L oreto Open Community è il nome di un progetto che trasformerà uno spazio pubblico di Milano – piazzale Loreto – in un centro commerciale, per sua natura privato. Già solo per questo sarebbe inaccettabile: privatizzare una piazza, in un momento in cui le politiche urbane neoliberali sono globalmente sottoposte a un fuoco critico crescente, è un atto politico imperdonabile e reazionario, non ci sono più scuse. Ma privatizzare una piazza con un carico simbolico come quello di Loreto, scenario dell’omonima strage nazista del 1944 e pochi mesi più tardi dell’esposizione del cadavere di Mussolini e di un gruppo di suoi accoliti, è ancora più grave, specialmente in una città come Milano che si propone sempre più come un parco a tema della “Resistenza Experience”, alimentando un vero e proprio marketing della memoria partigiana fatto di tour e celebrazioni didascaliche che ne svuotano il significato.
Espulsioni e management del dissenso
Le ragioni per osteggiare questo progetto non sono circoscritte al semplice spazio della piazza, ma trovano maggiore forza negli effetti materiali e immateriali che avrà sui quartieri circostanti e sulla città tutta. Il più ovvio e il più importante è la definitiva gentrificazione dell’area a nord di Loreto, tra via Padova e viale Monza, ora ancora in parte abitata da una popolazione multietnica ed economicamente fragile che di fronte all’inevitabile impennata dei prezzi del metro quadro innescata dal progetto non avrà altra scelta che cercare casa altrove, più lontano dal centro. Il processo espulsivo è già in atto da anni grazie al marketing urbano che ha creato il vicino quartiere NoLo, vendendo come primo asset della zona la diversity etnica, culturale e di genere degli abitanti che nel frattempo contribuiva a cacciare. E comincia a fare vittime anche verso il nord della città, a Gorla e a Greco, fino al recentissimo sgombero di un gruppo di occupanti degli ex bagni pubblici di via Esterle, cui non è stata data alcuna abitazione alternativa, neppure temporanea.
Meno evidente, ma non meno dannoso, è il ruolo sperimentale di LOC, che funge contemporaneamente da ariete per espandere la capacità di intervento dei privati sul tessuto della città pubblica e di manifesto per una rigenerazione urbana fondata sull’applicazione scientifica del cosiddetto management del dissenso, che in parole povere significa controllo e manipolazione dell’opinione pubblica attraverso processi di finta partecipazione allo scopo di evitare l’emersione di proteste e conflitti.
A scuola di soft power
LOC vuole diventare paradigma, fare scuola: e infatti Ceetrus-NHOOD, la società immobiliare specializzata in retail nata dalla Holding Auchan della famiglia Mulliez che si è aggiudicata la vittoria del concorso per la rigenerazione della piazza con un investimento di 80 milioni, ha posto fin dall’inizio una cura maniacale nella presentazione del progetto come somma di tre elementi: il processo partecipativo, lo spazio pubblico verde e inclusivo, la partnership pubblico-privato.
Privatizzare una piazza è un atto politico imperdonabile e reazionario. Privatizzare una piazza con un carico simbolico come quello di Loreto è ancora più grave.
Che, guarda caso, sono esattamente gli obiettivi dichiarati nei concorsi Reinventing Cities, di cui Loreto è un esempio, nati per promuovere nelle 100 città appartenenti al network internazionale C40: una forma di rigenerazione urbana in grado nientemeno di combattere il Climate Change, riducendo la temperatura globale di 1,5° e producendo città resilienti e inclusive, naturalmente attraverso la religione della partnership pubblico-privato. Non a caso tra i massimi sostenitori ed estensori del programma si annoverano Michael Bloomberg, campione del Real Estate globale ed ex sindaco-desertificatore di New York, e la sua società filantropica Bloomberg Associates. Nei discorsi delle grandi menti chiamate a collaborare con il C40, ad esempio l’inventore della “città di 15 minuti” Carlos Moreno, si configurano scenari meravigliosi dove l’interesse di privati illuminati si concilia con quello delle masse urbane, costruire favorisce l’equilibrio ambientale dell’intero globo e libera i cittadini dall’alienazione urbana.
Rovesciare la frittata
Per rispondere al meglio alle esigenze del concorso, NHOOD ha inserito nel team di progettazione due soggetti attivi da anni nel campo della consulenza e gestione dei processi partecipativi, Temporiuso (nato nel contesto delle contestazioni – domate – contro il quartiere di lusso Porta Nuova-Garibaldi di Hines-Catella) e FROM, agenzia di citymaking. Ha poi inaugurato, dopo la vittoria, una stagione di “ascolto” delle comunità di quartiere, cercando di coinvolgere tutte le associazioni e i gruppi attivi, e ha aperto l’“hub” LOC 2026 in via Porpora, uno spazio in cui vengono organizzati incontri per i residenti e dove un plastico sotto vetro e dei cartelloni forniscono alcune selezionate informazioni sulla trasformazione.
Quali informazioni? La forma e la natura del futuro spazio, si sarebbe portati a pensare. No, invece: il plastico viene subito derubricato, come i render, a mera “suggestione”, ma non rispecchia il progetto definitivo, che è ancora “in fieri”. Quanto a LOC, viene descritto come la trasformazione di “Piazzale Loreto da grande snodo di traffico a piazza verde a cielo aperto, uno spazio pubblico evoluto verso l’emozione e l’esperienza che sarà per Milano un simbolo di architettura contemporanea e di vita”.
In questa idilliaca immagine quindi l’appropriazione privata di una piazza è completamente rovesciata: i benefattori privati aiutano le istituzioni pubbliche – ormai simbolo dell’impotenza e della cronica mancanza di fondi – a restituire ai cittadini uno spazio pubblico, e non viceversa. Le cifre parlano di 50% di strada carrabile in meno, di 10.000 metri quadri di spazio pubblico in più e di 500 alberi. Ma solo en passant si accenna al fatto che questo “spazio pubblico” sarà il tetto di un edificio commerciale eretto su tre livelli, dal mezzanino della stazione del metro al secondo piano sopraelevato:
Incubatore di attività e hub attrattivo, LOC diventa nuovo distretto urbano del commercio di vicinato di NoLo, ospita co-working e un asilo di quartiere, offre un vivace palinsesto socioculturale. Le architetture, sostenibili, green e con strutture ibride in legno, sono cornice urbana, sponde di una piazza permeabile ma protetta, elementi di attrattività e di presidio.
Peggio del negazionismo
In un articolo apparso su Domus all’indomani del concorso, Alessandro Benetti giustamente si chiedeva come si possa definire spazio pubblico la copertura e le corti di un centro commerciale: saremo forse liberi di manifestare, protestare tra le vetrine e sulle terrazze coi tavolini come fanno i parigini in rivolta a Place de la République? O ci saranno, come al Parco Bam e a Piazza Gae Aulenti, una gestione affidata in concessione al privato e tante guardie giurate?
L’appropriazione privata di una piazza è completamente rovesciata: i benefattori privati aiutano le istituzioni pubbliche – ormai simbolo dell’impotenza e della cronica mancanza di fondi – a restituire ai cittadini uno spazio pubblico, e non viceversa.
Ma poi in che cosa consiste l’ascolto dei cittadini, se il progetto definitivo resta oscuro e non si può discutere delle sue scelte formali e funzionali, come già nel patetico “dibattito su San Siro”? Dov’è la terra in cui affonderebbero le radici delle piante e degli alberi? E come è possibile spacciare un edificio a chiara vocazione retail per un hub polifunzionale a servizio della comunità e dell’inclusività?
È fondamentale rendersi conto che questa rigenerazione “carina”, intrisa di greenwashing e socialwashing, non solo non è la soluzione ai nostri problemi, ma non è neppure un male minore, una versione mite della speculazione dura e pura: parafrasando le parole di Marco D’Eramo sulle politiche ambientali di Macron, il falso impegno è molto peggio del negazionismo, perché mascherando la violenza degli interventi con dei ridicoli palliativi crea l’illusione che si possano risolvere la disuguaglianza o le catastrofi climatiche con dei cespugli di graminacee, un coworking e uno skate park, proponendo soluzioni di mercato a problemi creati dal mercato stesso.
NHOOD strikes back
“Noi vogliamo che LOC diventi cultura” afferma Carlo Masseroli, direttore strategia e sviluppo NHOOD Italy, ex assessore all’urbanistica di Milano di scuola ciellina durante la giunta Moratti, “È la prima volta che uno sviluppatore privato usa uno strumento del genere per un progetto di interesse pubblico, e vogliamo andare avanti su questa strada”. E infatti NHOOD ha subito investito in un altro progetto, Dropcity, che “rigenera” i Magazzini raccordati sotto i binari della Stazione Centrale, subito oltre NoLo, per farne un grande centro dedicato ai giovani architetti milanesi: biblioteca di settore, coworking, sala mostre, luogo di ricerca e incontri. Per ora parzialmente aperto solo per gli eventi del Salone del Mobile, Dropcity è un classico progetto di comunicazione, soft power allo stato puro, mirato ad accrescere la reputazione di NHOOD e del suo modello di intervento nel circuito del design, delle arti cool e del progetto urbano.
Ma il vero salto di qualità, la proposta che la società ha lanciato a Natale scorso, è la copertura del fascio di binari sopra la stazione di Cadorna, sull’area delle Ferrovie Nord compresa tra la Triennale e il quartiere più lussuoso della città: 60.000 metri quadri per un valore complessivo di 800 milioni, di cui 180 contributo pubblico (un investimento complessivamente 10 volte più grande di Loreto), con edifici destinati ovviamente a usi multifunzionali, presentato come un’“estensione di 3 ettari del Parco Sempione”. In realtà, secondo i calcoli di Ugo Targetti pubblicati su Arcipelago Milano, si tratterebbe di una piattaforma di cemento lunga 700 metri e alta più di 7 (una barriera mostruosa), ricoperta da una selva di palazzi da 7-14 piani e nel migliore dei casi da alberelli strizzati nel cemento, come è ormai usanza nella Milano post-Expo.
Il falso impegno crea l’illusione che si possano risolvere la disuguaglianza o le catastrofi climatiche con soluzioni di mercato a problemi creati dal mercato stesso.
Anche in questo caso, il gioco di prestigio consiste nel rappresentare il proprio gigantesco arricchimento come un regalo alla città: ora c’è il brutto e il vuoto, vi regaliamo un bellissimo pieno. Solo che il vuoto non c’è mai stato, e il “brutto”, oltre a essere soggettivo come poche cose al mondo (c’è chi adora, per esempio, guardare i treni che scorrono sui binari), può essere trasformato, come Place de la République o il parco Tempelhof, in uno spazio che è realmente di tutti, pensato per orizzonti diversi dal consumo e dalla rendita.