L a filosofia in Europa non se la passa bene. In un sentito j’accuse, il teorico e critico Hamid Dabashi ne rileva la “depravazione morale” e il “tribalismo,” in seguito a una comunicazione – siglata, fra gli altri, da Jürgen Habermas – intitolata Principî della solidarietà. Una presa di posizione. La comunicazione si riferisce alle manifestazioni pubbliche in supporto alla popolazione palestinese seguite al massacro ancora in atto, portato avanti dal governo di estrema destra israeliano e dal suo braccio armato, e viene pubblicata (a più di un mese dall’inizio della carneficina) come comunicazione ufficiale di Normative Orders, noto e ben foraggiato centro francofortese di ricerca. I firmatari (Rainer Forst, Klaus Günther e Jürgen Habermas) e la firmataria (Nicole Deitelhoff) dichiarano che il “contrattacco” israeliano è un atto “giustificato in principio.” C’è qualcosa di ironico quando un Habermas riesce a dichiarare che un eccidio è qualcosa di giustificato in principio – con in principio, cioè incondizionatamente, delle buone ragioni per essere eseguito –, quando fatichiamo ad affermare la stessa cosa per il principio di non contraddizione, Aristotele incluso. Dabashi, perciò, commenta: “La domanda non è più cosa possiamo pensare di Habermas, novantaquattrenne, come essere umano. La domanda è cosa possiamo pensare di lui come sociologo, filosofo e pensatore critico. Conta ancora qualcosa quello che scrive, per il mondo, ammesso che lo abbia mai fatto?”
Habermas è un esponente, della penultima generazione, della Scuola di Francoforte, una delle ultime correnti di pensiero rilevanti nate e coltivate nella filosofia europea. La teoria critica francofortese nasce, detto a grandi linee, dalla combinazione di filosofia dialettica e materialismo, sociologia e psicoanalisi. La sua eredità teorica e politica si sviluppa come analisi e critica delle istituzioni macro- e micro-sociali. Nelle sue evoluzioni più recenti, la staffetta è passata nelle mani di una nuova cerchia di autori e autrici. Già Habermas aveva abbandonato le spinte più rivoluzionarie e materialiste del marxismo per sposare un riformismo più interessato alle pratiche culturali e sociali che ai processi economici. Questa critica viene spesso ribadita anche per quanto riguarda il neohegelismo di Axel Honneth, francofortese di ultima generazione, presentato in due testi ormai chiave della filosofia tedesca contemporanea, La lotta per il riconoscimento e Il diritto della libertà. Dal pensiero rivoluzionario al realismo riformista, dal materialismo al culturalismo: la parabola della teoria critica germanofona sembra svilupparsi su questo asse, al netto degli aggiustamenti e dell’ambiguità di alcune tesi centrali.
Rahel Jaeggi, filosofa di spicco nel solco francofortese, prende di petto questa parabola e questione nel suo ultimo libro, apparso a fine 2023 per i tipi di Suhrkamp. Già il titolo, Fortschritt und Regression, progresso e regressione, tradisce il tema e il problema del testo, che si fa carico, fra le altre cose, di affrontare l’eredità della Scuola di Francoforte. L’idea di progresso, infatti, viene introdotta, e quasi all’inizio del libro, anche in riferimento alla nozione di “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente,” celebre definizione data al concetto di comunismo ne L’ideologia tedesca di Karl Marx e Friedrich Engels.
Per contestualizzare in un modo un po’ superficiale, si può dire che mentre Marx aderisce a un’idea lineare e poco critica di progresso, i francofortesi – Theodor W. Adorno e Walter Benjamin sopra tutti – hanno al contrario problematizzato questa prospettiva. Essi sottolineano che alcune convinzioni sul progresso morale, sociale e tecnologico sembrano sostenere talvolta forme di dominazione – esemplarmente lo sfruttamento di esseri umani e natura – o, detto in altre parole, la regressione morale, sociale e tecnologica.
Dal pensiero rivoluzionario al realismo riformista, dal materialismo al culturalismo: la parabola della teoria critica germanofona sembra svilupparsi su questo asse.
Il testo di Jaeggi mette dunque molta carne al fuoco e su differenti linee di riflessione. Due in particolare mi interessano. La prima riguarda il modo in cui le società si trasformano, progrediscono o regrediscono, e i criteri secondo i quali è possibile giudicare le trasformazioni sociali. In questo senso, Jaeggi affronta l’opposizione fra riforma e rivoluzione, accennata poco sopra: sono le prime o le seconde a mettere un mondo storico e sociale sulla strada del cambiamento o addirittura del miglioramento? La seconda linea di riflessione, legata alla prima, riguarda il concetto di teleologia della storia. Si tratta cioè di capire se gli eventi e le costellazioni storiche – le epoche, le società, i sistemi economici, eccetera – possono essere spiegati in riferimento a fini o a scopi che essi perseguono. Le spiegazioni teleologiche pongono relativamente pochi problemi in alcuni campi del sapere. Non è sospetto spiegare teleologicamente le azioni volontarie: che allungo il braccio per afferrare il bicchiere e bere è una spiegazione accettabile. In altri ambiti, invece, le cose vanno diversamente. Asserire che le giraffe hanno il collo lungo per raggiungere i rami più alti e nutrirsi non è una buona spiegazione dell’evoluzione delle specie. Ora, la domanda è: questo tipo di ragionamento può essere applicato alla storia in modo legittimo? I cambiamenti storici delle società, o anche delle costellazioni sociali sia in piccola che in grande scala, si muovono in direzione del progresso? O, almeno, quali criteri ci permettono di stabilirlo?
Un merito incontestabile di Jaeggi è di porre entrambe le questioni in termini meno astratti della bagarre giornalistica che molto spesso le appesantisce. Opporre riforma e rivoluzione in modo categoriale è controproducente a una descrizione efficace delle società umane. Se è innegabile che alcuni eventi si caratterizzano come prepotenti discontinuità rispetto alle conformazioni sociali che li precedono, è altrettanto vero però che non si tratta di discontinuità che stanno nel vuoto. Sono piuttosto discontinuità in un certo senso preparate da altri eventi e cambiamenti, da pretese magari disilluse, ma non per questo meno presenti prima della soluzione di continuità. Chiosando Marx, si potrebbe dire che l’operazione di scardinamento di una conformazione sociale ed economica non è arbitraria, ma mette in atto pensieri del passato, sogni dell’umanità:non è un lavoro semplicemente nuovo, ma la prosecuzione di una liberazione già iniziata. Parallelamente, pensare alla storia nei termini riformistici di una nave di Teseo, a parti e tasselli da cambiare e aggiustare, è una metafora poco azzeccata: può far perdere di vista che proprio alcuni tasselli di scarto talvolta si fanno pietre angolari, cioè rifanno l’organizzazione dell’edificio.
Jaeggi sviluppa perciò l’idea di un sistema dinamico, in cui progresso morale, trasformazioni sociali e cambiamenti tecnologici ed economici si determinano a vicenda. Per esempio, è difficile sostenere che il passaggio da una costellazione sociale che legittima la schiavitù o il lavoro minorile a una che non lo fa, a oggi, non rappresenta un progresso morale. Allo stesso tempo, però, sappiamo anche che questo giudizio dipende in modo sostanziale dalle pratiche sociali, discorsive, argomentative, che una comunità umana adotta e adopera per giustificare scelte e organizzazioni. Una cultura che tratta, nello spazio pubblico, alcune categorie di esseri umani come qualcosa di impunemente sfruttabile – nella tradizione o nel costume, ma anche nel codice giuridico – non articolerebbe lo stesso giudizio morale sulla legittimità della schiavitù. Inoltre, i cambiamenti nelle pratiche sociali e nella cultura di una comunità umana più o meno vasta dipendono sostanzialmente dallo stato tecnico ed economico di quella stessa comunità: eliminare la necessità di manodopera per mezzo dello sviluppo tecnologico è parte integrante del processo per cui una comunità umana può abbadonare la pratica la schiavitù.
E tuttavia questo processo non è automatico. È possibile, purtroppo, pensare a una società in cui lo sviluppo dei mezzi tecnici è tale da poter permettere una riduzione dell’orario di lavoro della stragrande maggioranza della popolazione, o almeno una ridistribuzione di beni e oneri, ma ciò non avviene: e per un’esplicita volontà politica di una classe e per una prepotenza delle pratiche culturali che fanno del lavoro salariale una necessità di natura. Quella società è, molto probabilmente, la nostra, in cui la scarsità di tempo e di risorse è prodotta artificialmente al fine di massimizzare i profitti, cioè di mantenere e aumentare il tempo, le risorse e la ricchezza nelle mani di una determinata classe. Cioè: viviamo in un mondo che avrebbe le risorse materiali e discorsive per considerare la settimana lavorativa di quaranta ore un abominio, ma questa possibilità appare drammaticamente bloccata.
Pensare alla storia nei termini riformistici di una nave di Teseo, a parti e tasselli da cambiare e aggiustare, può far perdere di vista che proprio alcuni tasselli di scarto talvolta si fanno pietre angolari, cioè rifanno l’organizzazione dell’edificio.
Messo in questi termini, il divenire storico è meno un’opposizione di riforma e rivoluzione che un sistema complesso di continuità e discontinuità: alla storiografia il compito di rilevare quali pesi, quali strappi, quali promesse abbiano avuto più importanza in vista di quali cambiamenti posteriori, alla politica quello di decidere e tentare quali pesi, quali strappi, quali promesse siano più o meno praticabili e fertili. E però: praticabili in vista di quali cambiamenti posteriori e fertili per quali fini? Come spiega Arthur C. Danto in Narration and Knowledge, già Analytical Philosophy of History, la descrizione di eventi storici è strutturalmente narrativa, cioè descrive stati di cose ed eventi anteriori dal punto di vista delle relazioni significative che questi intrattengono con stati di cose ed eventi posteriori. Descrivere un evento storico è cioè impossibile senza considerare che questo viene descritto dal punto di vista di ciò in cui esso risulta – che non è necessariamente un fine o uno scopo intenzionale, come il bere sta all’afferrare un bicchiere pieno d’acqua –, cioè senza includere un evento o uno stato di cose posteriore nei criteri che usiamo per identificare un evento o uno stato di cose posteriore. In un certo senso, e questo è uno snodo importante, descrivere il cambiamento sociale e, a maggior ragione, incidere sul cambiamento sociale, sono faccende che non si pongono se non chiedendosi dove si è diretto o si dirige il cambiamento sociale – cioè, in ultima analisi, che non si pongono senza chiedersi se e verso dove cambiamento sociale e divenire storico progrediscono.
Con questo voglio dire che la prima domanda sulla logica e dinamica del cambiamento sociale conduce alla seconda, più spinosa: dove è possibile mettere il segno del progresso o dove è possibile orientarsi, per fare del cambiamento un progresso? La risposta di Jaeggi è: il progresso è un “cambiamento nel cambiamento.” Allo stesso modo, però, anche la sua controparte, cioè secondo Jaeggi la regressione, è un “cambiamento nel cambiamento.” Cosa significano, dunque, progresso e regressione, il tema del volume? Jaeggi costruisce i suoi concetti contro l’idea fondamentale che il progresso sia un momento di trasformazione rispetto a una condizione che sarebbe al contrario di stasi. La filosofa sottolinea che pensare alla società e ai suoi elementi costitutivi – principî morali, pratiche sociali e forme di vita, dimensione economica e tecnica – come a qualcosa di statico è fuorviante. La società è sempre dinamica, cioè un cambiamento, una costante prassi di “soluzione di problemi,” di “crisi,” “conflitti” e “contraddizioni,” così come i suoi elementi costitutivi si trasformano e si determinano a vicenda.
A questo punto, Jaeggi inserisce una distinzione essenziale, cioè fra problemi di “primo ordine” e di “secondo ordine.” Le società sono costantemente confrontate con problemi di primo ordine: crisi sanitarie, economiche, climatiche, precarietà lavorativa, disoccupazione, eccetera, cui una società può rispondere in svariati modi. Un problema di secondo ordine si verifica invece quando una società sembra non possedere “le pratiche e istituzioni, cioè le risorse sociali, che rendono possibile (o appunto impossibile)” risolvere i problemi di primo ordine. Scrive Jaeggi: Quando, per esempio, il governatore dello Utah, nel 2022, invita la popolazione a pregare contro la secca del fiume Colorado, causata dall’uomo, si può certamente parlare di un problema di secondo ordine. Un ulteriore esempio sarebbe una società che ha, per un verso, il potenziale per risolvere una crisi – come non di rado è il caso nelle crisi di approvvigionamento autoindotte in un’economia mondiale sviluppata globalmente –, ma che manca, per l’altro, della volontà (politica) di opporsi a determinate dinamiche economiche ed ecologiche.
Jaeggi sostiene che progresso e regressione sono concetti che si applicano ai casi in cui una società ha a che fare con problemi di secondo ordine. Il progresso è insomma una “metacategoria” del cambiamento sociale: non descrive tanto il cambiamento, quanto il modo del cambiamento, come il cambiamento cambia; non tanto se una società ha imparato a fronteggiare determinati problemi, quanto se “ha imparato a imparare.” In questo senso, il progresso è secondo Jaeggi una categoria “riflessiva.” Le società cambiano costantemente. Ma come cambiano, come fronteggiano il cambiamento, come riescono a cambiare, dirigere, organizzare il cambiamento – questo è decisivo, quando si parla di progresso e di regressione.
Le società cambiano costantemente. Ma come fronteggiano il cambiamento, come riescono a dirigere, organizzare il cambiamento – questo è decisivo, quando si parla di progresso e di regressione.
Stabilito dunque che progresso e regressione si applicano a problemi di secondo ordine, si tratta di capire cosa caratterizza il contenuto dei due concetti. Quando si dà progresso e quando si dà regressione? Quando il cambiamento cambia in modo progressivo e quando il cambiamento cambia, invece, in modo regressivo? La risposta di Jaeggi è, per un verso, in continuità con la collocazione di progresso e regressione sul piano della riflessione del cambiamento sociale. Per l’altro, aggiunge a questa prima definizione una dimensione più concreta. Abbiamo detto che il progresso designa innanzitutto un modo di trasformarsi della dinamicità sociale caratterizzato dall’aver imparato a imparare: più che risolvere una situazione problematica, il mutamento progressivo è quel mutamento disposto ad affrontare in modo creativo i problemi, cioè a trovare nuove soluzioni a nuovi problemi. In questo senso, il progresso è un “processo d’arricchimento” delle risorse sociali e culturali già stratificate e depositate in una determinata società. Una società progredisce quando è in grado di arricchire, di potenziare le sue capacità di risolvere i problemi. Così alla definizione più formale si aggiunge una determinazione più sostanziale: il cambiamento è progressivo quando arricchisce il ventaglio di possibilità pratiche e sociali per fronteggiare crisi, conflitti, problemi, arricchisce cioè il potenziale pratico di una società. Al contrario, il cambiamento regressivo è un cambiamento che si profila come un “blocco esperienziale” o “d’apprendimento.” Il cambiamento sociale è regressivo quando, anziché arricchire il potenziale di risoluzione dei problemi e di emancipazione di una società dalle sue contraddizioni, lo riduce, lo blocca, quando è cioè un “tradimento del possibile.”
Riformulati in questi termini, i concetti di progresso e regressione non sono più sclerotizzati nell’opposizione pericolosamente astratta di riforma e rivoluzione, stasi e cambiamento, ma indicano modi del divenire sociale e storico che coinvolgono ragion pratica, pratiche sociali e dimensione economico-tecnologica. Nel caso del progresso, una società cambia sapendo cambiare; nel caso della regressione, una società cambia rendendosi sempre più difficile o inverosimile cambiare, cioè riducendo i modi in cui è in grado di affrontare problemi e carenze. Jaeggi dedica particolare attenzione a fascismo e nazionalismo come modi della regressione, cioè modi di cambiare che, anziché disporsi a una revisione della realtà sociale, predicano l’irrigidimento della storia – una caratteristica che già la ricostruzione storico-culturale di Mimmo Cangiano ha messo ampiamente in luce nel contesto della sua ricerca sulla “cultura di destra.”
È interessante ora notare che il modello sviluppato da Jaeggi può essere mobilitato, in modo riflessivo, proprio su quella costellazione di ragion pratica, pratiche sociali e culturali e dimensione economica che ho indicato all’inizio: la filosofia in Europa, o almeno la filosofia accademica. E in effetti la filosofia accademica è proprio da considerare una costellazione come tutte le altre: include tanto dei principî normativi di ragion pratica, quanto delle pratiche sociali, discorsive e non, così come una dimensione economica – diciamo, al minimo, la distribuzione dei fondi di ricerca.
Senza voler articolare lo stesso j’accuse che ho citato all’inizio, cosa si mostra nel comunicato da cui sono partito, Principî della solidarietà? Volerlo interpretare come testimonianza di un cambiamento progressivo, nei termini dati da Jaeggi, sarebbe audace. Al contrario, la presa di posizione è letteralmente incapace di prendere sul serio – anche al fine di criticarle – quelle posizioni che problematizzano e che, per farlo, mobilitano il diritto internazionale, le operazioni belliche israeliane. Lo fa assumendo una legittimità di principio e di diritto delle ultime, aggiungendo peraltro che ogni parallelo con la fattispecie del genocidio supera il limite del giudizio critico socialmente accettabile. Sembra proprio che alcuni “principî” siano diventati dei modi di non saper rispondere alle crisi e ai conflitti che, in tutta la loro drammaticità, stanno caratterizzando la società europea (ingiustizia economica e simpatie neofasciste innanzitutto), così come le loro drammatiche conseguenze sul piano internazionale citato all’inizio, che si contano in decine di migliaia di assassinati. A volte, la filosofia smette di saper riflettere, soprattutto quando si fa braccio discorsivo che legittima un’identità culturale o nazionale o, peggio, l’intervento poliziesco e autoritario.
Il cambiamento sociale è regressivo quando, anziché arricchire il potenziale di risoluzione dei problemi e di emancipazione di una società dalle sue contraddizioni, lo riduce, lo blocca, quando è cioè un “tradimento del possibile.”
Al contrario della comunicazione siglata Habermas, di questo pericolo era ben cosciente Jacques Derrida, che scrive in Dello spirito. Heidegger e la questione:
Il nazismo non è nato nel deserto. Lo si sa, ma è sempre necessario ricordarlo. E anche se, lontano da ogni deserto, fosse cresciuto come un fungo nel silenzio di una foresta europea, ciò sarebbe accaduto all’ombra di grandi alberi, protetto dal loro silenzio, o dalla loro indifferenza, ma sul loro stesso suolo. Di questi alberi, che popolano, in Europa, un’immensa foresta nera, non farò un inventario, né conterò le specie. Per delle ragioni essenziali, la loro presentazione non può ridursi a una mera rappresentazione. Nella loro abbondante tassonomia, quelle specie porterebbero nomi di religioni, di filosofie, di regimi politici, di strutture economiche, di istituzioni religiose o accademiche. Insomma, nomi che rimandano a ciò che confusamente si chiama “la cultura” o “il mondo dello spirito”.
A riprova che la filosofia farebbe sempre meglio a rileggersi, piuttosto che declamare curiose giustificabilità in principio, per quanto ben foraggiate e promosse a mezzo stampa queste possano anche essere.
Fortschritt und Regression di Rahel Jaeggi offre, al contrario di un irrigidimento, una griglia categoriale per analizzare i fenomeni sociali, non solo per quanto riguarda l’interrelazione di morale, cultura e materialità, ma soprattutto per tenere il polso al loro divenire. Al testo si potrebbero muovere alcune critiche, più o meno decisive. Non è chiara, per esempio, la necessità di distinguere fra problemi di primo e di secondo ordine, per poi descrivere modi piuttosto che piani del divenire storico. Ci si può anche chiedere se il concetto di cambiamento regressivo sia in grado di fotografare alcuni elementi chiave, soprattutto in termini di agire politico, che spesso caratterizzano i cambiamenti regressivi: cioè che a volte l’incapacità di imparare è meno determinata dall’assenza di strumenti o volontà politici che dalla presenza di una chiara volontà e di interessi di classe opposti a essa. Proprio uno degli esempi portati da Jaeggi, cioè saper affrontare le difficoltà ecologiche, rende visibile non tanto un blocco esperienziale, quanto proprio la presenza della volontà politica di non affrontare la questione ecologica, per le implicazioni che prendere sul serio la giustizia climatica avrebbe in termini di ridimensionamento dei profitti della classe dominante e di redistribuzione della ricchezza.
Dal mio più personale punto di vista, però, e con questa riflessione chiudo, il merito fondamentale del libro è di rimettere al centro della filosofia e teoria critica della società la questione del modo del divenire storico. Alcuni fra i primi francofortesi avrebbero parlato di utopia – una direzione che Jaeggi cerca di eludere. E tuttavia: già stabilire che le società e la storia, sebbene non abbiano fini prestabiliti e non si muovano verso un unico solo risultato, tuttavia risolvono problemi – stabilire cioè che non si muovono “verso” qualcosa, ma “via” da qualcosa – prepara la maglia rotta nella rete della filosofia per indagare, ancora una volta, l’utopia come modo del divenire sociale e storico.
Risolvere contraddizioni sociali accade nell’orizzonte della possibilità di un mondo migliore o, detto altrimenti, si apre solo nell’orizzonte dell’ottimismo militante e utopico di cui scriveva Ernst Bloch.
Perché, in effetti, risolvere un problema, muoversi via da qualcosa, implica – e vorrei dire di necessità – un’idea di come il mondo sarebbe senza quel problema determinato, senza quella crisi, quel conflitto, quella contraddizione, quel dolore, quell’eccidio. Questo certo non significa che c’è un solo fine al divenire sociale e storico. Indica piuttosto che risolvere contraddizioni sociali accade nell’orizzonte della possibilità di un mondo migliore o, detto altrimenti, si apre solo nell’orizzonte dell’ottimismo militante e utopico di cui scriveva Ernst Bloch. Non c’è un solo mondo migliore e questo mondo migliore non è determinato in tutte le sue proprietà, tantomeno meccanicamente destinato a realizzarsi. Esso include piuttosto un ventaglio di controfattuali, che pulsa e preme nelle contraddizioni di una società. Questa lezione è importante, in un presente, che è il nostro, in cui discorso pubblico e, spesso, universitario confabulano a dichiararsi portavoce del migliore dei mondi possibili – una disperazione che la filosofia, poco importa se in Europa o altrove, intra o extra moenia, ha per ora il compito di smantellare puntigliosamente.