Q ueer: che strana parola. Tra la metà degli anni Duemila e la metà degli anni Duemiladieci, in Italia si pronunciava quasi con impaccio, con la scarsa disinvoltura che ci si aspetta a maneggiare un termine dai contorni indefiniti. Queer stava tra lo strano e il bizzarro, era vagamente legato alle questioni di genere, talvolta si usava come grimaldello per reintrodurre riflessioni femministe in contesti, come collettivi e centri sociali, che alla riflessione sul genere facevano resistenza. Tutto sommato, poteva avere un potenziale liberatorio anche per gli uomini cisgenere ed eterosessuali – la fantasticheria di poter creare un ambiente politico di sperimentazione sessuale senza doversi prendere la responsabilità della propria posizione di privilegio. Una storia già sentita, in cui risuonavano echi degli anni Settanta – storie orecchiate di orge, di comuni autorganizzate, di sessualità espansa e sudaticcia. “Ironia di questo dispositivo: ci fa credere che ne va della nostra ‘liberazione’” scriveva Michel Foucault ne La volontà di sapere.
Fast forward, 2022: il set argomentativo delle identity politics si è stabilizzato al crocevia di una più serrata importazione di discorsi provenienti dalle accademie anglosassoni e dagli ambienti di movimento (in particolare statunitensi); corre veloce sui caroselli di Instagram, passa di bocca in bocca e di display in display. Queer, che strana parola. Sembra quasi ormai di averla compresa.
Quando ci volevano mortə
Negli anni Novanta, queer negli Stati Uniti significava non solo riappropriarsi di un termine offensivo – l’equivalente, più polisemico, di frocio – ma anche di ribaltare il disgusto rivolto alla comunità LGBTQIA+ nel contesto della prima grande pandemia dell’egemonia economica statunitense: l’AIDS. Da gay a queer era trascorsa, attraverso gli anni Ottanta del reaganismo, l’attività intensa di movimenti che avevano riassunto una postura antagonista, proprio nel momento in cui l’Unione Sovietica crollava e si cercavano altre strade per l’opposizione sociale. Act Up e poi Queer Nation, e innumerevoli altre iniziative politiche, avevano attraversato la tragedia pandemica, l’impennata vertiginosa dello stigma, con la dolorosa forza data dallo spaesamento e la rabbia di chi reagiva a una repressione doppia – medica e politica.
La fusione esageratamente persuasiva dello stigma omofobo con il mistero funesto dei resoconti medici sortiva inquietanti fratture all’interno delle famiglie, così come nella società tutta. Se le comunità omosessuali vivevano momenti di terrore incessante, comparabili solo a quelli di una guerra, sembrava però di trovarsi nell’ambito di una guerra piena di sconfitte disconosciute, senza un fronte interno, che generava unicamente notizie dolorose che però nessuno era disposto a ricevere.
raccontava Eve Kosofsky Sedgwick in Stanze private nel 1991. Va sottolineato: in molte parti degli Stati Uniti, negli anni Ottanta – e a livello federale fino al 2003 – il rapporto sessuale tra persone adulte e consenzienti dello stesso “sesso” era ancora penalmente perseguibile. In Italia, rimane impressa nella memoria collettiva la famosa pubblicità progresso “dell’alone viola”, in cui HIV veniva trasmessa come una malvagia aura al solo sfiorarsi con le dita. Lo stigma sul virus HIV, ricondotto immediatamente alla sua forma di malattia (l’AIDS), e in questa forma associato a tossici e ricchioni, decantava nell’immagine fantasmatica del pericolo invisibile che viaggia attraverso i corpi infetti di zombie ai margini della società. Forse da tenere a mente, uscendo dall’ultima pandemia e verificando se lo stesso trattamento è stato riservato a una trasmissione sociale meno connotata, più generalista. Da trent’anni aspettiamo il vaccino per l’HIV, e dobbiamo quasi ringraziare che esistano delle terapie di mantenimento e l’uscita recente degli studi che hanno affermato che il virus, tenuto sotto controllo, non è rintracciabile e nemmeno trasmissibile (Undetectable = Untransmittable).
Ridateci il futuro
È nel dibattito costruito su queste macerie che si inseriscono Cruising Utopia di José Esteban Muñoz (ed. or. 2009, Nero editions 2022) e L’arte queer del fallimento di Jack Halberstam (ed. or. 2011, Minimum Fax 2022). In quel crepuscolo che fa scemare gli anni Novanta della peste gay negli anni Duemila del reclutamento collettivo dell’Occidente nella war on terror, negli Stati Uniti si proponeva come patto sociale post-pandemico l’armistizio con le odiate soggettività LGBTQIA+ (diciamo pure: più L e G che tutte le altre lettere) per far fronte al “pericolo islamico”. Si era di fatto barattato l’avanzamento dei diritti civili con l’integrazione in una nazione barbaramente colonizzatrice.
Di conseguenza, la maggior parte del dibattito nella sinistra del movimento si svolgeva lungo direttrici contrarie all’integrazione nella società eterosessuale. Prospettive antisociali che in Italia sono state analizzate da Lorenzo Bernini, come quella proposta da Lee Edelman riproponendo lo slogan punk No Future (2004) come rivendicazione fondamentale dei soggetti LGBTQIA+ emarginati dal futuro riproduttivo della società eterosessuale, erano seguite da ulteriori svolte anti-assimilazioniste come quelle esposte da Jasbir Puar in Terrorist Assemblages (2007) e impegnate nella critica a queste prospettive “omo-nazionaliste” di reclutamento nei ranghi dell’imperialismo statunitense.
Un dibattito, in Italia, difficilmente traducibile per la radicale differenza di condizioni politiche, sociali ed economiche, allora come oggi. Siamo uno dei paesi leader nella produzione e vendita di armi, ma di solito ci accodiamo e non guidiamo le operazioni militari internazionali. Siamo un paese fortissimamente familista, non solo per questioni religiose e ideologiche, ma anche per ciò che per le mantiene in piedi: un sistema produttivo quasi interamente basato su imprese di piccolo e medio calibro. Un paese molto densamente abitato nel suo complesso, ma in cui è quasi inesistente la dimensione metropolitana. Un paese quindi che conseguentemente (e non casualmente) ha una sua specifica fisionomia omolesbobitransfobica, tendenzialmente fondata sulla marginalizzazione apparentemente benevola (finché non decide di passare dal vicolo buio) dell’only gay in the village.
Per tutti gli anni Duemila, invece, il dibattito sull’integrazione procede serrato in terra nordamericana. La risposta di Muñoz, a Edelman da un lato e all’associazionismo LGBTQIA+ borghese dall’altro, è diretta: non rinunciamo al futuro, concediamoci il principio speranza di un’utopia queer sperimentata nelle nostre comunità di resistenza (e quindi: né con l’opposizione al futuro, né con l’ingenua prospettiva del progressismo dei diritti, dato per tasselli e task to accomplish per i diversi stati-nazione). Più obliqua quella di Halberstam, col suo invito a esercitare l’arte di fallire sempre meglio partendo da un doppio presupposto: siamo delle sfigate e dobbiamo sopravvivere. Il futuro arriverà, che ci piaccia o no.
Atlantide isola persa
Acqua passata (forse). Terminata la fase più intensa della “guerra alle frocie” nel contesto della pandemia di HIV/AIDS, queer arriva anche in Italia. Parallelamente al suo timido affacciarsi in ambienti più “generalisti”, anche qui il termine era stato oggetto di riflessioni, rimasticazioni, rimaneggiamenti, elaborazioni. Un movimento queer in Italia esisteva già – verrebbe da dire: è esistito. Camminava su gambe accavallate e intrecciate, tra free party (soprattutto negli ambienti romani – mitologica la serata Phag Off!) e piccole singolarità e collettivi; qualche temerario soggetto militante iniziava a occuparsene e a intrecciare la storia dell’elaborazione omosessuale rivoluzionaria italiana – Luciano Parinetto e Mario Mieli in primo luogo – con la dirompente svolta teorica statunitense. Addirittura esisteva uno spazio autogestito apposito, a Bologna: la favolosa e favoleggiata Atlantide, pochi metri quadri di spazio in uno dei casseri dismessi della città più finocchia d’Italia (o, come mi piace chiamarla, il gay luna park). Entri nella catapecchia ed è il mondo alla rovescia: tre gradini, due queer punk sotto il colonnato dietro a un tavolaccio di plastica dura, butta l’offerta, ti afferrano la mano, ti stampano un gigantesco “SONO FROCISSIMA” e in un metro e mezzo dalle scale all’ingresso hai già limonato con sette persone di genere del tutto indifferente. Gayngsta paradise. Postacci poco raccomandabili per frocie non proprio rispettabili.
Non era tutto limoni, alcol, unghie spezzate e mascara colato. Da Atlantide, coabitata da collettivi punk e collettivi queer, si diramava una linea politica di antagonismo gay che nel resto d’Italia si dava frammentariamente. “Sì beh, c’erano le milanesi, quelle dei Gruppi di Liberazione Omosessuale… e poi beh le padovane di Anteros, certo, sì, le fuoriuscite da Arcigay – anche alcune di noi erano uscite da Arcigay, si capisce…” mi raccontano. Proprio su Luciano Parinetto si era tenuto ad Atlantide un seminario, nel 2004, una delle diverse iniziative teoriche e politiche intraprese dalle atlantidee, sailing the seas of cheese. Ho conosciuto Atlantide tramite un mio ex, la stessa persona che mi fece conoscere la mailing list di Sommovimento NazioAnale e che mi mise in mano i testi che ad Atlantide circolavano: Mieli, naturalmente, che aveva avuto anche un gruppo di lettura dedicato, ma anche gli innumerevoli libri dai titoli bislacchi che pubblicava, in Italia, l’oscura collana Àltera, diretta da Liana Borghi e Marco Pustianaz per l’editrice pisana ETS. Canone inverso, la leggendaria antologia di studi queer curata da Elia Arfini e Christian Lo Iacono – una delle poche pubblicazioni italiane di settore, all’epoca; Queer in Italia, che cercava di fotografare lo stato del dibattito e della militanza italiana intorno a questo bizzarro significante fluttuante. E naturalmente la raccolta di scritti di Halberstam Maschilità senza uomini.
Mancavano testi fondamentali, mancavano fino a pochi mesi fa; testi che leggevamo avidamente, interconnesse in vari punti d’Italia, magari fotocopiandoli o girandoceli in pdf dagli originali in inglese. Tra questi, Cruising Utopia di Muñoz e The queer art of failure di Halberstam. Cambiano, i tempi cambiano. E per un curioso sarcasmo che la Storia ci riserva, rimandandoci il sorriso dello stregatto, proprio intorno al 2015 iniziano a nascere i primi nuclei di ricerca accademica sul queer – il Centro Interuniversitario di Ricerca sul QUEer, Politesse all’Università di Verona, il CRAAAZI bolognese – mentre viene sgomberata Atlantide. In alto a destra, sulla home page del loro blog, le Atlantidee ci avevano avvisato, lanciando il loro anatema. Se Atlantide affonda, la cercherete per millenni…
Un nodo avviluppato
C’è un filo che viene dagli Stati Uniti e dal mondo anglosassone più in generale, e c’è un filo che viene dai movimenti sociali italiani degli anni Novanta e Duemila. C’è un filo che si lega con questo e vi si sovrappone, col movimento LGBTQIA+ mainstream, l’associazionismo italiano con una storia (ricostruita ne La fabbrica dell’orgoglio di Massimo Prearo) davvero troppo diversa da quella statunitense per poterla paragonare – che vede, fra le altre cose, una parte dei Collettivi Omosessuali defluire dal Movimento del Settantasette e intraprendere un percorso che li porterà in Arci e a fondare Arcigay. Una storia, quindi, solidamente radicata di lì in poi nella sinistra riformista; e nonostante ciò (o forse proprio perciò) nessun patto post-pandemico ha salvato le frocie italiane. Siamo rimaste frocie e basta.
E poi c’è un filo accademico, riannodato alla bell’e meglio a quello del queer “originario” degli USA. Come attorno a tanti chiodi piantati su una tavola malferma, questi fili si aggrovigliano attorno a spazi autogestiti, seminari, collettivi di poche persone nati e morti in poco tempo, manifestazioni, campagne politiche, rapporti personali, sentimentali, culturali. E a sigillare questo nodo gordiano: di cosa starebbero parlando, Halberstam e Muñoz, se non di noi? Tutto sommato, credo non sia un caso che queste due traduzioni escano contemporaneamente, e curate da persone con background contemporaneamente di ricerca accademica e di militanza politica, appartenenti esattamente a quella rete di interconnessione che sfiorava Padova, Perugia, Napoli, Pisa, Bari, Roma, Firenze, Torino. Non è un caso, credo, se la traduzione di Cruising Utopia condotta da Nina Ferrante e Samuele Grassi segue pazientemente e attentamente la dossologia di un linguaggio complesso e a più registri – una lingua queer. “Non so come dirtelo Enrì, è una sensazione a pelle… cioè qui Muñoz sta proprio scheccando!”
Non il primo problema di traduzione che abbiamo avuto, negli anni, con il queer: ogni comunicato veniva prima di tutto preceduto da un lungo elenco delle soggettività stigmatizzate – e dei termini insultanti di cui si riappropriavano – perché, semplicemente, queer teneva insieme tutto. E di conseguenza, diventava nulla. Solo nella creatività variopinta della nostra esperienza queer potevamo ritrovare le parole e i fatti per animare quel termine. E proprio nelle pagine di un libro come Cruising Utopia, che tocca le vette altissime del principio speranza di Ernst Bloch e dell’arte contemporanea e i bassifondi della New York queer, tra le pieghe si sedimenta la dimensione intima della queerness. Lacrime e risate che risuonano goffe in camere solitarie, in cui l’aria stessa sembra riempita dal convitato di pietra dell’AIDS; legami violenti e docili, parentali ma tra persone non consanguinee – come queer italiane avevamo coniato il termine s/famiglie, per parlare delle nostre comunità.
Sono quelle comunità dalle quali Muñoz chiede di ripartire: volenti o nolenti, costruiscono un presente e prefigurano un futuro. Spostano il momento riproduttivo dalla biologia alla società, rimescolano le carte dei ruoli di genere, reinventano la riproduzione sociale entro comunità basate sulla resistenza e sulla sopravvivenza. Comunità, in fin dei conti, di sfigate, come correttamente traduce Goffredo Polizzi da Halberstam. Se l’introduzione di contesto curata da Ferrante e Grassi a Cruising Utopia ripercorre i momenti opachi e oscuri di un universo underground queer che ci sfugge del tutto, la postfazione di CRAAAZI a L’arte queer del fallimento ripercorre le tappe del movimento queer italiano che qui ho cercato solo di restituire impressionisticamente.
Dopolavoro
E in fin dei conti, anche in questo, i due libri sono reciproci: per forza di cose, quella che si dispiega è in larga parte una biblioteca sommersa, una ballroom in fondo al mare; storie marginali, note a piè di pagina, paratesto a una storia che non ci ha mai visto protagonistə perché non era previsto che sopravvivessimo. È a questa nostra posizione discosta e al margine che si deve, forse, l’attenzione specifica e costante che rivolgiamo al modo in cui spendiamo il nostro tempo libero. Salvo eccezioni impreviste dall’attuale disciplina lavorativa, per esempio, non sono il luogo e i tempi di lavoro quelli in cui si fa sesso (a meno di non parlare di lavoro sessuale). Di fatto è il cosiddetto “tempo libero” quello in cui si aprono un tempo e uno spazio queer (dal titolo di un altro volume di Halberstam) che seguono unità di misure diverse da quelle della società circostante.
Naturale che la nostra attenzione non possa che rivolgersi a dove sentiamo più forti gli effetti della discriminazione, lo stesso luogo in cui organizziamo la nostra resistenza a quell’oppressione e reinventiamo la nostra vita. In questa resistenza costruiamo, come diagnostica correttamente Muñoz, un’utopia concreta che cerca di immaginare un avvenire diverso per noi. Le queer theories che hanno avuto maggiore diffusione nel decennio dei Duemila sono state, in effetti, spessissimo orientate all’analisi dell’estetica, del discorso e del consumo in una fase che è stata definita, con un termine che è diventato ormai troppo generico, “neoliberalismo”. Questo orientamento ha delle ottime ragioni che non si esauriscono nell’utopia del tempo libero: manifestano da quel margine, dal nostro spazio di resistenza, l’esigenza di immaginare la società futura e l’elaborazione di come vorremmo il mondo.
È una questione cruciale che serve sia al nostro benessere e al riconoscerci in una comune tensione di desiderio, sia – di conseguenza, e quand’è il momento – a orientarci nello stabilire un programma politico. Proprio qui salta fuori il problema: quello della messa a terra. I cambiamenti e le riorganizzazioni nel discorso non conducono a cambiamenti materiali senza una pratica dell’organizzazione che si orienti a colpire materialmente dove è possibile avanzare. E su questo punto è lo stesso Muñoz a dare un’indicazione fondamentale: con l’interpretazione che Ernst Bloch dà del marxismo, Muñoz scorge in Marx la possibilità di stare nel presente, “che è concepito quasi esclusivamente nei parametri del tempo straight”, attraverso il materialismo, e di attivare l’azione performativa del passato per prefigurare un’utopia futura.
In termini di filosofia della storia l’indicazione è chiara, ma costituisce un problema, ormai storico nelle teorizzazioni di sinistra: in una formulazione come questa, del marxismo scompare proprio il contenuto della chiave di lettura materialista, quello che consente questa spola tra passato, presente e futuro. Una parte della tradizione marxista ha in effetti cavalcato un presunto positivismo e un presunto materialismo battendoli come una clava in testa a tutti quei soggetti che non si identificavano nell’immagine (falsa, povera e in ultima istanza inutile) di una classe lavoratrice tutta bianca, maschia, eterosessuale, cisgenere e abile. Almeno dalla Scuola di Francoforte, si è cercato di contrastare questo filone che si consolida negli anni centrali del Novecento, ma è significativo che queste correnti non siano quasi mai esplicitamente identificate; piuttosto vi si allude con formulazioni vaghe, come questa di Halberstam: “Mentre molti studiosi marxisti hanno definito o sminuito la politica queer come una ‘politica del corpo’, e quindi superficiale, questi film riconoscono che forme alternative di embodiment e di desiderio sono fondamentali nella lotta contro il dominio capitalista”. Bisognerebbe forse ricominciare a dire che la maggior parte di queste teorizzazioni venivano e vengono formulate in seno a tradizioni staliniste, spesso passate al riformismo per pura opportunità politica: proprio una bella lezione di materialismo…
Ma qui c’è il punto: per opporsi a queste sedicenti analisi scientifiche, una grossa parte della teorizzazione di estrema sinistra si è orientata a un’analisi strettamente politica e culturale, e meno economica – dove l’analisi del sistema economico viene quasi data per scontata. Anzi, rincara la dose Halberstam con l’accusa più ricorrente di queste teorizzazioni: “perché un sistema funzioni, deve riuscire a creare e mantenere le strutture e le relazioni strutturali che gli permettono di funzionare. Questo tuttavia non equivale a dire che la struttura economica determina la forma di ogni altra forza sociale. Il determinismo economico (…) porta soltanto a moralizzazioni e interpretazioni grossolane”. Precisare che l’economia non è l’aspetto del sistema capitalistico che determina (in ultima istanza) il modo in cui l’oppressione si esercita è naturalmente, per lo più, una postura di esorcismo. E naturalmente questa linea culturalista ha avuto grandi interpreti che hanno fornito analisi necessarie almeno come contraltare dialettico: Stuart Hall che Halberstam prende a riferimento come anche Gramsci, ormai ridiventato un classico in tutto il mondo, studi postcoloniali compresi. E poi l’onnipresente Scuola di Francoforte nelle sue declinazioni di volta in volta adorniane o marcusiane.
Ma lasciare inevasa l’analisi economica, che permette di mettere a terra questo enorme e affettuoso lavoro di critica del presente e immaginazione del futuro, crea un vuoto dove dovrebbe esserci un ponte che collega la questione della queerness come aspettativa o sopravvivenza al problema della trasformazione generale, sistemica e sistematica. Con una non troppo nascosta speranza che l’immaginario stesso possa, talvolta, supplire o sostituire la lotta di massa sulla fondamentale contraddizione economica (tanto più che il genere cinematografico Pixarvolt, da Pixar e Revolt, individuato da Halberstam diventa per lui quasi una supplenza dell’analisi marxiana – e, tutto sommato, mi sento ancora oggi di condividere almeno in parte la posizione).
Don’t dream it, be it
Continuiamo a fare cruising in questi libri allora, seguendo l’indicazione di Muñoz. C’è un’altra traiettoria che punta non dagli USA all’Italia, ma à rebours – dall’Italia agli USA. È la traiettoria dell’operaismo italiano, che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni zero – in una trasformazione che è stata chiamata, forse non molto correttamente, “post-operaista” – ha influenzato largamente le analisi del contesto economico globale nel quale ci troviamo a operare. Impero di Antonio Negri e Michael Hardt ha avuto un’influenza indubbia nell’interpretare una netta tendenza alla terziarizzazione dei paesi eurostatunitensi, effettivamente presente ma probabilmente sopravvalutata. Si è parlato per anni, forse decenni, di distruzione del lavoro, di crisi di legge del valore, e si è rivolta l’attenzione a un paradigma che pareva affacciarsi – e che oggi vediamo sgretolarsi davanti ai nostri occhi: interpretare le trasformazioni del lavoro interamente come orientate al “lavoro cognitivo”, una fase inedita del capitalismo in cui non conta più la produzione di merci fisiche ma la produzione di merci immateriali, finanche la messa a valore della vita stessa, in cui l’alta finanza gioca il ruolo di determinante in ultima istanza per la sua capacità di “inventare denaro” fuori da qualsiasi legge di produzione del valore.
Sia Muñoz sia Halberstam condividono questi assunti e guardano piuttosto esplicitamente a quella prospettiva. E non può sorprendere, avendo vissuto, operato e scritto nello stato – gli USA – che più di tutti ha portato avanti una selvaggia delocalizzazione delle proprie industrie, ha strenuamente tentato di esportare capitali attraverso guerre imperialiste, manovre di alta finanza e investimenti in paesi come Cina e India. Le trasformazioni visibili della vita facilmente potevano condurre in quella direzione. È da questo punto di vista, allora, che si aggiunge una dimensione ulteriore di questo ricamo continuo sul tema del tempo libero. Se scompare la legge del valore, cioè quella per cui il valore si realizza attraverso il pluslavoro spremuto da chi lavora; se il profitto si realizza secondo misteriosi procedimenti orchestrati dall’alta finanza penetrando fino alla “vita stessa”, non c’è più contraddizione economica che permetta di “fare male al sistema” ai soggetti oppressi dall’intreccio tra capitalismo, eterocispatriarcato, abilismo e razzismo. Resta quindi l’opzione di una politica di sciame, moltitudinaria, che ha il limite di essere per lo più volontaristica, di opinione pubblica e di cittadinanza; una politica culturale, una reinvenzione della propria vita e del proprio tempo libero.
Quella che Srnicek e Williams in Inventare il futuro hanno chiamato “folk politics” – una politica tanto necessaria quanto insufficiente (e va notato che i due autori condividono in ogni caso l’assunto della progressiva distruzione del lavoro da parte del capitalismo stesso). E scrive infatti Halberstam: Accademiche, attivisti, artiste e personaggi dei cartoni animati cercano da tempo di dare forma a una visione alternativa della vita, dell’amore e del lavoro e di metterla in pratica; attraverso l’uso di manifesti, di una pluralità di tattiche politiche e delle nuove tecnologie della rappresentazione chi crede in un’utopia radicale continua a inseguire modi di stare al mondo e di intrecciare relazioni diversi da quelli prescritti per il soggetto liberale e consumatore.
Nel riferimento all’utopia radicale si verifica una risonanza quasi involontaria con Cruising Utopia, tutto sommato non casuale. Nella creazione e nell’immaginazione degli spazi utopici, nel gettare le reti nel mare dell’immaginario e dell’ideologia, si recuperano possibilità di eversione e di sovversione che suggeriscono un futuro possibile e un presente resistenziale praticabile. Ma si affaccia anche la tentazione di cercare rotture fondamentali dove è impossibile trovarle – cioè si cerca nella fruizione, che nell’economia capitalistica appartiene al campo del consumo, la possibilità di rompere la dinamica di consumo in se stessa. Un obiettivo nobile che, in spazi e tempi limitati e circoscritti, può essere ottenuto, ma che non può produrre una rottura sistemica. Prendiamo per esempio il passaggio in cui Muñoz analizza lo spazio condiviso da performer e pubblico spettatore attraverso una considerazione di Miranda Joseph: vedo il mio progetto in tandem con un libro come
Against the Romance of Community, nel quale Miranda Joseph muove un’importante critica a quello che secondo Phelan è il potere della performance: “per poter sostenere che la performance resiste al valore di scambio, o all’equivalenza, e quindi e quanto di piu vicino all’irrappresentabilita stessa del reale, Phelan svaluta completamente il lavoro del pubblico; per lei, il consumo produttivo dell’opera da parte del pubblico, l’atto di esserne testimone, sono il ricordo di quel qualcosa che e stato presentato da qualcun* altr*”
Quello spazio, che nella pratica e nella materialità si dà come spazio di interazione estetica e discorsiva, viene traslato – con un passaggio indebito – verso una dimensione economica che non gli appartiene. Salvo specifici e limitatissimi casi, non è vero in generale, infatti, che il pubblico sta svolgendo un lavoro. Il fatto che stia partecipando attivamente a una performance non toglie infatti tutto il lavoro preliminare di studio di chi l’ha pensata, scritta e messa in scena; non rimuove il lavoro tecnico dellu addettu alle luci, all’audio, all’allestimento e alla pulizia dello spazio della performance; non sostituisce il lavoro organizzativo che permette alla performance di svolgersi. Il piano di interazione tra pubblico e performer è un piano di creazione, un livello di interazione che non è lavorativo, ma etico, estetico, relazionale, di uso e di fruizione, di passione. È insomma il contenuto del prodotto che viene elaborato dal lavoro di tutte le persone coinvolte nella performance; è il fatto umano che fuori da un’economia capitalistica si può dare come fatica collettiva, come azione condivisa e non come lavoro alle dipendenze di qualcun altr_ che si arricchisce depredando i frutti di questo lavoro attraverso la sua organizzazione con un comando dall’alto.
È significativo quindi che Muñoz dedichi diverse pagine all’analisi di Paolo Virno dedicata ai “cattivi sentimenti” che l’alienazione capitalistica della condizione lavorativa impone a chi lavora. Lo conducono infatti dal terreno della condizione lavorativa come effetto di un rapporto economico determinato a una politica della diserzione dal lavoro come fatto volontaristico e umanistico: a una questione, ancora una volta, di passione. Alla tentazione, in fin dei conti, di risolvere per via etica un problema politico. Il riferimento di Halberstam ad “accademiche, attivisti, artiste e personaggi dei cartoni animati”, in questo quadro, fluttua quasi tra il lapsus e la rimozione: nel privilegiare l’immaginazione e la pratica eversiva dei soggetti che producono pensiero, estetica e indicazioni di ragionamento, si salta la necessaria intermediazione con gli altri soggetti che tengono in piedi, col loro lavoro, anche la produzione culturale. E l’effetto di mantenere esclusivamente questa prospettiva, senza riunificarla con una prospettiva che tenga conto di tutta la filiera (e dunque del sistema economico nelle sue articolazioni complesse) è di presentare un ulteriore problema da superare. Si rischia infatti di partire dal sintomo – la crisi del tempo libero, della riproduzione sociale, delle nostre condizioni di vita – cercando di sovvertirlo con se stesso, e rinunciando a intervenire sulla causa – l’accumulazione di capitale basata sull’estorsione di forza lavoro.
Halberstam per esempio segnala come si possa imparare anche dalle rivolte fallite che nella storia si sono susseguite, e che pur non avendo agito sulla contraddizione diventata poi fondamentale nell’economia capitalistica, ci suggeriscono ancora delle indicazioni di prassi. Corretto. Ma non si può non tener conto del fatto che, invece, alcune rivolte sono riuscite, alcune rivoluzioni sono avvenute. In sintesi: che talvolta, nella storia, le classi oppresse vincono. E allora perché guardare così tanto a quelle fallite?
Non so esattamente a quali teorici marxisti si riferisca Halberstam quando li accusa (giustamente, credo) di aver dismesso la ricchezza dell’elaborazione queer come qualcosa di futile. Ed è chiaro il luogo sano da cui proviene questo j’accuse e il tentativo di fuga di questo tipo di teorizzazioni: la volontà di rappresentare nella lotta di classe anche tutti i bisogni e i desideri che non hanno a che fare con la dignità del lavoro ma con la vita nel suo complesso – l’obiettivo fondamentale della trasformazione rivoluzionaria, la liberazione del tempo. Ma il mio teorico marxista di riferimento – cioè Frank-N-Furter in Rocky Horror Picture Show – mi suggerisce (se la prendiamo letteralmente e non sarcasticamente come nel musical) una buona metafora degli errori del socialismo reale: “so I’ll remove the cause / but not the symptom”. Da un lato, una realpolitik stalinista o compromissoria che non rimuove causa né sintomo, ma cerca di ridurre entrambi; dall’altro, una politica che punta dritto al sintomo ma vede la malattia riprodursi continuamente. Dove il punto delle politiche rivoluzionarie, marxiste e queer attuali dovrebbe essere, invece, rimuovere le cause e anche il sintomo. Andiamo quindi con Halberstam e con Muñoz per oltrepassarli, e riprendiamoci Marx, col queer.
Queer. Perché io valgo
Nell’ultimo decennio, in Italia in particolare, ci siamo concentratə (non solo e non tanto nel movimento LGBTQIA+) sulla guerra al tempo libero che è stata condotta ai nostri danni parallelamente al peggioramento delle nostre condizioni di lavoro e dei nostri stipendi. Lo smantellamento del welfare sanitario e dell’istruzione pubblica, naturalmente, era una preoccupazione trasversale sia alle organizzazioni più riformiste, sia alle parti più antagoniste delle sinistre italiane. Più specificamente affini all’antagonismo, invece, sono state le preoccupazioni relative alle ordinanze e ai regolamenti antimovida, agli sgomberi degli spazi sociali, alle strette sulla “sicurezza” e alla gestione con pugno di acciaio dell’immigrazione. Tutte vertenze giustissime ma che, isolatamente e in una politica senza centro e di sciame, non producono organizzazione e non ribaltano i rapporti di forza. Cercano un futuro e cercano di riprenderselo, ma non hanno la forza – purtroppo – di arrivare all’obiettivo.
Uno degli elementi che determinano questa potenzialità inespressa è, probabilmente, la rimozione o il ridimensionamento della cruda realtà del lavoro. Le narrazioni postoperaiste, postlavoriste e accelerazioniste che condividono l’assunto della progressiva “scomparsa del lavoro”, proprio mentre la maggior parte delle persone tra noi lavorano, attendono di lavorare, cercano lavoro, hanno lavorato: dipendono cioè, ancora, dal rapporto salariale. Mentre il lavoro, come in altri momenti della storia, sta sparendo non tanto per l’avvento di un’economia basata sull’astrazione o per l’avvento di una società completamente automatizzata, ma per le delocalizzazioni e la crisi di sovrapproduzione che hanno caratterizzato i paesi eurostatunitensi negli ultimi decenni. Il fatto che la nostra oppressione, come persone LGBTQIA+, si veda soprattutto nel tempo libero, dove i suoi effetti sono più evidenti, richiede allo stesso tempo di non rimuovere il nostro tempo di lavoro (o la nostra dipendenza dal lavoro), perché è lì che si trovano sia la determinante della nostra oppressione, sia la possibilità di romperla.
Il “tempo libero” è la grande cesta dei panni colorati in cui vanno a finire – non vale solo per noi finocchie – le nostre attività sportive, i piani che facciamo con le nostre s/famiglie, i videogiochi con cui amiamo sfondarci, lavare i piatti, il sesso che facciamo con noi stessə o con altre persone, il nostro consumo di droghe, i progetti di genitorialità. Si lava tutto insieme perché la cesta del bianco è quella del lavoro produttivo, in cui effettivamente il capitale cresce attraverso lo sfruttamento. Tutto il resto è il mondo invisibile e mescolato del tempo libero e della riproduzione, tra fatica non retribuita (e che viene retribuita solo quando viene esternalizzata dal nucleo familiare) e soddisfazione dei bisogni e dei desideri (per rimettersi in forze in vista della prossima giornata di lavoro per qualcun altr_).
Dobbiamo quindi darci ragione del perché della discriminazione di genere in rapporto a questa determinante. Rimetterci in cerca, cioè, di ciò che la causa. E la risposta è tutto sommato semplice, anche se non scontata: la divisione del lavoro che passa anche attraverso genere e razzializzazione. L’obiettivo di questa divisione del lavoro è ostacolare l’accesso delle persone marginalizzate al lavoro salariato e schiacciarle su una dimensione di mera sopravvivenza – sussistere nella riproduzione. Nel caso delle donne assegnate a ruoli di cura domestica nella famiglia nucleare eterosessuale e monogamica questo è particolarmente evidente, con l’implicita assegnazione del lavoro di cura non valorizzato (che talvolta può essere, invece, esternalizzato a figure di cura retribuite – pochissimo – come nel caso del badantato). Nel caso delle persone LGBTQIA+, si relegano le vite queer al loro essere puri bersagli mobili, figurette che non hanno altro posto nel mondo se non la propria oppressione da portare come una croce, con il doppio effetto di renderle lavorativamente più ricattabili (perché più bisognose di salario) e perfetti esempi della disciplina sessuo-sociale che deve reggere il sistema produttivo. E si arriva quindi a uno dei noccioli: gli effetti di dumping salariale determinati da questo ricatto lavorativo su più livelli. L’altro, direttamente collegato al tema del tempo libero, è l’aumento tendenziale delle ore lavorate nel quale si realizza quel di più di lavoro dal quale si ottiene il di più di valore.
La vera crisi del valore è quella che da decenni affligge la maggior parte dei sistemi produttivi globali, che arrancano a ottenere e far fruttare quel tanto agognato di più di valore su cui si costruisce l’accumulazione di capitale. Questo vuol dire, naturalmente, che si tenderà ad aumentare la media delle ore lavorate, e a noi resta sempre meno tempo per fare tutte quelle altre cose (anche il bucato) che fanno il nostro tempo libero e che, in quanto soggetti oppressi, facciamo per sopravvivere e riprodurci nel nostro tempo libero. Alla faccia del no future: che piani si possono mai fare quando a mancare sotto i piedi è proprio il presente?
Working Class Queer-O
Di fronte a questo costante aggravamento collettivo delle nostre condizioni di vita, tra le quali andrebbe annoverato anche il disastro ambientale, si vede intuitivamente sia la necessità, sia l’insufficienza degli inviti di Halberstam e di Muñoz. Mettere a fuoco la ricchezza di resistenze della comunità LGBTQIA+ e accettare la dimensione del fallimento individuale come costitutiva della queerness sono indicazioni fondamentali ma non bastano. Questo punto vale già sul piano generale della comunità LGBTQIA+ mondiale. Più specificamente, bisogna vedere cosa ci distanzia dalle elaborazioni statunitensi e cosa, invece, caratterizza specificamente l’italianità della queerness, anche sul piano dell’elaborazione teorica e accademica. Cosa significa infatti, in Italia, “accademiche, attivisti, artiste”? In buona sostanza, significa fare la conta di chi ha potuto sopravvivere al disastro a cui è andata incontro l’università di massa. Un sistema accademico come quello italiano aveva garantito, per diversi decenni, l’ingresso nei ranghi universitari di persone di estrazione medio bassa e proletaria. Nonostante ciò, l’Italia era sempre rimasta uno dei paesi con la più bassa percentuali di laureati sul totale della popolazione impiegata. Questo specifico ascensore sociale si è per di più arrestato dopo la riforma Gelmini del 2008-2010, a cui aveva corrisposto un intenso ciclo di lotte universitarie, che viaggiavano in parallelo a una dura battaglia sindacale – fra le altre cose in difesa dell’articolo 18. Per farla breve: accademiche, attivisti, artiste, in Italia, vuol dire in buona sostanza precari della ricerca, della scuola, dell’editoria, dello spettacolo e della cultura.
In un paese con un gravissimo problema di sistema produttivo, per lo più ancorato a piccole e medie imprese a scarsissimo valore aggiunto e ancor più povera innovazione tecnologica, la strada che ha spianato l’austerity degli anni post-crisi del 2008 (ma il processo era avviato da lungo tempo con le liberalizzazioni – trasversali a centrodestra e centrosinistra – delle imprese di Stato) è stata quella di investire ancora meno in formazione e ancora più nello sfruttamento diretto della forza-lavoro. I public intellectuals statunitensi sono persone appartenenti a un ceto medio-alto che si rivolgono a un pubblico – ancora esistente – di ceto medio-alto, che partecipando alle mobilitazioni sindacali animate dal proletariato possono ancora fare da cinghia di trasmissione, mettere a disposizione di un’elaborazione collettiva il portato teorico elaborato altrove dentro le università. In Italia, il ceto medio si è impoverito così tanto da, quasi, sparire senza lasciar traccia. Un board di precari parla a un pubblico inesistente, a una classe media che in questo paese è stata completamente asfaltata. A maggior ragione diventa allora un compito politico per tuttə tessere le fila tra le vertenze sindacali e le riforme sociali, comprese quelle dei diritti civili.
La locura
Significativamente, con la formulazione academics and public intellectuals, Martin Duberman apre il suo Has the Gay Movement Failed? del 2018. Lo fa risuonando, di fatto, con il lettore implicito di Halberstam, nell’ammettere come pubblico di riferimento del suo testo un ceto colto in precarizzazione relativa (e non in pieno impoverimento). Lo fa con queste considerazioni: Non è sbagliato affermare che gli scorsi cinquant’anni hanno costituito, per il cambio di atteggiamento verso le minoranze negli Stati Uniti, un punto di svolta importante. Nello scorso mezzo secolo siamo passatə dall’essere patologizzatə, condannatə – sì, persino
cacciatə – in blocco, all’essere largamente accettatə come una minoranza legittima (qualcosa di simile a una minoranza etnica, anche se nessunə sembra molto sicurə di questo). Nel 1950 in quindici stati eravamo inseritə nelle leggi sulla “psicopatia sessuale”, alcune delle quali definivano la “sodomia” come sesso anale o orale con altre persone (o anche con animali non umani) e permettevano la carcerazione a tempo indeterminato dopo l’arresto. Cinquant’anni dopo, la Corte Suprema degli Stati Uniti non solo ci ha dichiarato “adattə” al matrimonio, ma nel 2003 aveva già decriminalizzato la “sodomia” tra adultə consenzienti (più avanti ritorno su questa mezza vittoria), e nel 2011 il Congresso ha abrogato la grottesca policy militare del “don’t ask, don’t tell”. Un miglioramento di condizioni? Assolutamente sì, ma il raggio d’azione e il contenuto del nostro “progresso” necessitano di una pesante decostruzione. Non sono il solo a provare una soddisfazione ridotta per quello che la maggior parte delle persone gay salutano come il più rapido successo della lunga storia delle proteste sociali nel nostro paese. Tra noi, quellə che borbottano sono una minoranza determinata. Siamo sovrarappresentati tra gli accademici e gli intellettuali pubblici gay (academics and public intellectuals), ma scarsamente rappresentati nella popolazione LGBTQ in senso più largo.
Forse è necessario, in questo passo, sottolineare prima di tutto l’inversione politica che Duberman pretende: non sono gli intellettuali pubblici a dover rappresentare la comunità LGBTQ e i suoi bisogni, ma questa a dover rappresentare meglio i “borbottatori” accademici. Ma d’altronde è proprio in questo che risiede un grosso pezzo della contraddizione cui è andato incontro il movimento queer come movimento antiassimilazionista. Beninteso: la queerness – quella statunitense di certo, e in parte quella italiana – non è mai stata particolarmente favorevole alla battaglia per i diritti matrimoniali e le leggi antidiscriminazione. E questo è evidente in Cruising Utopia quando Muñoz scrive, contro l’appello matrimonialista dell’avvocato liberale Evan Wolfson:
Wolfson non ce la fa a criticare il piu ampio regime ideologico che presenta il matrimonio come qualcosa di desiderabile, naturale, buono. La sua politica assimilazionista postula un “tutti” che di fatto è un pochi: le poche persone queer con i mezzi sufficienti ad accedere al capitale e immaginarsi una vita integrata nella cultura capitalista nordamericana. Non c’e neanche bisogno di aggiungere che il “tutti” invocato dall’avvocato gay e dai suoi seguaci corrisponde a un manipolo di soggetti-cittadini che gode di numerosi diritti concessi soltanto a poche persone queer (non certo a tutte).
Non si può non dare ragione a Muñoz nel descrivere come “ottuso” il testo di Wolfson, né nel diagnosticare il limite di questo tipo di prospettiva schiacciata su diritti limitati e per poche persone, e su quanto sia avvilente un concetto di libertà appiattito su quello di matrimonio. Ma come Duberman, fallisce nel vedere la possibilità di approfondire, espandere e ribaltare la contraddizione che diagnostica nella rivendicazione del matrimonio egualitario: e se anziché opporre un idealismo queer al pragmatismo gay, secondo le categorie create da Muñoz, si trattasse di rimbeccare il riformismo sulle sue contraddizioni aggiungendo dimensioni che diano forza a una prospettiva materialistica rivoluzionaria?
In un paese come l’Italia, nonostante la presenza solida e nutrita di grandi associazioni LGBTQIA+ nazionali, l’avanzamento dei diritti civili continua a essere completamente impensabile. Va presa in carico questa differenza sostanziale con il contesto statunitense, che ci permette anche in parte di provincializzare la posizione degli USA dalla centralità che hanno assunto finché sono stati la potenza economica egemone nel capitalismo globale. E c’è un lapsus, in fin dei conti, nella candida ammissione di Duberman per la quale noi anti-assimilazioniste siamo sovrarappresentate tra accademici e intellettuali. Si tratta della fatale quanto casuale ammissione che, in fin dei conti, alla promessa borghese del frammentato orizzonte dei diritti non si è potuto che contrapporre l’altrettanto frammentario balbettio del preferirei di no. Afasia del futuro forcluso di fronte alla precaria prospettiva dei diritti individuali.
Abbiamo, col tempo, fallito sempre meglio, al punto di capire che il matrimonio egualitario non scioglierà i problemi delle nostre relazioni sessuo-affettivo-sentimental-economiche complesse (semmai una riforma radicale del diritto di famiglia). Ed è perfettamente chiaro che qualunque legge, in uno Stato borghese, non riassorbirà magicamente tutta l’eccedenza che il sociale LGBTQIA+ esprime. Ma va capito che c’è un legame fondamentale tra l’avanzamento dei diritti e il loro riconoscimento sul lavoro (e viceversa: tra l’avanzamento della classe lavoratrice e il riconoscimento per tutt_ dei diritti civili), che come accennavo prima costituisce già in prima battuta una forma di disciplina in gradi di peggiorare contemporaneamente le condizioni di lavoro (rendendole più ricattatorie) e quelle di svolgimento del tempo libero (rendendolo perennemente minacciato e insicuro).
Continuiamo a venire malmenate per strada, in una caccia all’omo che gli anni di pandemia (quella nuova, il COVID-19) hanno solo accentuato. Allo stesso modo in cui è chiaro che il dibattito sul ddl Zan è stato, per molte persone della comunità, fatale. È riemerso chiaro alla coscienza di chiunque che quegli applausi in parlamento significano una sola cosa. Dietro alle paillettes di Platinette, dietro alle comparsate di Malgioglio al Grande Fratello, dietro Tommaso Zorzi che ballicchia Io sono Giorgia insieme a Giorgia Meloni, il paravento della locura nasconde il terribile abisso della verità profonda di questo paese bottegaio e fascista: ci vogliono (ancora) mortə. Su questo punto si possono criticare finché si vuole i parlamentari LGBTQIA+ italiani e la loro estrema sottovalutazione del problema al di là della dimensione della lamentela – un pericolo molto peggiore e più concreto rispetto alla francamente lontana ipotesi di allinearsi alle tendenze omonazionaliste statunitensi o israeliane.
Lo metto nero su bianco perché sia chiaro che la mia posizione non è mai stata, contrariamente a quanto sostenuto, nonostante un’errata corrige dichiarata, sulle pagine di Gay.it, accusare di omonazionalismo una classe politica che non è nemmeno nelle condizioni strutturali di poter intraprendere quella strada. Un’autocritica da appartenente all’antagonismo queer, però, devo ripeterla (l’avevo già, forse confusamente, formulata qui): molto ottimisticamente, nel 2017 avevo salutato la ristampa di Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli intravedendovi la possibilità di rilanciare un simbolico queer antisociale per ripensare la piattaforma delle rivendicazioni italiane. Gli anni successivi hanno dimostrato abbondantemente non solo che un immaginario queer, in qualità del suo essere nient’altro che immaginario, può perfettamente essere riassorbito all’interno di politiche LGBTQIA+ riformiste, ma anche che il contraltare teorico della concentrazione preponderante sulle politiche del tempo libero non può che essere la dimensione della critica nella sua forma astratta e decostruttiva. Quando invece il punto resta, un secolo fa come adesso, dimostrare che anche le conquiste del riformismo non possono mai realizzarsi se non inserite in una strategia rivoluzionaria.
Il riconoscimento pieno dei diritti civili serve ad attenuare la portata ricattatoria dell’oppressione per genere e orientamento sessuale, nel nodo capitale contro lavoro come nella vita fuori dal lavoro. Può inoltre essere un campo di reinvenzione e sperimentazione delle forme di organizzazione s/familistiche che come queer mettiamo a disposizione anche del resto della società (o siete ancora rimastə a fare sesso sul lettone, ma dal lato sinistro?). Allo stesso tempo, il punto determinante resta il conflitto che si genera sul punto di applicazione dello sfruttamento – il luogo di lavoro, il rapporto salariale che ci accomuna come classe lavoratrice, dove questa è una compagine sociale fatta anche di persone diverse fra loro per genere, orientamento sessuale, razzializzazione, condizioni di abilità fisica e psichica, struttura neurologica, e via dicendo. Non è l’intersezione che ci manca, ma il principio in base al quale vengono organizzate tutte le nostre oppressioni e che produce un punto di conflitto che ci accomuna. E, naturalmente, un’organizzazione politica all’altezza del compito (si può ancora dire “partito”?). È la leva a partire dalla quale tutto il resto può smuoversi, il punto che permette di darci lo spazio per fallire come preferiamo e realizzare la nostra utopia concreta – per riprenderci il futuro.