I nternet rimane per sempre, ma la memoria no; e quello che esiste solo su Internet assume presto contorni sbiaditi, invecchia alla svelta e perde consistenza. Quello che si vuole preservare va estratto da lì, circondato da una nuova cornice, fermato in qualche modo e reso trasportabile, vivo, un oggetto che dura nel tempo e non si perde nelle nebbie dei server o in archivi che possono essere cancellati in un attimo. È quello che ci siamo dette fra curatrici quando abbiamo deciso di dare a #quellavoltache la forma di un libro, che raccoglie e seleziona una parte molto piccola delle migliaia di contributi, testimonianze e racconti che hanno invaso la rete dopo il lancio dell’hashtag. #quellavoltache – Storie di molestie esce l’8 marzo per Manifesto Libri: il gruppo delle curatrici ha lavorato pro bono, e i proventi della vendita verranno destinati alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, che al momento si trova in una condizione difficile a causa di uno sfratto esecutivo imposto dal Comune.
È difficile parlare di questo libro in maniera impersonale. La campagna #quellavoltache, ingiustamente relegata a un ruolo ancillare rispetto al titano #MeToo, è un fenomeno tutto italiano, concepito in maniera originale, nato dal basso tre giorni prima del suo omologo americano e portato avanti senza l’appoggio iniziale dei media nazionali. Nessuna star di Hollywood dalla potenza mondiale, nessun politico, nessuna testata o programma mainstream: solo un gruppo di persone fissate con l’idea che quello che non viene detto non esiste davvero. E che era ora di dire molte cose: la rabbia, la colpa, la vergogna, la repressione, e di liberarsene, con un atto di ribellione collettiva al silenzio imposto dalla nostra società a chi subisce un’aggressione sessuale.
Dentro #quellavoltache, come dentro #MeToo e il francese #balancetonporc e tutti gli altri, c’era inevitabilmente molto più che le molestie sul lavoro. C’era un mondo di piccoli e grandi abusi, per lo più normalizzati, il prezzo che le donne devono pagare per la loro esistenza al mondo in proporzione all’entità del loro capitale sessuale. A una ragazza viene insegnato che quando entra in una stanza gli occhi devono essere su di lei: dal numero di occhi che la osservano e dal desiderio che esprimono lei può dedurre il suo valore di mercato. Sì, certo, l’intelligenza, la bravura, le doti umane: niente vale quanto la bellezza. Se nessuno ti molesta è perché sei brutta, o vecchia: e se sei brutta, o vecchia, non vali niente.
La campagna #quellavoltache è un fenomeno tutto italiano, concepito in maniera originale, nato dal basso tre giorni prima del suo omologo americano.
È un mondo pensato non tanto per i maschi, quanto per chi ha la volontà, la possibilità e l’inclinazione di rispettare le norme rigidissime che ne regolano il funzionamento. Gli uomini sono tenuti a dimostrare una virilità aggressiva, decisionista, priva di venature emozionali, attaccata a una razionalità solo in apparenza regolata dalla logica. Le donne devono essere belle, o quantomeno affascinanti, eleganti in società, provocanti in privato ma con sapienza e parsimonia, premurose, disposte a tenere in riga tutte le altre attaccandole se trasgrediscono, se mostrano corpi non conformi, se mostrano troppo un corpo conforme, se lo mostrano troppo poco, se sono sessualmente libere, se sono antagoniste, se sono troppo belle, se sono troppo brutte. È un sistema che si basa su un bilanciamento di poteri e sulla spartizione delle competenze, e che si autodescrive come equo: le donne (e in misura minore, gli uomini) che ne accettano i confini godono di una certa protezione. Chi parla delle molestie che ha subito mette in luce un malfunzionamento, un’abituale violazione di quel patto di non belligeranza, e deve essere immediatamente ricondotto al silenzio.
Se la molestia è lieve, non è una molestia (“Non fare la vittima”, “Ti stai vantando delle attenzioni che ricevi”, “Dovresti essere contenta”). Se la molestia è grave, si cerca la responsabilità della vittima (“Potevi non andarci”, “Potevi dire di no”, “Invece di cercare una carriera nel cinema, potevi fare la commessa”). Se la molestia è avvenuta molto tempo fa, è prescritta (“Potevi parlare prima”, “Perché non hai denunciato?”, “È la tua parola contro la sua”, “Ti stai vendicando perché non hai avuto la carriera che volevi”, “Ne hai approfittato, e adesso ti lagni”). Si cerca di tutelare il molestatore a scapito del molestato, facendo leva sulla reputazione (“È un bravo ragazzo”, “È mio amico, lo conosco”, “Non puoi rovinare così un uomo”). Si paventa una persecuzione ingiustificata (“Caccia alle streghe!”) L’obiettivo è sempre quello: fare in modo che parlare, in qualsiasi momento, porti più svantaggi che vantaggi. I sei mesi di tempo per denunciare una violenza sessuale alle autorità sono una salvaguardia efficacissima per gli stupratori: il tempo necessario a elaborare quello che si è subito è spesso molto più lungo, specialmente quando lo stupro avviene fra amici, partner, ex partner o familiari, e la vittima deve mettere sul piatto la sua intera vita, senza alcuna garanzia che una denuncia le renda giustizia. Secondo l’Istat, la quasi totalità degli stupri commessi da italiani non viene denunciata (il dato del 2014 parla del 95,6% di casi). La percentuale scende leggermente se lo stupratore è straniero e se è un estraneo. Dire che #quellavoltache è stato un momento di vittimismo collettivo significa allinearsi alla narrativa patriarcale per cui la donna forte sopporta, manda giù, non rivendica la sua dignità, non chiede giustizia, semplicemente sopravvive; la donna che parla è debole, isterica, o peggio, è falsa, vendicativa. Una narrativa funzionale a fare sì che la macchina continui a marciare come sempre, senza cambiare nulla.
Un hashtag non è un movimento, e neanche un libro lo è: #quellavoltache si inserisce nel filone delle lotte femministe, che non iniziano nell’ottobre del 2017.
Ma chi parla non sempre lo fa perché ancora soffre, o perché non è stata in grado di riprendersi, o perché il danno subito le abbia lasciato cicatrici permanenti e invalidanti. Chi parla lo fa anche per senso di giustizia, per solidarietà, per aggiungere una voce a un coro, per aiutare la collettività a mettere a fuoco un problema, per sfogare la rabbia repressa, per mettere a fuoco un’esperienza che fino a quel punto aveva avuto i contorni sfumati del disagio. Ci sono molte ragioni, ma tutte hanno la stessa matrice, quel ritorno prepotente del personale nella narrazione collettiva, un personale che si fa più che mai politico.
Un hashtag non è un movimento, e neanche un libro lo è: #quellavoltache si inserisce nel filone delle lotte femministe, che non iniziano nell’ottobre del 2017. Quello che è successo alla fine dell’anno scorso è uno strappo: il libro serve a fare in modo che quello che segue sia una tessitura e non una toppa. Il libro può essere donato, condiviso, letto, recitato, declamato, discusso, consultato in ogni momento: il libro è un simbolo, ha una materialità. Questo libro, in particolare, serve a tenere aperta una conversazione che, passata la tempesta, deve coinvolgere ogni aspetto del nostro stare insieme come esseri umani, e deve essere condotta con il massimo della partecipazione di tutti.