Fazio. Secondo la studiosa non si può affermare che le comunità di seconda generazione siano del tutto vincolate ai valori tradizionali, così come non si può nemmeno necessariamente prescindere da ogni giudizio per non essere tacciati di prospettiva coloniale. Serve guardare il fenomeno alla luce della complessità e dei problemi di quella specifica forma di vita, delle sue tendenze emancipative oppure vincolate. È fondamentale, infatti, che le forme di vita non vengano mai essenzializzate, ma sempre contestualizzate e discusse all’interno delle forme di vita stesse, per cercare di comprendere se le risposte che queste forme di vita forniscono sono progressive o regressive rispetto al loro contesto e alle contraddizioni a cui danno luogo.
In una definizione dello storico Arno Borst riportata nel testo si legge che le forme di vita medievali sono inquadrabili come: “forme ratificate di comportamento sociale”. In questo senso le forme di vita avrebbero una connotazione normativa, costituirebbero un orizzonte di attesa definito, sia implicito che esplicito, e alimenterebbero degli schemi d’azione standardizzati, rendendo più o meno adeguate certe pratiche sociali. Queste sarebbero così sempre intessute di riferimenti normativi, di valori, sia etici sia funzionalistici. Secondo Fazio “è cruciale ricostruire i modi in cui le pratiche sociali sono intessute di normatività. Non solo di valori, ma proprio di indicazioni su come seguire condotte e prassi orientate da formazioni sociali, tutti elementi che non sono propriamente scelte del singolo. Queste pratiche sociali spesso entrano in crisi, i riferimenti normativi si rovesciano nel loro contrario: norme, valori, si contraddicono vicendevolmente. Ragionare su queste contraddizioni è il punto di partenza per una critica che apre l’orizzonte a trasformazioni in grado di incorporare le critiche, anche quelle del passato, ed elaborare, immaginare oltre queste.”
Ci sarebbero diversi esempi da poter fare per illustrare questo meccanismo: basti pensare al paradigma neoliberista che promuove spinte di auto-imprenditorialità per legittimare la promozione di sé dei soggetti ma oscura e rimuove quelle forme di riconoscimento intersoggettivo, di cooperazione solidale e di diritti sociali che sole possono offrire un fondamento reale alle istanze di autonomia e di libertà dei soggetti, cosicché queste ultime alla fine sono destinate a fallire e a rovesciarsi nel loro contrario, ossia in nuove forme di alienazione e di eteronomia; fino alle tendenze di un certo femminismo che suo malgrado – come ha mostrato Nancy Fraser – ha rischiato di essere strumentalizzato dal discorso neoliberista nella misura in cui ha smarrito la capacità di legare le giuste rivendicazioni del riconoscimento e della parità di diritti ad una lotta per la giustizia sociale. In questo modo ci si trova a rincorrere costantemente dei segnali schizoidi che il sistema emana, che generano spaesamento e difficoltà nel decifrare la radice reale delle nostre scelte.
È fondamentale che le forme di vita non vengano essenzializzate, ma sempre contestualizzate e discusse all’interno delle forme di vita stesse, per comprendere se le risposte che queste forme di vita forniscono sono progressive o regressive rispetto al loro contesto.
Dal momento in cui alcune forme di vita si arroccano in questa direzione su tendenze sempre meno consone e percorribili possono essere definite inabitabili, così come elaborato dal teorico Terry Pinkard: “Proprio come le giraffe dal collo corto hanno difficoltà a sopravvivere, una democrazia, una città o una famiglia che non corrispondono al proprio concetto sono, ciascuna a suo modo, formazioni inabitabili, che sabotano sé stesse.”
Ma cosa distingue il successo dal fallimento di una forma di vita? Cosa la rende più o meno abitabile? Jaeggi riflette nel corso della sua trattazione su come non sia più funzionale discutere di vita buona o felicità, di come questi paletti abbiano ingabbiato la riflessione teorica su parametri non più utilizzabili in maniera efficace per analizzare le forme di vita. Il buon funzionamento di una forma di vita sarebbe invece la capacità di rendersi razionale, e affrontare quindi con razionalità i problemi che sorgono al suo interno. Non si tratta tanto di come vogliamo vivere, ma “del rapporto tra ciò che noi vogliamo (o dovremmo volere) e ciò che già facciamo e possiamo fare”. Le forme di vita costituiscono così una dimensione dinamica, in grado di adattarsi e modificarsi per rendere sempre più razionali ed efficaci i suoi metodi di risoluzione delle crisi, perché, come scrive Jaeggi: “La critica è al tempo stesso parte della crisi e, come tale, parte di ciò che costituisce la dinamica delle forme di vita.”
L’ostacolo principale a questa capacità di evoluzione è la sospensione del giudizio liberale, che tenta di opporre resistenza ai processi di apprendimento delle forme di vita e minaccia la loro cristallizzazione all’interno di dimensioni inabitabili. La soluzione principale su cui orientarsi resta comunque, secondo la teorica, la strada della critica. Nello specifico una critica immanente, che sia in grado di cogliere le contraddizioni interne alle forme di vita e le diverse norme che le compongono, avendo la capacità di spingersi oltre queste e riuscendo a superare le contraddizioni e a costruire qualcosa di nuovo. Secondo Fazio, “la linea della critica immanente costituisce l’unica soluzione applicabile in questo momento. Da un lato perché l’idea che un tipo di critica esterna possa funzionare genera un cortocircuito: non si può pensare di elaborare uno schema astratto di società giusta e poi applicarlo alla società attuale cercandone le criticità, perché non porterebbe a molto, rischierebbe un approccio paternalista ed elitario nei confronti degli attori sociali. Dall’altro lato la critica esclusivamente interna renderebbe facile cadere nel relativismo, dando vita a istanze poco universalizzabili”.
Da qui l’importanza di una critica che rifletta sugli effettivi blocchi che si generano all’interno della società, cercando delle istanze che possano portare alla costruzione di percorsi emancipativi e trasformativi universalizzabili, che superino gli ostacoli e generino prospettive alternative. La prassi della critica immanente sarebbe quindi quella della comprensione dei valori e delle pratiche sociali che stanno alla base del paradigma, per mostrare come entrano in contraddizione tra loro e si rovesciano nell’accezione contraria, e aspirare a una critica che fornisca risposte positive a quei valori che non trovavano soluzione precedentemente.
La critica immanente punta alla comprensione dei valori e delle pratiche sociali che stanno alla base della singola forma di vita, per fornire risposte positive che non trovano soluzione in essa.
La critica delle forme di vita costituisce così un orizzonte nuovo della critica sociale, che ha caratteri di razionalità ed è in grado, attraverso prassi specifiche, di muoversi all’interno della complessità del reale, tenendo insieme tutti i suoi elementi e comprendendone i movimenti e le crisi, conscia però degli strumenti con cui poterle risolvere. Questa linea si inserisce comunque all’interno di un panorama critico, non tanto di pars costruens quanto più di pars decostruens, che è senz’altro oggi un universo molto più florido. Le spinte propulsive verso soluzioni alternative ed elaborazioni nuove non sono, infatti, molto diffuse.
Ciò che però distingue il lavoro di Jaeggi da una certa critica sociale che permea totalmente la contemporaneità è la metodologia estremamente efficace con cui mette a fuoco le criticità delle forme di vita, attraverso una prassi di lavoro solida e strutturata, con cui esamina il reale cercando di ristabilire un vero e proprio sistema critico. Da questo punto di vista la lezione di Jaeggi è cruciale, perché continuare a tenere aperto un orizzonte critico è necessario, ma solo se la critica è immanente, razionale e sa considerare in un sistema strutturato i suoi argomenti.
L’obiettivo di lavori come quello di Jaeggi non è infatti fornire delle risposte, ma presentare strumenti metodici con cui porsi le giuste domande sulla realtà che ci circonda e sulle dinamiche che la accompagnano. Ci sarebbe un urgente bisogno anche della pars costruens, di elaborazioni che oltre a criticare e smontare presentino delle soluzioni, ma ricostruire una teoria critica contemporanea fondata su solide premesse è senz’altro un buon punto di partenza.