D al 17 ottobre 2016, quando è cominciata l’offensiva su Mosul, i media si affannano a dare un annuncio più volte rimandato: lo Stato Islamico è finito. Se cade Mosul, dove nel luglio 2014 al-Baghdadi si è autoproclamato Califfo, viene meno la legittimità del leader assoluto, già messa alla prova dalla progressiva erosione territoriale degli ultimi mesi. Così si dice. E così, lo scorso autunno, gli inviati di guerra si sono precipitati in Iraq, pronti a celebrare la notizia con reportage sul campo. Dopo qualche giorno sono tornati a casa, delusi. Preparate per tempo a una guerra asimmetrica in cui eccellono, le truppe del Califfo hanno resistito più a lungo del previsto. A distanza di cinque mesi, oggi che quella resistenza sembra cedere, i giornalisti sono ripartiti in gran fretta. La riconquista di Mosul appare vicina. Sarebbe un gran peccato bucare la notizia.
Ma sarebbe un peccato altrettanto grave ritenere che, nelle guerre irregolari come questa, ci siano vittorie e sconfitte definitive. Ce lo fa credere un vecchio vizio del giornalismo: quello che gli accademici più avvertiti definiscono conflict fetish. L’idea che la violenza – la violenza fisica, non quella storica, politica, economica, sociale – sia l’unica lente attraverso cui osservare un Paese in conflitto.
Per capire che la riconquista di Mosul non conciderà con la fine dello Stato Islamico, e tanto meno con la fine della guerra, né lì né negli altri fronti del conflitto sfrangiato contro l’Is, basta allargare un po’ l’orizzonte. Fare un passo indietro, collocare la battaglia dentro un contesto più ampio come hanno provato a fare alcuni libri usciti nell’ultimo anno.
Per capire che la riconquista di Mosul non conciderà con la fine dello Stato Islamico, e tanto meno con la fine della guerra, basta allargare un po’ l’orizzonte.
Il primo e più noto, è ISIS. Inside the Army of Terror: un lavoro scrupoloso del giornalista statunitense Michael Weiss, senior editor di The Daily Beast, e del ricercatore siriano Hassan Hassan. Pubblicato nel 2015 e aggiornato di recente, il libro funziona proprio perché combina un doppio passo: la ricerca giornalistica sul campo, orizzontale, e uno sguardo più analitico, verticale, sulle ragioni che hanno favorito l’ascesa del gruppo di al-Baghdadi. Ragioni che i due autori riconducono all’eredità nefasta di Saddam Hussein e di Abu Musab al-Zarqawi, il jihadista giordano leader di al-Qaeda in Iraq e vero padre putativo dello Stato Islamico. Il primo è importante, scrivono Weiss e Hassan, perché la sua campagna per la fede islamica degli anni Novanta, pensata per consolidare il consenso interno, ha prodotto in realtà una sorta di ermafroditismo ideologico, frutto della combinazione tra baathismo – l’ideologia secolare alla base del regime di Saddam Hussein e degli Assad in Siria – e islamismo radicale. Saddam pensava di usare con disinvoltura la carta del proselitismo religioso, ma le cose gli sono sfuggite di mano. Molti funzionari governativi hanno finito per credere più all’Islam salafita che al baathismo di regime e, così, quando l’invasione americana ha smantellato le strutture istituzionali del Paese, parte di loro ha trovato naturale aderire alla resistenza prima e allo Stato Islamico poi.
La funzione della brutalità
Esibita nella propaganda destinata soprattutto a noi occidentali – uno dei tanti pubblici a cui si rivolge la comunicazione dell’Is – la brutalità è un tratto distintivo del movimento di al-Baghdadi. Secondo Fawaz Gerges, docente alla London School of Economics and Political Science, autore di ISIS. A History e di un libro ormai classico sulla parabola di al-Qaeda, le ragioni di tale brutalità sono principalmente tre. La prima affonda le radici nella cultura brutalmente repressiva che, dal dopoguerra, ha caratterizzato i governi della regione irachena, per i quali dissenso e minaccia esistenziale erano equivalenti. Su questo lascito, tristemente esemplare, si sono innestati gli estremismi di “una generazione del jihadismo-salafita e post-qaedista, focalizzata sull’identità e sulle politiche comunitarie”, attorno ai quali al-Baghdadi ha poi edificato “un’identità settaria pan-sunnita” in contrasto “con l’identità pan-sciita rappresentata dai regimi settari di Damasco e Baghdad sostenuti dall’Iran”, all’interno di una “guerra intra-islamica” inaugurata già da al-Zarqawi con la sua ossessione anti-sciita e anti-iraniana, in cui si univano preoccupazioni geopolitiche (il Medio Oriente consegnato a Teheran) e dottrinali (la deviazione dell’“apostasia” sciita rispetto all’ortodossia del jihadismo-salafita sunnita). L’ultima di queste matrici ha a che fare con la predominante componente rurale tra i militanti dello Stato Islamico, che Gerges spiega così: “mentre le due precedenti ondate jihadiste degli anni Settanta e Novanta avevano leader provenienti dalla élite sociale e le loro basi erano perlopiù composte da laureati della classe media e medio-bassa, i quadri dell’Is sono rurali e agrari, mancano cioè di capacità teologiche e intellettuali”.
La brutalità non è soltanto un fattore strumentale alla propaganda. Ha infatti anche una funzione strategica, ricordano per esempio Simon Staffell e Akil Awan nell’introduzione a Jihadism Transformed, un testo indispensabile per aggiornare lo stato dell’arte della galassia jihadista, polarizzata intorno all’antagonismo tra al-Qaeda e lo Stato Islamico. La brutalità non è fine a sé stessa, ha una funzione “didattica”, come deterrente alla rivolta delle popolazioni che finiscono sotto il controllo dei militanti, e risponde a obiettivi di lungo termine, messi nero su bianco in veri e propri trattati di strategia militare. Quello più noto, redatto nella prima metà dei Duemila dal qaedista egiziano Abu Bakr Naji, è La gestione della barbarie, un libretto in pdf che è “insieme un manuale di guerriglia e un manifesto per la nascita del Califfato”. L’autore scrive che il sangue va esibito e rivendicato, che il jihad è “violenza, crudeltà, terrorismo” cui “le masse devono abituarsi”, e che ogni campagna militare deve seguire tre fasi, equivalenti a un utilizzo strategicamente diverso della violenza al fine di imporre un “ordine totale” alle società conquistate.
Tutti coloro che si sono occupati dello Stato Islamico hanno fatto menzione in modo più o meno approfondito del libello di Abu Bakr Naji, molto diffuso tra i comandanti dell’Is e tradotto dall’analista William McCants, autore del più recente The ISIS Apocalypse, saggio centrato sulla natura profetica e apocalittica del progetto di al-Baghdadi. Ma sulla brutalità dell’Is è sempre Fawaz Gerges a fornire qualche utile indicazione supplementare. A suo dire, oltre a La gestione della barbarie sarebbero fondamentali altri due testi. Il primo è Introduzione alla Giurisprudenza del Jihad di Abu Abdullah al-Muhajir, un egiziano che ha combattuto in Afghanistan con Osama bin Laden. Il secondo è Guida essenziale per la preparazione (al jihad) di Sayed Imam al-Sharif, meglio conosciuto come dottor Fadl, vecchio sodale del numero uno di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, dal quale ha preso le distanze soltanto dopo essere finito in carcere e aver rinunciato alla lotta armata. Fino a pochi anni prima, però, il dottor Fadl la pensava diversamente. In particolare tra il 1987 e il 1988, quando in Guida essenziale per la preparazione sostiene che il jihad sia la condizione naturale dell’Islam. Per tutti e tre gli autori, ricorda Fawaz Gerges, la brutalità – che provoca sottomissione e paura, caos e terrore – è la chiave del successo, la moderazione è sinonimo di sconfitta. L’obiettivo è unico: istituire la sovranità divina (hakimiyya) sulla terra.
L’eredità post-coloniale
In un libro importante uscito recentemente, Salafi-Jihadism. The History of an Idea, il ricercatore Shiraz Maher ricorda che l’idea di ricostruire una società retta da leggi divine è riconducibile alle correnti anti-coloniali di pensatori revivalisti. Tra loro spiccano l’egiziano Muhammad Abduh (1849-1905) e il persiano Jamal al-Din al-Afghani (1838-1897). Cresciuti in un ambiente segnato dall’egemonia dell’Occidente, dal collasso del Califfato ottomano e preoccupati per la stagnazione del mondo islamico, entrambi invocano il ritorno del raziocinio nella giurisprudenza islamica a favore di un “modernismo islamico”. In un libro dedicato ad Abu Muhammad al-Maqdisi, il più importante ideologo contemporaneo del jihad, lo studioso Joas Wagemakers spiega come l’obiettivo di al-Afghani e Abduh fosse di tornare al primo periodo dell’Islam, ma non in chiave reazionaria come si potrebbe pensare, bensì per “liberarlo” dal successivo fardello storico-giuridico.
La posizione di Sayyid Qutb, l’uomo che avrebbe contribuito a trasformare l’islamismo politico in un’ideologia radicale, si sviluppò all’interno della Fratellanza musulmana.
Contestualmente, però, una corrente più aggressiva, dottrinaria e ostile dell’Islam politico si stava sviluppando nell’India britannica. La guidava Abul Ala al-Maududi (1903-1979), intellettuale pachistano secondo cui “la vera antitesi della democrazia secolare occidentale” era l’Islam. Al-Maududi fu anche fondatore del Jamaat-e-Islami, un movimento paragonabile alla Fratellanza musulmana. E proprio all’interno della Fratellanza musulmana – fondata nel 1928 in Egitto da Hasan al-Banna – si sviluppò la posizione dell’uomo che avrebbe contribuito a trasformare l’islamismo politico in un’ideologia radicale, Sayyid Qutb.
Nato nel 1906 in un villaggio dell’Alto Egitto, impiccato nel 1966, Sayyid Qutb è essenziale per la storia del radicalismo islamista così come per quella dello Stato Islamico. Il settarismo del gruppo di al-Baghdadi – spiega Hassan Hassan in un paper dello scorso giugno – è riconducibile proprio all’incontro tra l’avanguardismo rivoluzionario di Qutb, portato in Arabia Saudita dai Fratelli Musulmani perseguitati in Egitto e Siria, e il salafismo dottrinario del Paese dei Saud: una dottrina ibrida ossessionata dalla necessità di definire il perimetro dell’Islam autentico attraverso lo strumento della scomunica (takfir). È lo stesso Sayyid Qutb a sollecitare, per tutta la vita, la necessità di un rinnovamento che ponga la società al servizio di Dio, ovviando al decadimento del mondo islamico, a suo dire pericolosamente naufragato nella jahiliyya, l’età dell’ignoranza. Per queste sue idee – attinte dal subcontinente indiano e traghettate nel mondo arabo-musulmano – Sayyid Qutb viene sbattuto in carcere dal presidente egiziano Nasser. È lì che Qutb redige il manifesto Pietre miliari, pubblicato nel 1964 e subito messo al bando.
Nel più bel libro dedicato all’attacco alle Torri gemelle, Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’11 settembre, e nella più recente raccolta di saggi The Terror Years. From al-Qaeda to the Islamic State, Lawrence Wright dedica ampio spazio alla vita di Qutb e al suo Pietre miliari, un testo il cui “squillante tono apocalittico può essere paragonato a Il contratto sociale di Rousseau e al Che fare? di Lenin”. Per Qutb “l’umanità è sull’orlo di un precipizio” e “in questo momento cruciale e caotico è arrivato il turno dell’Islam e della comunità musulmana”. Ad “avviare il movimento della rinascita islamica”, sostiene l’egiziano, “dev’esserci un’avanguardia che compie il primo passo con la necessaria determinazione, per poi procedere lungo la via”. Una via che, per la prima volta, passa anche per la condanna esplicita del “nemico vicino”, i regimi corrotti e falsamente islamici del mondo arabo-musulmano. Gli autori dei tre libri-manifesto che secondo lo studioso Fawaz Gerges hanno più condizionato l’interpretazione del jihad dell’Is non fanno dunque che radicalizzare le idee di Sayyid Qutb, e rappresentano la degenerazione del salafismo jihadista nella cosiddetta giurisprudenza del sangue. Per loro, i sistemi politici contemporanei sono espressione dell’apostasia, l’architettura istituzionale dello Stato-nazione va abolita, le leggi divine imposte attraverso una vera e propria pulizia culturale violenta. I jihadisti-salafiti sono un’avanguardia che ha il dovere di mettere a ferro e fuoco il mondo, gestendo il caos che ne deriva con ogni mezzo, purché retto da argomenti teologici.
Il padrino dello Stato Islamico
Il già citato libro di Shiraz Maher rappresenta quindi un ottimo strumento per comprendere l’evoluzione del pensiero islamista radicale, oltre che per collocare lo Stato Islamico dentro il contesto che più gli è proprio, la storia del salafismo radicale. A dispetto della sorpresa con cui l’annuncio del Califfato è stato accolto nell’estate del 2014, l’ideologia dello Stato islamico – scrive Maher – non è infatti “né nuova né interamente originale, e le sue coordinate intellettuali si situano all’interno della tradizione mainstream del pensiero jihadista-salafita”, un “ecosistema vario e ampio di densa giurisprudenza islamica che ha autorizzato le azioni dei movimenti militanti in tutto il mondo”. Maher fa quello che fin qui pochi hanno fatto: individua, isola e analizza la funzione dei concetti-teologici chiave di quel movimento variegato, circoscritto ma globale che è il salafismo-jihadista (perché non tutti i salafiti sono jihadisti, ma pressoché tutti i jihadisti sono salafiti, come ricorda Peter Neumann in Radicalized). In poche parole, spiega in che modo parole e idee diventano azioni letali.
Dei cinque concetti che per Maher costituiscono l’ossatura ideologica del salafismo-jihadista, è di interesse particolare il già nominato takfir, la scomunica, usata per tracciare una linea che escluda dall’ecumene islamica coloro che si ritiene abbiano abbandonato e quindi corrotto la vera fede. Maher sottolinea altri due aspetti importanti: il primo è che il takfir, inteso all’origine come un meccanismo di protezione dell’Islam, nelle mani dei jihadisti diventa presto “una licenza per la guerra interna al mondo musulmano”; il secondo è che la dottrina del takfir si cristallizza “in un’idea più coerente” solo in seguito all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Sono gli anni in cui, mentre gli ideologi discutono sul significato di jihad e takfir, il jihadista giordano Abu Musab al-Zarqawi ne mette in pratica le idee. A modo suo.
Quella di al-Zarqawi, nato nel 1966 in Giordania e morto nel giugno 2006 in Iraq, è una storia importante. Per Peter Neumann “l’organizzazione che oggi si chiama Stato Islamico è la sua eredità politica, militare e personale”. Per Fawaz Gerges la sua storia “è inestricabilmente legata non solo alla fondazione di al-Qaeda in Iraq, ma anche all’inizio della rivolta contro i padri fondatori del movimento jihadista globale”. Una rivolta che diventerà una vera e propria spaccatura tra il 2013 e il 2014, quando Abu Bakr al-Baghdadi decide di rivendicare uno spazio d’azione anche in Siria, contravvenendo alle indicazioni del vecchio leader di al-Qaeda, al-Zawahiri.
La storia del parricidio – la rottura tra nuova e vecchia guardia jihadista – è raccontata con dovizia di particolari in due libri rigorosi, The Syrian Jihad: Al-Qaeda, the Islamic State and the Evolution of an Insurgency, del ricercatore Charles Lister, e il già citato Jihadism Transformed. Il primo è una ricostruzione molto dettagliata della progressiva espansione dello Stato Islamico in Iraq e Siria, con un’enfasi particolare sugli aspetti militari; il secondo è dedicato – come recita il sottotitolo – all’antagonismo tra al-Qaeda e Stato Islamico, ma letto attraverso una chiave più ideologica che militare, ed è fondamentale per capire come la vecchia guardia, e in particolare al-Zawahiri, sia uscita indenne e più forte di prima sia dallo scontro con i giovani seguaci del Califfo sia dalle primavere arabe del 2011, quando molti, troppo frettolosamente, suonavano la campana a morto per i jihadisti. In entrambi i libri si dà per definitiva la rottura tra lo Stato Islamico e al-Qaeda, che avviene formalmente nel febbraio-marzo 2014 ma che, spiega Nelly Lahoud nel saggio The ‘Islamic State’ and Al-Qaeda (incluso in Jihadism Transformed), rimanda a frizioni e incompatibilità molto più datate, emerse sul fronte che ha dato vita alla prima generazione di foreign fighters: l’Afghanistan.
È il 1989 e Al-Zarqawi ha soltanto 23 anni. Parte per l’Afghanistan per unirsi alla resistenza dei mujahedin contro le truppe sovietiche che occupano il Paese dal 1979. Non imbraccia le armi bensì diventa corrispondente per alcuni periodici di propaganda. È attivo soprattutto nella provincia orientale di Khost, ma attraversa spesso la Durand Line, il confine tra Afghanistan e Pakistan tracciato a tavolino a fine Ottocento. In Pakistan conosce il più importante ideologo del jihadismo contemporaneo, quell’Abu Muhammad al-Maqdisi che abbiamo già incontrato e con il quale, una volta tornato in Giordania, fonda una cellula jihadista, Jamaat-al-Tawhid. Entrambi finiscono in prigione nel 1994. Escono nel 1999 grazie a un’amnistia, divisi sulle strategie da seguire per affermare la sovranità divina sulla terra. Al-Zarqawi corre subito in Afghanistan dove – ricorda Charles Lister in The Syrian Jihad – grazie all’intercessione dell’ideologo qaedista Abu Qatada al-Filastini gli viene assegnato un fazzoletto di terra verso il confine con l’Iran. I Talebani, che governano il Paese con l’Emirato islamico d’Afghanistan, lo tengono d’occhio. Quel tipo irruento che inneggia alla violenza settaria non gli piace. Non piace neanche agli strateghi di al-Qaeda, per i quali è avventato e animato da idee dottrinali “troppo rigide”.
Nell’ottobre del 2001, quando il governo degli Stati Uniti inizia i bombardamenti contro l’Emirato d’Afghanistan, al-Zarqawi fugge e dopo una serie di peripezie arriva nelle aree curde dell’Iraq, dove tra il 2002 e il 2003 fonda il primo nucleo del futuro Stato Islamico, il Gruppo per il monoteismo e il jihad. Nel 2003 gli americani invadono l’Iraq. Bin Laden gongola, convinto che sia l’occasione più importante per espandere il jihad nella regione e addestrare i militanti alla guerriglia urbana. Si fa convincere che una collaborazione con il gruppo di al-Zarqawi sia conveniente, spiega Brian Fishman nel recentissimo The Master Plan. ISIS, al-Qaeda and the Jihadi Strategy for Final Victory. Nell’ottobre 2004 arriva l’affiliazione ufficiale: nasce al-Qaeda in Iraq, da cui nel 2006 sarebbe derivato lo Stato Islamico di Iraq (Isi), diventato nell’aprile 2013 Stato Islamico in Iraq e nel Levante (Isil, o Daesh secondo l’acronimo arabo) e nel giugno 2014 lo Stato Islamico (Is). Quello tra al-Zarqawi e Bin Laden è un matrimonio di convenienza, che mette insieme generazioni, impostazioni e strategie differenti. Gli uomini di al-Zarqawi rappresentano la nuova leva del jihadismo internazionale, influenzata dal takfirismo, la corrente più settaria, esclusivista e violenta del salafismo-jihadista, aliena ai compromessi dottrinali e pragmatici. Al-Zarqawi vuole scardinare le fonti dell’idolatria e dell’apostasia cercandole innanzitutto dentro la comunità musulmana. Vuole combattere la corruzione morale e materiale dei regimi arabo-musulmani, il “nemico vicino”, prima ancora che il “nemico lontano”: gli Stati Uniti e l’Occidente blasfemo. Per farlo si affida al takfir, alla scomunica, che diviene un pretesto per una vera e propria “guerra totale” contro gli sciiti e tutti i sunniti che non ne condividano il settarismo aggressivo.
Convergenze storiche
In Iraq al-Zarqawi prospera (almeno all’inizio) sulla catastrofe umanitaria, istituzionale e sociale provocata dall’occupazione americana e, inconsapevolmente, sulla stessa fragilità della nazione irachena, la cui sostenibilità è viziata già all’origine. Per comprendere le origini dello Stato Islamico e immaginarne le future evoluzioni, ricorda lo storico Pierre-Jean Luizard ne La trappola Daesh. Lo Stato Islamico o la Storia che ritorna, è indispensabile infatti ripassare la Storia, “quella breve, con l’occupazione americana dell’Iraq, l’irruzione delle primavere arabe, ma anche quella estesa, con la genesi degli Stati arabi creati sotto l’egida dei mandati britannici e francesi”.
Il caso dell’Iraq è esemplare, perché la stessa “edificazione dello Stato iracheno tra il 1920 e il 1925 manifesta la convergenza di due progetti politici, quello della potenza mandataria – la Gran Bretagna – e quello di una élite sunnita che, dopo aver servito da antenna locale dell’Impero Ottomano, monopolizza tutto il potere, in particolare militare”. Segnata da “un doppio rapporto di dominazione: confessionale, dei sunniti sugli sciiti, ma anche etnico, degli arabi sui curdi”, in Iraq l’idea di nazione araba permette dunque “a una minoranza confessionale di accaparrarsi il potere, attraverso delle élite che, in nome dell’arabismo, non smetteranno di trattare la maggioranza sciita come una minoranza”. In seguito, questa società frammentata, a compartimenti stagni, “viene presa nella spirale infernale dei giochi strategici e geopolitici regionali”, mente la Guerra degli otto anni scatenata nel 1980 da Saddam contro la giovane Repubblica Islamica iraniana “deve essere letta come il prolungamento di una guerra civile irachena latente”. Dopo l’occupazione americana del 2003, gli esclusi dal vecchio sistema tentano di modificare i rapporti di forza, con politiche fortemente discriminatorie verso la componente sunnita. Traumatizzati “dalla perdita di un controllo monopolistico sullo Stato che possedevano dai primi secoli dell’Islam”, negli arabi sunniti marginalizzati dalle politiche del primo ministro sciita Nuri al-Maliki (al potere dal 2005 all’estate 2014) emerge un forte sentimento di revanscismo. Per Michael Weiss e Hassan Hassan, gli autori di ISIS. Inside the Army of Terror, il revanscismo sunnita è il fattore decisivo nelle attività di reclutamento dello Stato Islamico nella regione.
L’occupazione militare americana, sostiene Fawaz Gerges, ha provocato lo smantellamento delle istituzioni statali irachene e la progressiva affermazione di un sistema politico basato sul muhasasa, “la distribuzione delle rovine lungo linee comunitarie, etniche e tribali”, linee di frattura strategicamente manipolate e capitalizzate dal Califfo e, prima di lui, da al-Zarqawi. Ma dietro questa recente “spaccatura sociale” si delinea un fallimento più generale, quello degli “Stati arabi nel rappresentare gli interessi dei propri cittadini e nel costruire una identità nazionale inclusiva sufficientemente forte da generare coesione sociale”. In questo senso, se lo Stato Islamico oggi rappresenta un pericolo per la sicurezza regionale ciò “dipende più dalla fragilità del sistema statuale arabo che dalla sua forza come attore strategico”. È un punto centrale, su cui insiste anche Luizard, per il quale “non è il califfato proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi che minaccia oggi lo stato iracheno. Non sono i combattenti dello Stato Islamico che hanno fatto iniziare il processo di autodistruzione del regime di Bassar al-Asad… In realtà, lo Stato Islamico non è forte che della debolezza dei suoi avversari e prospera sulle macerie di istituzioni che crollano”. Lo Stato Islamico riflette, non crea, la fragilità del sistema statuale arabo e le fratture ideologiche e comunitarie nelle società mediorientali. È un sintomo, non una causa.
Sintomi e sistemi
Anche per Paul Rogers, docente emerito di Peace Studies all’Università britannica di Bradford ed esperto di sicurezza globale, lo Stato Islamico è un sintomo, ma di tendenze sistemiche ancora più ampie e preoccupanti di quelle descritte da Fawaz Gerges e Pierre-Jean Luizard. Nel suo ultimo libro, Irregular War. ISIS and the New Threat from the Margins, Rogers sostiene infatti che la nascita e la resilienza di gruppi non statuali diversi – dai Talebani in Afghanistan allo Stato Islamico in Iraq e Siria, da Boko Haram in Nigeria ad al-Shabaab in Somalia, dai naxaliti in India ai maoisti in Nepal – sono il sintomo di una stessa dinamica sistemica, che provoca guerre ibride e asimmetriche. Per arrivare al Califfo al-Baghdadi e ai nostri giorni, Rogers parte da lontano, dalla fine della Guerra Fredda e dalla conseguente transizione al modello unico di mercato libero, che ha generato ricchezza e crescita per una parte numericamente significativa (un miliardo e mezzo di persone) ma comunque minoritaria della popolazione mondiale, lasciando indietro, ai margini, il resto del pianeta.
Secondo Rogers, nei prossimi decenni si svilupperanno nuovi movimenti sociali di natura essenzialmente anti-elitaria, che riceveranno sostegno dalla popolazione ai margini.
La tesi centrale del libro è che lo Stato Islamico sia un fenomeno con caratteristiche certo specifiche, legate alle trasformazioni del Medio Oriente e agli errori delle potenze occidentali e dei governi locali, ma con implicazioni ben maggiori. Il gruppo di al-Baghdadi – scrive Rogers – “rappresenta un tipo di movimento che diventerà sempre più comune nei prossimi due o tre decenni: una rivolta dai margini all’interno di un sistema globale caratterizzato da una serie di elementi che alimentano un conflitto che dominerà le relazioni internazionali, a meno che non se ne affrontino le cause strutturali”. Il fatto che i movimenti di rivolta attuali siano dominati dall’ideologia islamista radicale non deve condurci fuori strada, avverte l’autore di Irregular War. Nei prossimi decenni “si svilupperanno nuovi movimenti sociali di natura essenzialmente anti-elitaria, che riceveranno sostegno dalla popolazione ai margini”. A seconda dei contesti e delle circostanze, potranno radicarsi in differenti ideologie politiche, fedi religiose, identità etniche, nazionali o culturali, o in una complessa combinazione di questi elementi, ma la loro caratteristica comune sarà “l’opposizione agli esistenti centri di potere”.
Un’opposizione che nasce da un crescente risentimento, soprattutto nel cosiddetto Sud Globale, dove la “rivoluzione delle aspettative crescenti”, legata alla scolarizzazione di massa dagli anni Sessanta in poi, si è presto tradotta in una “rivoluzione di aspettative frustrate”, che va di pari passo con l’idea che la fine dell’era coloniale abbia lasciato in eredità soltanto il consolidamento “di un sistema economico e commerciale che era, e rimane, a estremo vantaggio dell’Occidente”. La combinazione tra le tendenze sistemiche all’esclusione e alla polarizzazione proprie del modello economico neoliberista e gli effetti sempre più evidenti della crisi ecologica del pianeta, nota Rogers, delinea un rischio epocale: l’ingresso in una vera e propria “età delle insorgenze”, che sostituisce il presunto scontro di civiltà tra l’Occidente e il mondo islamico con “un contesto globale di fragilità, instabilità, violenza crescente e guerre irregolari”. Sfide nuove, a cui l’Occidente risponde, per preservare i propri privilegi, con quel “paradigma del controllo” che vede la forza militare come ultima garante della sicurezza mondiale. Per Paul Rogers si tratta di un paradigma obsoleto e controproducente. Secondo il suo metro di giudizio, anche la battaglia per Mosul non è che un puntino di una storia molto più lunga. Appena cominciata.