D omenica 24 settembre, Berlino, Willy Brandt Haus, storica sede dei socialdemocratici tedeschi. Sono passati pochi minuti dalla comunicazione dei disastrosi numeri di SPD alle elezioni nazionali: solo il 20,5%, il peggior risultato dal 1949 a oggi. Il candidato Martin Schulz, ex Presidente del Parlamento europeo, si presenta a una piccola folla di sostenitori e attivisti. Schulz inizia a parlare: “Compagne e compagni, amiche e amici della socialdemocrazia”.
Stop. Ci si potrebbe già fermare ai saluti: il mondo di oggi permette ancora di dichiararsi sia “compagni” sia “amici della socialdemocrazia”? Non è una questione di valore, è una domanda tecnica sull’oggettiva lacerazione tra la tradizionale volontà, da una parte, di rappresentare il mondo del lavoro e gli strati sociali più deboli e, dall’altra, di governare la società post-capitalista nel suo insieme. Una lacerazione che venti anni fa era divenuta completamente obsoleta con l’hype della Third Way di Tony Blair, ma che ora sembra essere di nuovo cruciale.
La sconfitta della SPD, infatti, è parte di un trend europeo. Il declino della socialdemocrazia in Europa si è guadagnato anche una definizione tutta sua: pasokification. Il termine nasce dal nome del Pasok, il partito socialista greco capace di passare dal 44% al 5% dei voti in meno di sei anni. Certo, in Grecia c’è stata una crisi senza precedenti e la caduta della vecchia classe dirigente era inevitabile. Ma la pasokification come conseguenza più o meno diretta della crisi economica non si è fermata ad Atene, anzi: le ultime vittime sono state il Parti Socialiste francese e il PvDA olandese, entrambi diventati irrilevanti dopo le ultime elezioni in patria. Ci sono anche casi meno virulenti, come quello del PSOE spagnolo, che è comunque passato dalle vocazioni governative della scintillante era Zapatero ai banchi dell’opposizione.
Possiamo dire che la pasokification si basa su tre elementi fondamentali.
Il primo è che, sotto la spinta degli stravolgimenti e degli scompensi economici, tanti elettori non vedono più alcuna differenza significativa tra il centrodestra e il centrosinistra e che sono solitamente i partiti di centrodestra a essere eventualmente scelti dall’elettorato centrista e liberale.
Il secondo elemento è che, proprio perché i partiti socialdemocratici vengono percepiti come troppo ambigui, in tempi di crisi tanti elettori di sinistra preferiscono ritornare a una vecchia o nuova sinistra anti-establishment che metta strutturalmente in discussione l’ordine socio-economico del mondo in cui vivono.
La terza dimensione, infine, ci dice che quando al disagio sociale si sovrappone l’etnicizzazione delle rivendicazioni politiche e il conseguente rifiuto del modello multiculturale, i voti che erano della sinistra vanno verso i nuovi partiti cosiddetti populisti e identitari.
Il declino della SPD tedesca rientra nello schema della pasokification su tutta la linea.
Che differenza c’è tra un socialdemocratico e un cristiano-democratico?
Negli ultimi quattro anni i socialdemocratici hanno governato la Germania assieme alla CDU di Angela Merkel, all’interno di una classica Große Koalition. In questa legislatura l’indistinguibilità tra i due partiti ha raggiunto livelli senza precedenti, forse anche a causa della stretta intesa tra la Cancelliera Merkel e il Vice Cancelliere, ed ex Segretario di SPD, Sigmar Gabriel.
Angela Merkel è nota per la capacità di assorbire lentamente le posizioni dei suoi alleati, erodendo di fatto l’identità politica di chi governa con lei. Il risultato finale di questo processo è confermato anche dai dati. L’istituto economico di ricerca DIW di Berlino ha analizzato la composizione sociale dell’elettorato di ciascun partito: l’elettorato di CDU ed SPD è in larga parte uguale in quanto a reddito e istruzione. Domenica scorsa 820.000 tedeschi che nel 2013 avevano votato per SPD hanno votato invece per la CDU. Al tempo stesso, 800.000 tedeschi che nel 2013 avevano votato CDU hanno invece votato per la SPD. Alla perdita di voti verso destra della SPD va aggiunto anche un altro 5% di elettori che si sono spostati verso i liberali di FDP. Anche questo fatto è emblematico. I liberali sono il partito più vicino alla Bundesbank e alla Confindustria tedesca, tra i loro obiettivi ci sono l’alleggerimento fiscale, più flessibilità sul lavoro e i più tagli allo stato sociale. Insomma, FDP non è esattamente il partito dei meno abbienti o degli operai, eppure una parte del recente elettorato socialdemocratico si sente in sintonia con prospettive prettamente liberiste.
La sconfitta della SPD è parte di un trend europeo. Il declino della socialdemocrazia in Europa si è guadagnato una definizione tutta sua: pasokification.
Certo, SPD mantiene ancora un contatto privilegiato con il mondo del lavoro, ma bisogna dire che i suoi canali di comunicazione sono le forze sindacali tradizionali e più istituzionalizzate, ad esempio all’interno delle grandi industrie dell’auto o tra gli impiegati pubblici. Il mondo del lavoro non garantito, invece, è sempre più lontano dai socialdemocratici, che sembrano poco capaci di parlare a chi vive con un contratto precario e atipico, oppure a chi dipende interamente dai sussidi di stato.
Per recuperare terreno su questo fronte, dopo essere stato scelto come candidato socialdemocratico nello scorso gennaio, Martin Schulz ha subito impostato la sua campagna elettorale sulla giustizia sociale. La campagna, decorata anche con un forte e ultra-ottimistico europeismo, ha inizialmente entusiasmato una parte dei tedeschi, tanto che la SPD ha addirittura scavalcato brevemente Merkel nei sondaggi. Poi, però, la magia di Schulz è svanita. Secondo alcuni è mancata la personalità dello stesso candidato, ma la verità è probabilmente un’altra. Sul piano dell’europeismo tanti tedeschi si sono riavvicinati alla prudenza di Merkel, dopo essersi chiesti quale fosse la convenienza materiale nel dare eccessiva fiducia ai partner europei. Sul piano della giustizia sociale, invece, in molti si sono forse ricordati che nei primi anni 2000 fu proprio Gerhard Schröder, ultimo Cancelliere socialdemocratico, a promuovere le epocali riforme sociali raccolte sotto l’ombrello della cosiddetta Agenda 2010. Gerhard Schröder, ai tempi, si comportò da controverso statista: le sue riforme hanno alleggerito la spesa interna tedesca e favorito la nuova competitività su scala internazionale su cui oggi si regge il surplus commerciale tedesco. Per farlo, però, Schröder ha anche sacrificato gran parte dei vecchi diritti del lavoro e del welfare tedesco, decidendo di tamponare le mutilazioni sociali con forme di sussidio di base che sono oggi unicamente sufficienti a garantire una minima sussistenza per i tedeschi più in difficoltà.
Come se non bastasse, i socialdemocratici gestiscono oggi l’eredità avvelenata del governo Schröder nel modo meno intelligente: tutti i meriti della nuova forza economica internazionale della Germania sono stati lentamente raccolti da Angela Merkel, mentre alla SPD è rimasta solo l’imbarazzante richiesta di rivedere l’Agenda 2010 dopo averla creata.
L’amore-odio tra SPD e Linke
La perdita di voti da parte della socialdemocrazia verso la sinistra meno moderata e più combattiva è una costante della pasokification, basta guardare all’emergere di SYRIZA in Grecia, di Jean-Luc Mélenchon in Francia e di Podemos in Spagna. Nel Regno Unito questo passaggio è avvenuto invece restando all’interno dei Labour, con l’affermarsi della leadership di sinistra di Jeremy Corbyn.
In confronto ai risultati del 2013, quest’anno la SPD ha sottratto alla Linke 270.000 elettori, mentre il flusso di voti dai socialdemocratici alla sinistra socialista è stato di ben 700.000 voti. In Germania il passaggio di pasokification dal centrosinistra alla sinistra è però più complesso che in altri paesi. Ciò è dovuto alle particolari caratteristiche della Linke tedesca e allo storico rapporto conflittuale tra socialdemocratici e comunisti (poi post-comunisti).
In Germania il passaggio di pasokification dal centrosinistra alla sinistra è più complesso che in altri paesi, a causa delle particolari caratteristiche della Linke e dello storico rapporto conflittuale tra socialdemocratici e comunisti.
Più che in altri paesi europei, nella politica tedesca c’è una tradizionale distinzione tra sinistra di opposizione e centrosinistra di governo. Quest’ultima promuove fin dai tempi della Prima Guerra mondiale la ricerca della pace sociale interna al mondo produttivo in nome di un benessere patriottico. Un’ulteriore profonda differenza tra socialdemocratici e sinistra socialista è data dal fatto che la Linke è oggi un partito che riunisce, da un lato, la vecchia ala extraparlamentare o fuoriuscita dalla SPD e, dall’altro, gli eredi più o meno diretti del partito unico SED dell’ex DDR. Questo fa della Linke uno strano animale politico che unisce una tradizione di disobbedienza anti-establishment e un’altra di conformità istituzionale al sistema (pur trattandosi di un sistema scomparso). Un’ambiguità che fa in modo che negli stati dell’ex DDR i voti socialdemocratici andati alla Linke siano soprattutto legati alla delusione per quello che viene percepito come un mancato compimento della riunificazione tedesca e sono quindi anche caricati da dinamiche di rivendicazioni territoriali e regionali. Negli stati federali della Germania occidentale, invece, lo stigma anticomunista che ancora colpisce la Linke ha probabilmente deviato molti voti dei delusi socialdemocratici verso un altro partito, i Verdi, che hanno infatti strappato alla SPD ben 760 mila voti rispetto al 2013 (regalandogliene soltanto 380 mila). I Verdi sono una formazione fortemente liberal in senso americano e hanno probabilmente guadagnato voti rispetto ai socialdemocratici non solo con le istanze ambientaliste e di giustizia sociale, ma con i temi dei diritti delle minoranze, dell’immigrazione e del multiculturalismo.
Il vento di destra
Malgrado la perdita di voti verso i Verdi, però, è difficile sostenere che l’SPD sia stata sonoramente sconfitta a causa di una sua eccessiva durezza sul tema dell’immigrazione. Piuttosto, è vero il contrario. Pur essendo sostanzialmente molto distante dall’area socialdemocratica, nelle elezioni di domenica scorsa la destra populista di Alternative für Deutschland è riuscita a sottrarre ad SPD 510 mila elettori, mentre il movimento in senso opposto è stato quasi inesistente. Una delle circoscrizioni dove SPD ha perso più voti in assoluto, la Svizzera Sassone – Osterzgebirge, è quella in cui AfD ha incassato un incredibile 35,5%.
La penetrazione dei populisti nel tradizionale bacino elettorale SPD può essere anche notata tramite l’affermarsi di AfD tra i settori professionali un tempo regno della socialdemocrazia. Tra i lavoratori manuali il 24% ha votato SPD, il 21% AfD: una cifra che per i socialdemocratici è molto vicina al loro 20,5% finale, ma che per i populisti è ben oltre il loro 12,6% complessivo. La stessa cosa vale per i voti dei disoccupati: il 23% ha votato SPD, il 21% per AfD. Contando che SPD è il più antico partito politico tedesco ancora in vita e che AfD è stata invece creata nel 2013 da un oscuro professore di macroeconomia, i dati sono a dir poco significativi delle metamorfosi in corso.
Com’è potuto accadere? La penetrazione della destra populista in quello che un tempo era il territorio esclusivo della sinistra si basa sostanzialmente sull’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali.
In occasione del suo discorso per la sconfitta elettorale, Schulz ha subito riconosciuto come l’accoglienza di 1,4 milioni di migranti in Germania sia stata una delle cause dell’arretramento dei partiti di governo, aggiungendo però che questo non potrà significare un ripensamento dei principi che hanno determinato l’apertura delle frontiere tedesche nell’estate del 2015. In verità, però, durante la campagna elettorale, Schulz era stato molto più ambiguo sull’argomento, criticando spesso le politiche dell’immigrazione di Merkel, ad esempio per il mancato coordinamento con i partner europei.
La penetrazione dei populisti nel tradizionale bacino elettorale SPD può essere anche notata tramite l’affermarsi di AfD tra i settori professionali un tempo regno della socialdemocrazia.
Quello dei voti che si spostano verso la destra identitaria, però, è un fenomeno molto ampio che interessa anche la Linke e la stessa destra cristiano-democratica, e non può essere fermato con semplici promesse di un coordinamento europeo dei flussi migratori. Dal punto di vista socio-economico la diffidenza verso l’immigrazione in Germania è legata alla paura di una maggiore competizione nell’accesso al mercato del lavoro e, anche, ai benefici minimi del welfare. Soprattutto le aree più depresse e meno sviluppate del paese, ad esempio nell’ex DDR, vedono gli investimenti tedeschi per affrontare l’immigrazione come una diretta mancanza di comprensione e attenzione per le urgenze nelle loro regioni. Il gioco dell’estremizzazione di queste forme di frustrazione e risentimento è decisamente facile per le forze populiste.
C’è poi, ovviamente, anche una dimensione culturale della questione immigrazione. Per decenni in Germania la tolleranza dell’alterità è stata un elemento irrinunciabile e indiscutibile delle narrazioni e delle auto-narrazioni istituzionali. Tuttavia, nel paese sta ora riemergendo un’anima più arcaica, un’impostazione secondo cui il popolo tedesco debba avere una Leitkultur, una “cultura guida” che non si limiti unicamente alle regole basilari della società civile, ma che plasmi l’identità stessa della Heimat, la patria tedesca. Le discussioni sulla Leitkultur e l’inquieta ricerca di una propria identità nazionale forte e riconoscibile sono direttamente collegate con l’elefante nella stanza del dibattito sull’immigrazione: l’incontro/scontro in Germania con le molteplici espressioni delle culture islamiche.
Su questo tema le forze politiche tedesche si stanno ultimamente posizionando: CDU ed FDP sembrano orientate a recuperare un identitarismo nazional-conservatore (seppur non isolazionista), la Linke è scissa tra una critica marxista ortodossa della religione e un’ampia apertura verso le comunità immigrate sulla base della loro dimensione sociale. I Verdi, invece, sono certamente i più determinati nella promozione dei principi multiculturali della società aperta, una posizione su cui, con molta meno omogeneità e pubblicità, si è allineata anche la SPD, soprattutto quando si tratta di respingere le istanze xenofobe di AfD. Contemporaneamente, però, sembra che in una parte dell’area socialdemocratica stia maturando la volontà di affrontare anche il paradosso di una sinistra che ha plasmato per decenni l’occidente con la sua spinta secolarizzante e che ora, di fronte a Islam e islamismi, pare invece da tempo incapace di riaffermare le prospettive emancipatorie della stessa secolarizzazione. Ovviamente, muoversi in questo senso tenendosi distanti dall’identitarismo reazionario è molto complesso e non è detto che nell’intellighenzia di area socialdemocratica ci sia la forza per districarsi in questo complessità.
Una nuova SPD per una nuova Germania?
Nel centro della Willy Brandt Haus c’è proprio una statua di Brandt, l’ex Cancelliere tedesco dell’ostpolitik, l’uomo che ha reso grande il nome della socialdemocrazia tedesca. Pochi metri più in là, dopo aver salutato la piccola folla, Martin Schulz continua a parlare con sicurezza, forte dell’opinione che, nonostante tutto, un candidato subentrato nella corsa a otto mesi dalle urne non possa avere molte colpe per una disfatta. Per ora, infatti, sembra che Schulz rimarrà il segretario SPD (anche se la sua leadership subirà certamente molti attacchi interni nei prossimi mesi).
A un certo punto del discorso post-sconfitta Schulz dice ai suoi che la SPD sceglierà di stare all’opposizione. La reazione dei sostenitori è a dir poco entusiasta: si tratta della liberazione dal ruolo di gregari di Angela Merkel.
A un certo punto del discorso post-sconfitta Schulz dice ai suoi che, visto il risultato, la SPD sceglierà di stare all’opposizione. La reazione dei sostenitori è a dir poco entusiasta: si tratta della liberazione dal ruolo di gregari di Angela Merkel. Nelle ore successive si diffonde velocemente il verbo secondo cui, dopo una tale débâcle, le cose non potranno che andare meglio. La SPD, dicono gli attivisti più convinti, avrà il tempo di ritrovare se stessa all’opposizione, rafforzando anche la propria voce in quello che sarà un confronto parlamentare duro e quotidiano con i populisti di AfD.
Da un punto di vista strategico l’ottimismo post-traumatico dei socialdemocratici è probabilmente funzionale, ma SPD dovrà affrontare davvero tante sfide se sogna di governare di nuovo fra quattro anni (o, magari, anche meno). Si tratterà di ritrovare un rapporto con tutti i cittadini tedeschi che lavorano, e non solo con quelli garantiti dagli accordi sindacali dei decenni passati. Si tratterà di non accettare acriticamente il concetto di occupazione in Germania e, invece, di andare a vedere sul campo quale sia la qualità del lavoro e, anche, del sistema di welfare. Si tratterà di affrontare il tema dell’immigrazione non censurando subito come immorali le preoccupazioni che una parte della popolazione ha in merito alle dinamiche d’integrazione, alla sostenibilità economica dell’accoglienza, alla laicità, alla sicurezza.
Secondo alcuni la socialdemocrazia è stata vincente solo come eccezione temporanea di un periodo di incredibile prosperità materiale e di assoluto dominio geopolitico occidentale. I prossimi anni della SPD tedesca dimostreranno se, invece, la socialdemocrazia avrà anche la forza di affrontare periodi storici molto più incerti, più complessi e più agitati.