A gnano, Napoli, anni Novanta. Alfredo Mattera apre una grande mappa e la sistema sul letto, punta il dito sul canale di Suez, lo trascina fino a toccare l’Australia, con gli occhi e con la mente ripercorre i luoghi del suo lungo viaggio, di fronte a una platea annoiata di bimbetti. Tra i piccoli c’è Nunzia, nipote di Alfredo, anche lei segue con poca attenzione le storie del nonno. Osserva la cartina vagamente incuriosita, intravede quell’isola lontana, una terra sconosciuta di cui non conosce niente, sa solo che laggiù si parla l’inglese, la lingua in cui il nonno, centralinista dell’ippodromo di Agnano, lancia ogni giorno gli annunci dal megafono.
La famiglia Mattera è molto unita, vivono insieme in un palazzo costruito da Alfredo con i risparmi di una vita. Gli anni passano, Nunzia avrà dei bambini, li iscriverà a una scuola internazionale per fare imparare l’inglese anche a loro. Alfredo spesso rispolvera ricordi di quella terra lontana, che nel tempo ha imparato ad amare. Ogni tanto alza la cornetta e parla con Miss Hardy, tra le risate dei nipoti, divertiti all’idea che dall’altro capo del filo ci sia la “signora australiana”.
Nel 2004 Alfredo muore, Nunzia ormai è una donna e sente il bisogno di recuperare quelle storie che da bimba ascoltava distratta, si mangia le mani: avrebbe voluto registrarli, quei racconti… per fortuna le tecnologie le vengono in soccorso, inizia a cercare informazioni su internet e a mettere insieme i pezzi di un puzzle, scartabella negli archivi militari e civili del governo australiano, che in questi anni ha intrapreso un encomiabile lavoro di digitalizzazione, scopre ogni giorno qualche dettaglio in più. Nel 2020, poco prima degli inizi del lockdown, in una delle sue peregrinazioni digitali, Nunzia incappa nel blog di una signora che si chiama Joanne Tapiolas, vive in Australia e da anni è impegnata in un meticoloso lavoro di ricerca e ricostruzione delle vite dei soldati italiani, spediti in quel continente tra il 1941 e il 1947. Nunzia legge avidamente le storie raccolte e osserva le fotografie pubblicate, a un tratto è catturata da un’immagine: ci sono quattro uomini in divisa. Uno di loro somiglia impressionantemente a suo nonno. Non perde tempo, contatta immediatamente Joanne per e-mail, che risponde subito; inizia così una lunga corrispondenza, che porterà finalmente a ricostruire con precisione le peripezie del nonno soldato.
Nel 1939 il giovane Alfredo fa parte del 70° reggimento di fanteria, a febbraio di quell’anno si imbarca da Napoli alla volta di Tripoli; nel ‘41 è a Tobruch, la città portuale libica che in quello stesso inverno sarà conquistata dalle truppe britanniche e australiane. Sono giorni concitati e Mattera cade prigioniero; dopo quattro mesi, in una calda giornata di maggio, parte alla volta di Sydney, a bordo della Queen Mary. La ricostruzione dei successivi sei anni di vita di Alfredo è stata possibile soprattutto grazie al lavoro di ricerca di Joanne, che ha intrecciato i documenti contenuti negli archivi del governo australiano con le interviste che lei stessa ha fatto e continua a fare. Nei primi 24 mesi il nostro prigioniero viaggerà moltissimo e farà ogni genere di lavoro, frequenterà quasi tutti i campi allestiti, da quello di Hay, vicino a Sydney, al Loveday Camp, nel sud. La vita quotidiana è dura ma riserva anche qualche momento vivace, prontamente immortalato in preziosi scatti che Joanne ha cercato e messo da parte con pazienza. Ce n’è uno in cui Alfredo suona il clarinetto, accompagnato da altri soldati, un altro in cui brinda con i compagni.
“Ha visto più Australia lui dal finestrino dei treni che io che vivo qui da sempre”, commenta Joanne, stupita di quanto il soldato abbia viaggiato. Nell’aprile del ‘42 lo spediscono a Cook, per lavorare nella costruzione della ferrovia. È forse uno dei momenti peggiori del suo periodo di prigionia oltreoceano. Tra i documenti recuperati, Nunzia custodisce una lettera, inviata al consolato svizzero il 19 maggio del ’42. Il soldato si appella alla convenzione di Ginevra, denunciando le condizioni del campo: l’acqua per lavarsi è quella con cui i soldati australiani puliscono le stoviglie, si mangiano prevalentemente bucce di patate, gli viene periodicamente sequestrato ogni piccolo bene. Per Nunzia è una scoperta importante: la missiva non solo racconta un pezzo della vita del nonno che la famiglia non conosceva, ma è anche un indizio per capire quello che sarebbe diventato. “Attraverso quelle parole ho ritrovato le sue fissazioni, il motivo della sua continua lotta contro lo spreco di acqua e di cibo. Ho capito perché il nonno ci teneva tanto ad alcune cose”.
La vita nei campi dura tre anni, un intenso periodo in cui Alfredo è impegnato ad abbattere alberi, tagliare tronchi, accatastare legna, spalare, vangare. Nunzia racconta e intanto scorrono tra le sue mani fotografie e fogli, c’è anche un’esile carta da lettere ingiallita, su cui campeggia una scritta a penna: “Alfredo e signora Hardy, con amore. 1944”. Miss Hardy, la signora australiana con cui Mattera manterrà contatti per il resto della sua vita, è la proprietaria terriera da cui il soldato andrà a servizio dopo il periodo nei campi, fino alla fine della guerra e della prigionia. Sono anni che Alfredo ricorderà con gioia, immersi nella natura, impiegati a tosare pecore, fare lavori in muratura, catturare conigli.
Nel ‘47 la guerra è ormai finita, il 10 gennaio Alfredo s’imbarca sulla nave Otranto e torna in Italia. Fa rientro nella sua città natale, Napoli, dove conosce la futura moglie; nel ’51 è di nuovo a bordo di una nave diretta in Australia, ma questa volta non è più un prigioniero e non è più da solo, accanto a lui c’è la consorte, incinta di sette mesi. Poche settimane dopo lo sbarco la loro primogenita verrà alla luce, in un ospedale di Casterton. I ricordi di quel periodo sono felici, Alfredo continuerà a lavorare come tuttofare nelle fattorie e la moglie è a servizio, presto riusciranno a mettere da parte un bel gruzzoletto. Nel ‘56 però una brutta malattia colpisce il padre di Alfredo e la famiglia decide di fare ritorno in Italia, questa volta per sempre.
Migliaia di persone italiane hanno avuto un destino simile a quello di Alfredo Mattera, Joanne Tapiolas calcola che siano state circa diciottomila. Si tratta di un capitolo della storia contemporanea ancora poco noto, su cui si sta facendo luce solo negli ultimi anni, grazie al lavoro di storici appassionati e ricercatori volontari, ma anche per merito dei processi di digitalizzazione degli archivi storici — avanzati e efficienti in Australia, ancora zoppicanti in Italia. Per ottenere materiale e documenti su un proprio parente l’archivio australiano ha una procedura molto semplice: basta l’invio di un’e-mail e il pagamento delle spese; il fondo italiano sugli Internati militari invece, custodito dall’Archivio Centrale di Stato, risulta fuori consultazione per criticità conservative. Nunzia crede che ancora ci sia molto da scoprire, quando l’ho intervistata mi ha confessato che sta pensando di prendere un aereo e volare fino a Sidney, per vedere con i suoi occhi e cercare altre tracce, ma organizzare un viaggio così lungo non è semplice. Nel frattempo l’Australia ha fatto visita all’Italia.
Qualche anno fa Davide Dander è incappato nel blog di Joanne. Grazie al suo sostegno ha recuperato dagli archivi militari i documenti che raccontano la storia di suo nonno, Antonio Arici, morto quando la mamma di Davide aveva solo 13 anni. Del suo periodo australiano la famiglia sapeva poco o niente, giusto qualche ricordo della mamma di Davide, di quando, seduta nella stalla accanto al papà Antonio, imparava qualche parola in inglese. Grazie alle testimonianze custodite dagli archivi, Davide ha scoperto che il nonno era stato catturato l’11 dicembre del 1940 in Africa e poi trasferito in India, dove aveva trascorso quattro lunghi e terribili anni; nel ‘44 Antonio sbarcava a Melbourne e dopo un breve periodo in un campo trovava impiego in una fattoria, a casa dei Maddock. Da quel momento in poi le cose diventano più semplici, le relazioni con i “padroni” sono buone e il clima disteso. Antonio farà in quegli anni ogni genere di lavoretto e trascorrerà le domeniche insegnando agli australiani a preparare la pasta, fino al ‘46, quando sarà reimbarcato e tornerà a fare l’agricoltore in Italia.
Nel 2019 una nipote della famiglia Maddock è partita per un viaggio in Europa, aveva con sè il contatto di Davide, lo ha chiamato e si sono incontrati nella sua casa di montagna, in Trentino, dove hanno trascorso una giornata allegra conclusa con un barbecue. In quello stesso anno, a inizi primavera, Joanne Tapiolas ha bussato alla porta di Antonio Ragusa, figlio di Giovanni, un prigioniero deportato in India e poi in Australia. Antonio non sapeva molto della storia del padre e tanto meno sapeva che c’era una donna che, dall’altra parte del mondo, si stava interessando alle vicende del signor Giovanni. Joanne nel 2017 aveva intervistato un agricoltore del Queensland ormai novantenne, Eric Behrendorff, che le aveva parlato del suo prigioniero di guerra, Giovanni, e le aveva mostrato delle foto; dopo una meticolosa ricerca aveva trovato i contatti del figlio: si chiamava Antonio e viveva in Sicilia. Dopo qualche mese era a Taormina, seduta a un tavolo di un bar con lui. Quel giorno la ricercatrice australiana ha mostrato ad Antonio molte foto, gli ha tradotto testimonianze e documenti, lo ha messo in contatto con uno dei figli del signore australiano per cui il padre aveva lavorato. Antonio le ha chiesto perché avesse deciso di interessarsi di suo padre. La risposta di Joanne è di una spiazzante semplicità: “aveva un volto gentile”.