I n La vergogna è un sentimento rivoluzionario (nottetempo, traduzione di Raffaele Alberto Ventura), Frédéric Gros scrive: “La vergogna è il sentimento centrale della nostra epoca.” È difficile stabilire cosa sia centrale in un’epoca e certo l’asserzione ha una funzione più retorica che descrittiva. Però c’è qualcosa di corretto nella diagnosi di Gros: la vergogna è culturalmente marcata, come per esempio i concetti di fat-, slut– o kink–shaming e affini testimoniano; come suggerisce la pratica dell’indignazione per i comportamenti disdicevoli dei personaggi pubblici; come ricorda l’appello al decoro o piuttosto la denuncia dei comportamenti indecorosi. Sembra proprio che ci sia tanto da vergognarsi e tanto di cui le persone sono portate a vergognarsi. Insomma, la vergogna merita un posto di tutto rispetto nel vocabolario delle passioni di questo tempo.
Il saggio porta ad esempio eventi di cronaca, qualche teoria psicologica e politica, molti casi letterari e alcune divagazioni antropologiche per fare i conti con la storia, il concetto e il senso della vergogna. Tuttavia, finito il libro, si rimane senza un’idea precisa di cosa la vergogna sia, da dove arrivi e dove vada a parare. È come se ci fosse un’ambiguità centrale cui il testo gira intorno, mancandola sistematicamente. Questo perché il libro è mosso dall’intenzione di dimostrare la tesi accattivante secondo cui la vergogna è, in effetti, un sentimento rivoluzionario – formula che verrà poi indebolita in corso d’opera a vantaggio della meno controversa ma decisamente generica “la vergogna può essere un sentimento rivoluzionario”.
Ma chiediamoci: la tesi lapidaria è poi così accattivante? Che cosa significa affermare che la vergogna è un sentimento rivoluzionario? Gros offre due coordinate fondamentali per collocare questa idea. La prima è una citazione da un’epistola di Marx, secondo il quale “la vergogna è già una rivoluzione […]. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccare il balzo.” Gros omette il termine di paragone nell’epistola: Marx introduce il concetto di vergogna, e il suo significato per la prassi politica, in opposizione al sentimento patriottico. Cioè, secondo Marx: rispetto al patriottismo ben venga la vergogna, se dobbiamo considerare ciò che facilita il cambiamento sociale. Ma tralasciamo questo dettaglio. Anche prendendo l’estratto (mutilato) alla lettera, si tratta più di una suggestione o di un’intuizione che di una discussione articolata di come funziona la vergogna e delle sue ragioni.
La seconda coordinata fondamentale è la tesi che il sentimento della vergogna può portare a un cambiamento nell’individuo umano che lo prova. Per buona parte del testo Gros approfondisce quegli aspetti della vergogna che si accompagnano a fenomeni di discriminazione, svilimento e sottomissione. È allo stesso tempo però fermamente convinto, e porta alcuni esempi a sostegno di questa convinzione, che la vergogna offre alcune possibilità trasformative all’individuo che ne viene affetto.
“La vergogna è il sentimento centrale della nostra epoca”, lo ricorda l’appello al decoro o piuttosto la denuncia dei comportamenti indecorosi.
La maggior parte degli esempi discussi consiste in figure del ribaltamento. Gros mostra a più riprese come sia possibile girarsi nella vergogna, girare di segno la vergogna o rigirare il termine della vergogna. Cioè può capitare per esempio di uscire dal circolo vizioso della vergogna facendo della propria vergogna un affare riflessivo. Posso vergognarmi di alcune mie caratteristiche o azioni o condizioni. E in un secondo momento vergognarmi di questa vergogna: rendermi conto che è inopportuno provare questo sentimento e quindi liberarmi dalla sua stretta. È ben probabile che vergognarsi di qualcosa abbia una struttura riflessiva, ma questo non significa immediatamente che vergognarsi di vergognarsi sia immediatamente riflessivo. Anzi, può essere ricorsivo incistandosi ancora di più nell’inazione: mi vergogno di vergognarmi e mi inabisso in un gioco di autocommiserazione che mi paralizza sempre di più.
Può anche capitare di girare di segno la vergogna, di trasformare la vergogna in orgoglio: cioè posso assumermi ciò che mi ha messo nella posizione di vergognarmi e rivendicarlo come qualcosa che mi connota positivamente. A modello di questa pratica culturale Gros prende il gay pride, che trasformerebbe ciò che in un determinato contesto sociale, storico, geografico è da considerarsi vergognoso in qualcosa che è invece motivo di orgoglio, di rivendicazione.
Un’altra possibilità di ribaltamento consisterebbe invece nel riuscire a sfilarsi di dosso il marchio e il sentimento della vergogna per affibbiarli invece a chi ci ha fatto vergognare. Per esempio, la vergogna della vittima che riesce a emanciparsi dalla propria vergogna per mostrare, invece, come la vergogna debba cadere su chi ha perpetrato il crimine e l’ingiustizia così come le istituzioni sociali e discorsive che li hanno permessi, facilitati e difesi in un primo momento.
Ora, che per via di ribaltamento si possa arrivare a un’uscita positiva dalla paralisi della vergogna, è chiaro – e grazie al cielo. L’idea però non ci aiuta molto. In sostanza si limita a affermare: dalla vergogna ci si può salvare e uno dei modi in cui lo si può fare è, appunto, ribaltarla. Questa linea di pensiero sembra proprio mancare lo scopo del libro. L’argomento non riguarda tanto la vergogna quanto il suo superamento, cioè non rafforza la tesi che la vergogna possa essere di per sé in qualche modo trasformativa o rivoluzionaria. Ci indica al contrario che dalla vergogna ci si può liberare e ci sono delle pratiche codificate e conosciute per farlo. Che qualcosa da cui ci si può liberare sia “rivoluzionario” proprio perché ce ne si può liberare è un’asserzione al minimo curiosa. Immagino quindi non sia questo il punto fondamentale cui Gros vuole arrivare.
Può capitare di girare di segno la vergogna, trasformandola in orgoglio: si può rivendicare come qualcosa che ci connota positivamente ciò che ci ha messo nella posizione di vergognarci.
L’altra possibilità di trasformazione che offrirebbe la vergogna secondo il saggio è la vera intuizione interessante del libro. Prima di discuterlo, mi permetto una confessione, per rimanere nel campo delle cose che chiamano in causa la vergogna. Quando ho visto un mio contatto su Facebook pubblicare con entusiasmo un post sull’uscita di questo libro, sono rimasto inorridito, indignato, proprio una repulsione morale. Preso dalla vis confutatoria, e con l’intenzione di riprendere in mano alcune idee che mi avevano occupato un po’ di tempo fa, ho deciso di leggerlo con il proposito di metterci una grande croce sopra. Ho aperto il volume con una metaforica matita rossa in mano – che è il modo più stupido di leggere un testo. Imbattutomi nella riflessione che segue, ho cambiato idea: se c’è qualcosa di anche vagamente produttivo in uno scritto, tanto vale usarlo. In fin dei conti, e per stare in tema, “honni soit qui mal y pense” (vergogna per chi pensa male).
Oltre a poter essere ribaltata, la vergogna, secondo Gros, è caratterizzata da qualcos’altro. Provare vergogna – seguo la metafora del testo – mette l’individuo nella posizione di secernere una sostanza corrosiva, che erode e consuma i legami sociali e il mondo. L’esempio portato da Gros è il narratore di Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, la cui coscienza e la cui vergogna vengono paragonate a un acido, secreto dal suo corpo e dal suo umore bilioso. Se ne può fare un parallelo anche con l’uso che Gros fa di Primo Levi e di Gilles Deleuze, due autori che avrebbero secondo lui riconosciuto il carattere universale della vergogna. In Levi e Deleuze si rivelerebbe non tanto la natura prospettica del sentimento della vergogna, legato a questo o quel principio di buona creanza, dignità e decoro, riconosciuti validi in determinati contesti storici e geografici. No, la vergogna assume tutta la sua potenza corrosiva quando si fa vergogna della propria umanità. Umanità indica qui però non una generale appartenenza alla stessa specie, secondo un umanismo ingenuo e un po’ spiccio, quanto piuttosto gli elementi più abietti dell’essere umano, quegli aspetti insomma ancora troppo umani, miseri, pusillanimi, che accomunano tutte le persone. Come a dire: siamo individui umani, io come voi, e tutto questo è vergognoso.
Intesa in questo modo, la vergogna diventa capace secondo Gros di erodere e corrodere la sostanza sociale, sia da un punto di vista esistenziale che da un punto di vista critico e pubblico. Non si tratta qui tanto del rifiuto o della critica dei legami e delle norme sociali, come nel caso del ribaltamento, quanto della consumazione della loro validità – validità che è proprio ciò che mi fa appartenere al mondo condiviso come individuo, e quindi nella vergogna consumo anche me. Questo modo di comprendere la vergogna – o più che altro le sue conseguenze – mi sembra finalmente interessante, sebbene incompleto. Ed è incompleto, ancora una volta, perché vuole a tutti i costi distillare fuori dalla vergogna una sorta di essenza buona, trasformare la vergogna nell’oro del cambiamento sociale e del cambiamento in meglio.
Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di definire, a monte di tutti gli esempi, dei casi letterari, degli aneddoti, in modo almeno euristico o ipotetico, quello che caratterizza la vergogna. In Idea della prosa, Giorgio Agamben la definisce come “la pura, vuota forma del più intimo sentimento dell’io.” Agamben sembra condividere con Gros l’intenzione di salvare la vergogna come cifra di umanità, facendone qualcosa che si riferisce all’io, all’essere qualcuno, una persona, un sé.
La vergogna assume tutta la sua potenza corrosiva quando si fa vergogna di quegli aspetti ancora troppo umani, miseri, pusillanimi, che accomunano tutte le persone.
Il filosofo J. David Velleman in “The Genesis of Shame” (“Genesi della vergogna”) appronta una definizione di vergogna che, pur non esaustiva, dà più precisione all’approccio generico di Agamben. Innanzitutto, definisce una persona come agente sociale, cioè un individuo che agisce in società. E sostiene che un individuo che agisce in società è caratterizzato da alcune proprietà e, allo stesso tempo, dalla facoltà di scegliere quali delle proprietà che lo caratterizzano vengono condivise con lo spazio pubblico e quali no. Un agente sociale è cioè libero di scegliere, naturalmente a seconda dei contesti (di alcune cose mi vergogno sul posto di lavoro, di altre mi vergogno nei miei circoli d’amicizia o nella famiglia, eccetera), cosa mantenere privato e cosa mostrare al pubblico. In questa cornice, la vergogna si manifesta secondo Velleman quando accade qualcosa che informa il pubblico su ciò che ho intenzione di mantenere privato. È la socialità, l’esistenza stessa di una sfera comune e pubblica di cui l’individuo è partecipe e agente, a creare la possibilità che ci sia vergogna, indipendentemente da quali norme questa socialità imponga.
Le riflessioni di Velleman approfondiscono, per un verso, la suggestione di Agamben: definiscono la vergogna come qualcosa di strettamente legato a cosa significa essere un io, una persona, un sé, eccetera. Ma allo stesso tempo la criticano, perché anziché parlare della forma vuota di un sentimento, qualsiasi cosa la formula concretamente significhi, esplicitano una condizione essenziale a essere qualcuno: l’essere parte di uno spazio pubblico e condiviso. Velleman sostiene che essere una persona significa non essere semplicemente in preda alla comunità, ma poter decidere, almeno in certa misura, come essere presente nel mondo condiviso, significa avere una certa autorità e autorialità su come rispondere e come agire rispetto alle norme che lo regolano. La vergogna subentra alla violazione di questa autorialità e autorità, quando qualcosa mi fa perdere questo controllo. Qualcosa di mio, che non volevo passasse al mondo, di cui volevo il mondo non sapesse, ora è fuori, esposto, e ne arrossisco.
Tuttavia, a tirare le conseguenze della sua idea, va aggiunta una cosa: certo, la vergogna ha qualcosa a che vedere con la capacità degli individui di determinare cosa, di sé, è presente nel mondo sociale, con la loro capacità di agire rispetto a questo; ma lo ha nel senso in cui la volontà individuale è per definizione inserita in un contesto sociale, che la rende possibile, le dà orientamento e contenuto con le sue norme condivise. La vergogna riguarda cioè l’interconnessione di individuo e società, l’ordito, la tessitura di individuale e sociale. In questo modo diventa anche chiaro perché ci si vergogna più di alcune cose che di altre: perché una società storicamente e geograficamente determinata releghi alcune azioni, alcune attività, alla sfera privata anziché alla sfera pubblica, o ascriva loro proprio la funzione di separare privato e pubblico. Il corpo nudo e la sessualità sono due esempi lampanti di questo, due sfere sociali che marcano la differenza fra pubblico e privato, la costruiscono, le danno significato. Questo naturalmente non significa giustificare a posteriori le norme sociali vigenti, quanto piuttosto riconoscerne il ruolo e la funzione.
Possiamo ora tornare e comprendere con più chiarezza quello che Gros intende con l’operazione di erosione e corrosione di sé e del legame sociale che si accompagna alla vergogna. Per farlo mi appoggio anche io a un esempio. Un aspetto della società che più mi ha sempre colpito della Germania, dove vivo da più di dieci anni, è la presenza diffusa e pervasiva del discorso sull’olocausto – nel dibattito pubblico, nello spazio urbano, nelle pratiche argomentative che si usano nel dialogo fra persone. Naturalmente sarebbe assurdo e idiota non ritenere che sia doveroso mantenerne presente la memoria e la condanna (pure se ormai le simpatie nazifasciste sono tornate nei salotti), tuttavia c’è un aspetto curioso nella cifra essenziale del discorso sull’antisemitismo che mi sembra di vedere qui – cioè il senso di colpa.
La vergogna riguarda la capacità degli individui di determinare cosa, di sé, faccia parte anche del mondo pubblico, proprio perché la volontà individuale è per definizione inserita in un contesto sociale che la rende possibile, le dà orientamento e contenuto con le sue norme condivise.
Il senso di colpa è diverso dalla vergogna, proprio perché non corrode, ma solidifica e cementa, anzi, ancora peggio, assicura, mortificando, un’identità morale e nazionale che può essere e viene usata per ripetere azioni di oppressione e silenziamento. Esempio inquietante è stato il divieto, in atto a Berlino lo scorso maggio, di manifestazioni commemorative della nakba palestinese. Il senso di colpa e la lotta, esclusivamente formale, al razzismo antisemita sono venuti così a giustificare – in buona o mala fede poco importa – l’intervento del braccio poliziesco per sciogliere una manifestazione organizzata e composta perlopiù proprio da individui di appartenenza etnico-religiosa ebraica. Il paradosso sarebbe soltanto grottesco, se non fosse inserito nel contesto di un paese in cui un partito di estrema destra, peraltro profondamente islamofobo, è a oggi stimato ottenere il diciotto per cento delle preferenze.
La tesi di Gros assume così contenuto e peso. Mentre la colpa si riferisce alla validità di precetti legali, etici o morali, la vergogna si rapporta alla cerniera che lega un individuo al suo mondo sociale, gli individui fra loro e gli individui alle regole tramite le quali si relazionano gli uni agli altri. Perdere capacità d’azione su questa cerniera significa perdere capacità d’azione rispetto a sé stessi. Questo, secondo Gros, comporta anche un allentamento della pretesa di validità di quelle stesse regole, perché ne smaschera la natura non solo provvisoria, ma anche potenzialmente coercitiva e repressiva. Se la mia capacità di agire e posizionarmi come voglio nel mondo viene offesa, cosa me ne faccio delle regole che la costituiscono? La vergogna non rafforza l’identità, che si tratti di quella di un individuo o di un’appartenenza nazionale o patriottica, ma la consuma, le toglie terreno da sotto i piedi. L’individuo che si vergogna non ritrova la forza di una regola – come il senso di colpa permette di fare – ma si logora, fino a potersi ridurre, all’apice della vergogna di sé, a un “micragnoso niente”, come la protagonista del film Un anno con tredici lune di Rainer Werner Fassbinder viene additata dal suo compagno.
Quello su cui Gros si sbaglia è che questo logorio sia, in qualche senso, rivoluzionario, cioè trasformi il mondo sociale e materiale in cui emerge. Un esito trasformativo di una situazione in cui ci si vergogna è certo possibile. Ma ci sono due problemi. Innanzitutto, bisognerebbe mostrare che la trasformazione accada non solo nel momento in cui le relazioni sociali vengono corrose dalla vergogna, ma proprio perché le relazioni sociali vengono corrose dalla vergogna. Sembra invece che la vergogna assicuri al più una base individuale, psicologica, soggettiva, magari etica ai moventi che possono spingere un individuo o un gruppo di individui a impegnarsi nel cambiamento del proprio mondo. Il che non è poco, ma non è neanche tanto e certamente non è tutto. Inoltre, sembra proprio che la vergogna fornisca la premessa, indifferentemente e allo stesso modo, tanto alla trasformazione quanto al mantenimento dello status quo o addirittura alla fantasia reazionaria.
Nel 2016, durante la sua campagna elettorale per la presidenza degli USA, Hillary Clinton si riferisce a una parte all’elettorato del candidato repubblicano Donald Trump come a un “basket of deplorables,” a una cesta di deplorevoli o miserabili – cioè, in altre parole, di gente che si dovrebbe vergognare. Ora, indicare discorsivamente lo spettro politico della destra come composto da individui che dovrebbero vergognarsi di quello che fanno e dicono è una pratica in voga anche nel centro-sinistra (o piuttosto centro) liberale italiano. Che da questo tipo di appelli alla vergogna non venga fuori alcunché di trasformativo mi sembra evidente. Non si capisce cosa ci sia di rivoluzionario nei due esiti, quello auspicato e quello effettivamente ottenuto: cioè quello conservatore, con al massimo un timido riformismo, e quello reazionario a tinte neo-autoritarie. Il problema di Gros è proprio che non vede questa ambiguità nell’esito, o piuttosto questa indifferenza all’esito, che caratterizza la corrosione operata dalla vergogna – preso appunto com’è dalla foga di volerne rivalutare in senso progressista i termini.
L’individuo che si vergogna non ritrova la forza di una regola – come il senso di colpa permette di fare – ma si logora, fino a potersi ridurre a un “micragnoso niente”.
Contro questa forzatura fuorviante si potrebbe usare uno stesso autore citato anche da Gros, cioè Dostoevskij – tuttavia non quello di Memorie dal sottosuolo, ma de I fratelli Karamazov. È possibile leggerlo come un romanzo dell’anti-vergogna, soprattutto in virtù di una scena particolare. In un celebre passaggio, un goffo e godereccio padre di mezza età si umilia, provandone profonda vergogna, davanti a un monaco in aria di santità, virtuoso e riverito. Quest’ultimo subito tranquillizza il primo. Lo invita a non provare alcun imbarazzo, soprattutto a non vergognarsi tanto di sé, perché è da lì che provengono tutti i suoi problemi.
Nella mia indignazione iniziale pensavo di partire proprio da qui per criticare Gros, ma leggerlo mi ha fatto ricredere. Forse I fratelli Karamazov è, più che un romanzo contro la vergogna, proprio il racconto di un attraversamento collettivo della vergogna. Almeno due altre scene centrali lo tradiscono, più ambigue della prima che ho citato. Uno dei tre fratelli che danno il nome al romanzo, Dmitrij, trascina un uomo nella vergogna, tirandolo per la barba, umiliandolo. Un secondo fratello, Ivan, durante il processo di parricidio che quasi chiude il romanzo, accusa proprio il pubblico, mettendolo in un certo senso davanti alla propria vergogna, smascherando l’altra faccia dello spettacolo: afferma che chiunque desidera uccidere il proprio padre.
E tuttavia è proprio la conclusione del romanzo che ha l’ultima parola, il celebre discorso della roccia. Questo è pronunciato da un terzo fratello (Alëša) in memoria di Il’juša, figlio deceduto proprio di quell’uomo che era stato umiliato e trascinato per la barba. Circondato dal gruppo di ragazzini che conosceva il morto, il terzo fratello Karamazov sembra chiudere il cerchio della vergogna non rimuovendola né opponendovi una sorta di riscatto. Al contrario, riconosce in essa il punto debole degli individui umani e intorno a questo punto debole sembra costruire una sorta di microscopica comunità:
Ma pure, per quanto cattivi noi fossimo per essere (che non voglia Iddio), […] il più beffardo (se tali dovessimo ridurci), non oserà neppur lui farsi beffe d’esser stato buono e gentile in questo minuto che stiamo passando! Non solo, ma forse sarà proprio questo ricordo solo, che lo tratterrà da un grande male, e lo farà pentire, ed esclamare: ‘Sì, io ero buono allora, franco e onesto.’ E che sogghigni pure di se stesso: non importa: spesso l’uomo ride di ciò che è buono e gentile: questo dipende da leggerezza; ma vi garantisco, signori, che non appena avrà fatto quel sogghigno, subito dirà in cuor suo: ‘No, ho fatto male a sogghignare, giacché di questo non è lecito ridere!’La vergogna verrà così custodita da una sorta di comunità minima, quasi come una regola nel senso monacale. Dostoesvkij, dopo aver costruito un romanzo (anche) sulla vergogna, vede nella possibilità della corrosione dei legami sociali e della stima di sé una posizione limite della vita che gli esseri umani conducono in un mondo sociale. Intorno e a salvaguardia di questo limite, affinché non venga oltrepassato, costruisce l’idea di una piccola comunità.
I fratelli Karamazov è, più che un romanzo contro la vergogna, il racconto di un suo attraversamento collettivo.
Questo esito del romanzo è tutto fuorché rivoluzionario: non si tratta di cambiare il mondo, quanto di costruirvi all’interno delle sacche di umanità. Non è la stessa opzione che sceglie Gros, che invece cerca di distillare dalla pratica della vergogna la trasformazione di un mondo. In un certo senso, però, Dostoevskij ci mostra, sottoscrivendolo in senso positivo, lo stesso limite che caratterizza anche la posizione di Gros. Cioè che la vergogna indicherà pure la corrosione cui sono esposti tutti gli individui che vivono in un mondo sociale, che si rapportano ad altri individui e alle regole che ne organizzano le relazioni. Tuttavia, fare i conti con la vergogna significa soltanto indicare un punto limite, sul bordo dell’estradizione dalla propria comunità e da sé.
Si può punteggiarne le coordinate in un contesto micro-sociale, come ne I fratelli Karamazov, o in un senso in fin dei conti psicologico o etico, come in La vergogna è un sentimento rivoluzionario. Ma cambiare le condizioni socio-materiali per via delle quali non una generica capacità di vergognarsi, ma un determinato sentimento di vergogna emerge (vergogna delle proprie origini di classe o culturali, delle proprie preferenze sessuali, del proprio corpo) e porta un individuo fino a cancellarsi dal proprio mondo è un’altra questione – tanto poco etica o psicologica quanto poco micro-sociale.