L a Russia non è un Paese per giovani”, scriveva Artemij Troickij, critico musicale e studioso dei movimenti underground. Dopo due secoli di controculture, che spaziano dai decabristi e i raznočincy del primo Ottocento fino ai ravers e ai gopniki post-Perestrojka e caduta dell’URSS, l’inizio del nuovo millennio sembrava sancire, con la transizione al libero mercato, la fine di quel dissenso clandestino che aveva accompagnato il progetto sovietico. Eppure il fermento artistico dell’opposizione, dal compianto artista drag Vlad Monroe alle performance estreme di Pëtr Pavlenskij, sembra testimoniare l’esatto opposto. L’inquadramento di questi fenomeni è più complesso di una semplice continuità o cesura con l’esperienza sovietica, e non c’è caso più emblematico delle Pussy Riot per indagare le pieghe del dissenso nell’epoca Putin, anche e soprattutto nelle sue contraddizioni. A distanza di dieci anni dalla sentenza, ripercorreremo criticamente il fenomeno Pussy Riot fuori dalle narrazioni riduttive che, soprattutto in Occidente, ne hanno decretato il successo senza tenere conto degli elementi culturali che distanziano il collettivo e le loro performance dall’interpretazione più corretta e contestualizzata.
Per discutere opportunamente di questi fenomeni è bene partire dalle caratteristiche del putinismo, e come questi assi ideologici giochino un ruolo enormemente importante nella lettura delle politiche globali. A dispetto di molte interpretazioni ingenue che vedono nel progetto imperialista di Putin un ritorno alle politiche sovietiche, il cui fine ultimo, ricordiamo, era la creazione di un futuro utopico, la peculiarità dell’ideologia putiniana è invece lo sguardo al passato, idealizzato e riscritto con l’obiettivo di restituire un’unità narrativa e una missione alla Russia con un sincretismo di storia e mitologia. Come osservato da Luca Gori ne La Russia eterna, In un mondo percepito come “gioco a somma zero”, dove Stati Uniti ed Europa punterebbero a indebolire la Russia come già accaduto con l’allargamento della Nato e con il sostegno alle “rivoluzioni colorate”, Putin ha scelto di perseguire […] una strada tracciata dal pensiero conservatore sin dal XIX secolo per liberare la Russia dalla ricorrente necessità di imitare modelli esterni di modernizzazione.
Negli anni Dieci del nuovo millennio la situazione sociale ed economica sembrava infatti aver raggiunto una certa stabilità – che in gergo putiniano, nota Troickij, significa tacito assenso della popolazione di fronte alla corruzione imperante dei politici in cambio di un accesso anche minimo alla cultura dei consumi fino ad allora preclusa. Era infatti possibile non solo fruire dei media e delle merci occidentali fuori dalla clandestinità, ma persino possedere beni di lusso, case di proprietà e viaggiare liberamente all’estero. Sotto l’aspetto dell’organizzazione politica dal basso le proteste erano poche, ma estremamente frequentate. Dagli ambientalisti che nel 2010 si sono radunati in piazza Puškin per protestare contro la costruzione di una superstrada fino alle proteste contro le elezioni presidenziali del 2012, che vedevano Medvedev farsi da parte per ricoprire il ruolo di primo ministro in favore di una seconda presidenza Putin, decine e centinaia di migliaia di persone iniziarono a riversarsi nelle piazze in masse eterogenee e fortemente politicizzate. Dopo il 2012, e soprattutto dopo l’occupazione russa della Crimea del 2014, il fermento delle giovani generazioni sembrava aver ceduto il passo alla disillusione e al “poravalismo”, termine derivato da pora valit’ (“ora di andarsene”), usato per indicare la fuga di massa dei giovani dal Paese.
È in questo contesto che si forma Nadežda “Nadja” Tolokonnikova, ideatrice e frontwoman di Pussy Riot. Nata a Noril’sk, città della Siberia settentrionale, si trasferisce a Mosca nel 2007 per studiare filosofia, ed è lì che, insieme al compagno e futuro marito Pëtr Verzilov e agli amici Oleg Vorotnikov e Natal’ja Sokol, fonda il collettivo Vojna (“Guerra”). Le difficoltà incontrate dal collettivo erano molteplici, come nota Masha
Gessen nella biografia del gruppo Words Will Break Cement: il linguaggio dell’opposizione era inefficace e pieno di cliché, le possibilità di ritagliarsi uno spazio nella scena artistica erano oscurate da macro-figure dal grande successo commerciale e la società russa non era ancora stata in grado di affrancarsi dai codici di comunicazione di epoca sovietica che la politica aveva destabilizzato, rimaneggiato e rimesso in piedi lasciando poco spazio per una critica realmente sovversiva.
Negli anni Dieci in Russia, sotto l’aspetto dell’organizzazione politica dal basso le proteste erano poche, ma estremamente frequentate.
Nei due anni successivi il gruppo Vojna allestisce numerose performance artiviste e recluta altri membri negli ambienti di giovani creativi, ma nel 2009 si separa in due sottogruppi. È in questo periodo che Nadja conosce Ekaterina “Kat” Samucevič, nuova leva del gruppo moscovita e futuro membro delle Pussy Riot, con cui nel gennaio e febbraio 2011 inizia una serie di performance di sole donne con Operation: Kiss Garbage, concepita per protestare contro la riforma della polizia che sarebbe entrata in vigore il marzo successivo. L’azione, che aveva l’obiettivo di parodiare gli sforzi di Medvedev di ripulire l’immagine delle forze dell’ordine dalle accuse di corruzione e abuso di potere, consisteva nel baciare agenti di polizia dello stesso sesso. Era inizialmente previsto che vi prendessero parte anche attivisti uomini, ma questi si rifiutarono o scelsero direttamente di non presentarsi sul luogo della performance. La “performance di sole donne” è stata quindi casuale, ma Kat e Nadja, particolarmente soddisfatte dal risultato dell’azione e dalle implicazioni politiche di un artivismo unicamente e specificamente femminile, decidono di continuare questo percorso artistico.
Ispirate dal pensiero di Julia Kristeva, dallo sguardo visionario di Niki de Saint Phalle, dalla queer theory e dal movimento delle Riot Grrrl, Nadja e Kat cercano di trasporre questi elementi eterogenei nella Russia di Putin, ritagliandosi uno spazio di possibilità creative lontane dalla militanza fianco a fianco con i fidanzati (com’era stato il caso di Vojna) e, soprattutto, fuori dal linguaggio pretenzioso degli ambienti artistici. Si accorgono infatti che, a differenza degli States e di altri Paesi europei, la tradizione di un’arte femminista del dissenso è sostanzialmente assente in Russia, non soltanto nella pratica ma anche nella teoria, come testimoniato dal ritorno a ruoli di genere tradizionali come conseguenza della liberalizzazione post-sovietica o dalla scarsità di informazioni reperibili sui gender studies in ambito accademico. È da queste premesse che viene alla luce il collettivo Pussy Riot, che a dispetto delle semplificazioni operate dalla stampa occidentale non è un gruppo musicale, bensì un progetto artistico che unisce le strategie dell’azionismo russo al linguaggio del punk per intervenire nello spazio pubblico col fine di mettere in scena delle performance illegali, provocatorie e ironiche che non potessero essere cooptate dai media mainstream. E l’insistenza di questi stessi media, in particolar modo quelli del mondo europeo e statunitense, sull’aderenza o meno delle Pussy Riot ai canoni delle Riot Grrl e del femminismo occidentale si è rivelato deleterio per un dibattito che tenesse conto delle politiche globali e analizzasse il fenomeno nella sua specificità contestuale – ma facciamo un passo alla volta.
Dopo un inizio informale e raffazzonato, una videolezione sul femminismo punk seguito dal brano Kill the Sexist, cover altrettanto informale e raffazzonata di un brano dei Cockney Rejects, il gruppo diventa virale con Osvobodi brusčatku, videoclip pubblicato il 6 novembre 2011 in cui i membri del gruppo, in balaclava e abiti sgargianti divenuti poi la loro uniforme ufficiale, cantano sulle impalcature della metro di Mosca esortando i cittadini a lanciare sassi in strada per protestare contro le elezioni parlamentari. La performance ottiene un enorme successo mediatico e le azioni del gruppo continuano, tra riprese, montaggi e lunghi post sul loro blog dove forniscono materiali aggiuntivi, spiegazioni e lunghe digressioni politiche. Un mese dopo si svolgono le parlamentari (“non meno corrotte di quelle di quattro e otto anni prima, ma forse nemmeno più corrotte”, nota Gessen), e nello sconforto dei risultati i nuovi decabristi scendono in strada. Con l’inasprirsi del dissenso, l’atmosfera delle strade cambia completamente: flash mob, manifestazioni, picchetti, proteste creative. In questa nuova norma le azioni delle Pussy Riot non spiccano più, le ragazze convengono che serve qualcosa di estremo. Ed è così che si arriva alla svolta del 2012, anno dell’arresto e della fama internazionale.
A gennaio 2012 le Pussy Riot decidono di esibirsi a Lobnoe mesto, una piattaforma di pietra sulla Piazza Rossa. Con l’aiuto di una scala portata da casa il gruppo sale sulla piattaforma, accende un fumogeno e canta Putin zassal, “Putin si è pisciato addosso”. L’esibizione funziona, e nonostante l’arresto di otto ragazze, non conclusosi con la detenzione, le Pussy Riot diventano un fenomeno di massa, tra interviste, servizi fotografici e un’immensa copertura mediatica. Nel frattempo, nel dilagare delle proteste, Putin tenta di contrastare l’opposizione stringendo i legami con la Chiesa ortodossa, parte centrale della sua strategia politica. In un articolo sulla Russia contemporanea uscito sul numero Planetaria di DWF, l’autrice nota come il neo-conservatorismo di Putin si innesti proprio sull’alleanza con la Chiesa ortodossa e sulla riscrittura della storia russa in chiave nostalgica, e crei il proprio sistema valoriale attorno all’opposizione all’Occidente atlantista. Come osserva Gori, il legame tra Stato e ortodossia è sempre esistito in funzione di una finalità escatologica, e l’agenda sociale di quest’alleanza è una presa di posizione “in opposizione al ‘declino morale dell’Occidente’ e al ‘relativismo culturale dell’Europa’”.
Il collettivo Pussy Riot non era un gruppo musicale, bensì un progetto artistico che univa le strategie dell’azionismo russo al linguaggio del punk per mettere in scena performance illegali e ironiche che non potessero essere cooptate dai media mainstream.
I valori del putinismo includono infatti il ritorno alla famiglia nucleare e ai ruoli di genere tradizionali in aperto contrasto con le rivendicazioni identitarie occidentali, da radicare sul territorio grazie alla sempre più crescente compenetrazione di religione e politica. Il patriarca Kirill tiene così dei discorsi che incitano i credenti a non manifestare, e l’8 febbraio, un mese prima delle elezioni presidenziali, incontra personalmente Putin. “Il messaggio era chiaro”, scrive Gessen, “Putin era vicino a Dio”. La scelta della Cattedrale di Cristo Salvatore come location dell’esibizione venne da sé: simbolo della mercificazione della religione ortodossa e dell’alleanza sempre più stretta tra Stato e Chiesa, scissa tra funzioni ed eventi laici che ospitava a pagamento, era il luogo ideale per la Pank moleben, dove la traduzione di moleben in “preghiera” non rende giustizia all’accezione di “servizio di supplica” o di intercessione così presente nel testo.
Gli eventi del 21 febbraio sono noti: alcuni membri del collettivo entrano nella cattedrale, salgono sulle scale davanti all’altare, indossano i passamontagna e iniziano a ballare. Vengono immediatamente fatte uscire da due addetti alla sicurezza; l’azione è durata poco meno di un minuto e le registrazioni della performance sono quasi inutilizzabili, ma la sera stessa Nadja, Kat e Marija riescono a finire di montare il video con altri spezzoni filmati in precedenza e caricarlo sul web. Il contesto culturale è ben visibile nell’architettura del pezzo: tra citazioni a Rachmaninov e riferimenti alla tradizione artistica dell’azionismo russo e alla religione ortodossa, il gruppo invoca la Vergine Maria per esortarla a diventare una femminista e liberare la Russia da Putin. La viralità della clip supera ogni aspettativa, i giornalisti fanno la fila per parlare con le tre ragazze che rilasciano interviste, ma il gruppo, dopo una breve fuga, viene arrestato. È l’inizio del loro periodo di detenzione, preludio a quello che è stato uno dei processi più spettacolarizzati dell’era Putin, anche e soprattutto a livello internazionale.
La Russia non era nuova ai processi-farsa. In epoca stalinista le udienze erano create ad hoc per portare avanti una narrazione di partito, ma la copertura mediatica del processo a Nadežda Tolokonnikova, Ekaterina Samucevič e Marija Alëchina, seguito da televisioni e giornali di tutto il mondo, apre a una riflessione ben più ampia sulle politiche globali di visibilità e mobilitazione che trascendono il singolo caso, e sulla facilità con cui delle istanze culturalmente specifiche possono essere cooptate in agende politiche transnazionali. Nel suo reportage per il New Republic, Julia Ioffe nota come il processo fosse diventato una continuazione involontaria della loro performance, mentre Gessen afferma che i tribunali erano ormai l’unica arena rimasta per un confronto politico. La lettura russa dell’udienza, che vedeva pendere sulle tre imputate l’accusa di “vandalismo motivato da odio religioso e ostilità”, si concentrava sulla volontà o meno delle artiste di offendere il sentimento religioso, glissando volutamente sul contenuto politico dell’esibizione. Lo stesso Putin, nota Anya Bernstein, dichiarò più volte che la performance non aveva un sottotesto politico, portando avanti la narrazione dell’offesa al sentimento religioso. Questa scelta, scrive Bernstein, “rivela una concezione dell’elemento politico in cui lo Stato – incarnato dalle autorità – è l’unico latore della politica, mentre le altre sfere – religione, genere o cultura – sono concepite come idealmente autonome. Secondo tale definizione, la politica rifiuta il dibattito o il conflitto”. Nonostante i numerosi appelli delle imputate alla motivazione politica, esplicitata anche in un post sul loro blog che criticava la lettura in chiave antireligiosa, nonché i continui riferimenti alla religione ortodossa e all’intento puramente anticlericale nelle loro arringhe, la strumentalizzazione non si fermò, e trasformò l’esibizione in una semplice bravata.
Anche gli ambienti intellettuali non mossero critiche a questo riduzionismo interpretativo. Né i fan delle Pussy Riot né i giovani dell’intelligencija, gli stessi che avevano preso parte alle proteste del dicembre 2011, sembravano notare il contenuto politico dell’esibizione. Gli interrogatori sembravano più interessati allo svolgimento dei fatti in termini di performance o non performance, con una serie di domande che miravano a capire la natura del prodotto: se ci fosse stato o meno un sottofondo musicale, se avessero cantato e quali parole fossero state udite dai testimoni. L’opinione pubblica era unanime nel portare avanti una retorica lassista e infantilizzante, che silenziava il vero movente della performance (generalmente ritenuta offensiva e di pessimo gusto) a favore di una lettura identitaria che privava le imputate della loro autonomia. Nadja e Marija vennero mitizzate, erotizzate e feticizzate nel loro ruolo di giovani donne e madri, molti furono gli articoli che impiegavano un lessico allusivo (quando non esplicitamente osceno) e ogni tentativo di lanciare un messaggio, come lo sciopero della fame o l’attivismo per i diritti delle detenute, veniva spogliato del suo contenuto politico e ricondotto superficialmente all’avvenenza delle tre donne.
Né i fan delle Pussy Riot né i giovani dell’intelligencija, gli stessi che avevano preso parte alle proteste del dicembre 2011, sembravano notare il contenuto politico dell’esibizione.
La reazione dei Paesi occidentali fu diametralmente opposta. Il processo alle Pussy Riot divenne un caso politico, ma per i motivi sbagliati: venne letto non come una meditazione sulle ingerenze della Chiesa in politica o sugli aspetti problematici degli assetti correnti, ma come una questione di libertà di parola che, in continuità con la narrazione della Guerra fredda, operava una contrapposizione netta tra un Occidente laico, liberale e civilizzato e una Russia che appariva ancora come un’autocrazia repressiva. L’ingiustizia percepita dai media occidentali portò avanti una narrazione, specialmente negli Stati Uniti, che vedeva le tre donne come martiri della libertà di parola in uno Stato illiberale, ed era ben diversa dal dibattito pubblico che si era aperto in Russia sulla reputazione delle forze dell’ordine, sui limiti o meno dell’arte e sull’ambivalenza del sistema penale in base ai ruoli di genere.
Anche la lettura del fenomeno operata dal femminismo occidentale si è rivelata particolarmente dannosa. La risposta dei Paesi europei e nordamericani poggiava su una decontestualizzazione che non teneva conto degli elementi russi che rientravano nella sperimentazione artistica del gruppo. La mobilitazione di numerose icone pop, come Madonna, Björk o Paul McCartney, ha contribuito alla lettura del collettivo come un semplice gruppo punk e delle vicende giudiziarie come di un processo al punk-rock come genere musicale – il tutto sotto una lente occidentalista che fa perdere in traduzione molti dei riferimenti. Tra le analisi del fenomeno, ci sono state anche delle riflessioni sulle contraddizioni stesse del punk rock, un genere da sempre imbevuto di tensione dialettica tra autenticità e performance meticolosamente costruita, tra artigianalità stilistica e fama nei circuiti capitalisti globali, che attraverso una rete di attivismo, meme e produzione derivativa crea una proliferazione di discorsi – tutti elementi incarnati dal caso Pussy Riot.
L’inquadramento della performance nei soli termini di un’esibizione di un gruppo musicale (affermazione ripetutamente smentita da Tolokonnikova, che insiste sull’identità di Pussy Riot come collettivo di performance art tout court), per giunta ascritto alle politiche riot grrrl formatesi negli anni ’90 negli States, riduce la specificità locale del gruppo a una semplice riproduzione di una controcultura nata in un contesto e in un’epoca completamente diversi; e non fa che perpetuare una dicotomia di opposizione geopolitica che ne mercifica alcuni caratteri nel nome della solidarietà internazionale e del femminismo.
La stessa trasformazione dell’identità del collettivo in un fenomeno di massa è uno degli aspetti più critici della ricezione della performance. La spettacolarizzazione del caso e della solidarietà internazionale, a metà tra il patinato e il paternalistico, ha trasformato l’iniziale estetica dell’anonimato (i passamontagna colorati e l’abbigliamento sgargiante, facilmente replicabili da sostenitori e sostenitrici di tutto il mondo) in un brand, spogliando l’atto e il gruppo della loro portata sovversiva. L’identificazione identitaria delle femministe occidentali con il gruppo rientra in una politica dove gli affetti giocano un ruolo più importante delle argomentazioni, e la performance globale di solidarietà è avvenuta non con un avvicinamento alle istanze originarie del gruppo e alla specificità culturale della Russia, bensì con una proiezione di istanze e quadri di riferimento occidentali sulle tre donne, divenute delle celebrità oltre i loro avatar anonimi, e con l’utilizzo delle iconografie di Pussy Riot in svariate occasioni, da concerti a campagne pubblicitarie.
La reazione dei Paesi occidentali fu diametralmente opposta. Il processo alle Pussy Riot divenne un caso politico, ma per i motivi sbagliati.
L’epilogo della vicenda, lontano dai fasti del processo e dalla mobilitazione internazionale, è meno noto. La problematica della commercializzazione del collettivo era già stata sollevata dal gruppo stesso con l’espulsione di Tolokonnikova e Alëchina, che continuarono tuttavia dopo la scarcerazione a utilizzare il nome Pussy Riot. Lo stesso Pëtr Verzilov, ex compagno di Nadja, venne allontanato proprio per lo sfruttamento della loro immagine a fini di lucro insieme agli avvocati difensori, come ricordato da Gessen nella sua inchiesta. Il progetto è ora legato principalmente a Tolokonnikova, che sembra aver accantonato la politica per immergersi nel ruolo di diva pop/punk che l’ha consacrata in Occidente, attirandosi prevedibilmente le critiche di Putin.
Per quanto i suoi esiti siano deludenti sotto molti aspetti, il caso Pussy Riot si rivela comunque emblematico per una riflessione sugli elementi che l’hanno reso così divisivo: la lettura di cronache e processi sotto una lente valoriale che non tiene conto delle differenze culturali, la narrazione depoliticizzata in Russia e fraintesa in Europa e Stati Uniti, la riduzione di un percorso artistico a semplice traduzione culturale di una controcultura con cui il pubblico è più familiare, la trasformazione dell’arte e della protesta in un brand sotto la guisa del femminismo pop. La lettura stessa dell’evento è stata alterata nell’ennesimo scontro ideologico tra l’Occidente e la Russia, che non fa che fomentare i processi di costruzione e opposizione identitaria già menzionati; e la trasformazione di una parte circoscritta dell’operato di Pussy Riot in un fenomeno di massa, spogliato del contenuto politico soggiacente, rende manifesti tutti i meccanismi proiettivi e di strumentalizzazione delle agende politiche che ruotano intorno al caso. I problemi sono molti, trascendono il singolo gruppo e il loro operato e vanno affrontati fuori da gran parte dei paradigmi di analisi a cui siamo abituati. Resta il fatto che, se la capacità di sollevare domande può rivelarsi più utile del fornire risposte, forse il caso Pussy Riot merita ancora uno sguardo retrospettivo per una riflessione più consapevole sulle politiche dei media.