C indy da Marzahn è una donna decisamente sovrappeso. Capelli scompigliati tinti di biondo, trucco pesante e tuta rosa shocking. Cindy ha un tipico nome da starlette americana, perché viene dalla periferia est di Berlino. Pare che da quelle parti vadano di moda i nomi americanizzati, ispirati dalla cultura di massa. Almeno, questo è quello che il tedesco medio pensa di un quartiere come Marzahn: troppa tv, palazzoni in cemento, pochi soldi, neonazisti e ragazze madri.
Per anni Cindy è comparsa in televisione e nei teatri di tutto il paese, raccogliendo milioni di estimatori e detrattori. Le sue battute sono sempre state quelle di una specie di “casalinga disperata” del white trash: sussidio, televisione, diete impossibili, fidanzati poco raffinati, ancora sussidio e ancora televisione.
Poi, nel giugno 2016, Ilka Bessin, l’attrice che Cindy l’ha inventata e portata in vita, ha annunciato di voler appendere la tuta rosa al chiodo. Bessin, la cui esistenza prima del grande successo non era stata molto diversa da quella del suo personaggio, ha abbandonato dicendo che la compenetrazione tra Ilka e Cindy era diventata insostenibile. “Un giorno, durante una serata”, ha raccontato Bessin in un’intervista, “ho detto che proprio noi tedeschi dell’est dovremmo sapere quanto sia importante accogliere i rifugiati. In sala ha applaudito una sola persona”.
Tre mesi dopo il ritiro dalle scene di Cindy, si sono svolte le elezioni nella Città stato di Berlino. Il partito della destra populista e anti-immigrati Alternative für Deutschland (AfD), che si presentava per la prima volta, ha raccolto il 14,2% dei voti. A Marzahn-Hellersdorf, la patria metropolitana di Cindy, la percentuale è stata la più alta della città: il 23,6 %. In diversi seggi del quartiere i populisti hanno ampiamente sfondato il muro del 30%.
Berlino è così diventata una delle clamorose affermazioni di AfD. Due settimane prima i populisti avevano già raccolto il 20,8% nel Mecklenburg-Vorpommern, mentre a marzo avevano conquistato il 24,3 % nel Sachsen-Anhalt, due dei cinque grandi Länder dell’ex Germania comunista.
In poco tempo, quei risultati hanno spalancato le porte a una specifica lettura della realtà da parte di chi ha voluto difendere senza se e senza ma l’impostazione tollerante e anti-razzista delle istituzioni tedesche. La specifica lettura è quella dei tedeschi dell’ex DDR, un po’ spregiativamente chiamati “ossis”, come una delle forze maggiori della nuova xenofobia in Germania.
La periferia della periferia
Una delle battute che ricordo meglio di Cindy da Marzahn è: “In Germania ci sono cinque milioni di disoccupati: due milioni vivono nel mio quartiere”. Non si tratta nemmeno di una battuta, ma di un’analisi sociologica.
Il quartiere di cui parlava Cindy, però, è qualcosa di molto più eterogeneo e complesso. Una parte di Marzahn, oggi, è un’area semplice ma sostanzialmente piacevole: parchi, centri commerciali, casette ordinate e una funivia panoramica. Anche il famoso Plattenbau, il grande insediamento in cemento “made in DDR” anni ’70-’80, è vivibile, pur nella sua essenzialità. Niente finestre rotte, niente discariche sul ciglio della strada, niente no-go zones. Certo, gli appartamenti a Marzahn costano molto meno ed è là che continuano a emigrare i berlinesi che non possono più permettersi di vivere nel centro colonizzato dalla nuova borghesia cosmopolita europea.
Per trovare la Marzahn delle Cindy, però, bisogna andare ai bordi del quartiere, nella periferia della periferia. Bisogna andare, ad esempio, a Marzahn Nord. Anche se da venti anni la zona è interessata da speciali programmi di sostegno sociale, qua non ci sono giardini, non c’è una funivia, non ci sono locali sempre pieni di persone. A ben guardare, a Marzahn Nord non c’è quasi niente.
Secondo il sociologo Shulteis: “C’è qualcosa che non possiamo negare: il modello di successo della Germania poggia le proprie spalle su una ampia fascia di poveri”.
Per arrivare nell’area è sufficiente sedersi su un tram o su un treno metropolitano berlinese, puntare a nord-est e aspettare di raggiungere il capolinea. Una di queste stazioni finali è Ahrensfelde, al cui nome i trasporti pubblici aggiungono “Stadtgrenze”, “frontiera della città”: qualche metro più in là inizia la campagna del Brandeburgo. Nemmeno Marzahn Nord è una banlieu, ma qualcosa di diverso. Le strade sono pulite, ma tanto pulite da sembrare svuotate, ed è tutto in ordine, ma tanto in ordine da apparire immobile. Tutto quanto sembra adagiato sotto una coperta fredda di silenzioso controllo. Il disagio lo si vede sui volti e sui corpi di diverse persone: i vestiti di scarsa qualità, le facce invecchiate dal fumo, i denti poco curati, l’obesità di chi non vive accanto a un vegan-bar che venda frullati bio-chic.
L’amministrazione locale suddivide talvolta le abitazioni del quartiere in tre livelli: buono, medio e semplice. Il 100% delle abitazioni di Marzahn Nord rientra nella terza categoria.
Il popolo del sussidio
La prima volta che arrivo a Marzahn Nord scendo a pochi metri dal seggio 103 Marzahn-Hellersdorf, dove AfD ha superato il 35%. È un seggio piccolo, ma anche quelli vicini hanno visto risultati simili, spesso spodestando dalla maggioranza relativa la Linke, che è la sinistra radicale che per anni aveva raccolto i voti dei nostalgici della DDR.
Nella Linke locale milita Janine, 23 anni, che vuole raccontarmi qualcosa sulla vita delle venticinquemila persone che vivono in questa parte del quartiere. Per incontrarla percorro uno stradone desolato ma non degradato, dove tutto è povero in una maniera algida, organizzata, sedata: irrimediabilmente tedesca.
Janine mi aspetta in un piccolo caffè-birreria e capisco fin da subito che ci tiene molto ad assicurarsi che io non sia venuto a scrivere solo degli ossis nazi-comunisti e xenofobi. “Tanti cittadini possono farsi coinvolgere dalla propaganda”, mi spiega, “ma qui ci sono soprattutto persone che lavorano e che, quando non lo fanno, cercano solo di andare avanti”. Poi Janine mi mostra un dato ufficiale, tratto da uno degli ultimi studi svolti dal Municipio del quartiere: il 36,5% degli abitanti di Marzahn Nord tra 0 e 65 anni vive con il sussidio Alg II, più comunemente noto come Hartz IV. Si tratta di più di una persona su tre. L’Hartz IV è un sussidio di disoccupazione contro la povertà, garantito in nome del diritto costituzionale alla sussistenza. Chi è povero, chi non ha niente in banca, chi non possiede niente a proprio nome, riceve l’Hartz IV. Al momento, se si contano anche i minori, in Germania ci sono quasi sei milioni di persone che vivono grazie a questo sussidio. Di questi, circa quattro milioni e mezzo sono cittadini tedeschi, uno e mezzo sono stranieri che vivono in Germania.
Janine mi dice che, per capire il quartiere, devo guardare i dati sui bambini: il 58,2 % di tutti gli under 15 di Marzahn Nord vive in una famiglia che riceve il sussidio e la percentuale arriva al 61,2 % per i bambini sotto i sei anni. “Questa tendenza è importante”, mi dice Janine, “perché troppo spesso quella di dipendere dal welfare diventa una questione quasi ereditaria all’interno alle famiglie, in cui l’isolamento sociale o la disillusione dei genitori non stimola i ragazzi ad emanciparsi”. Chiedo a Janine perché, però, il dato della disoccupazione in quanto tale sia più basso, solo l’11,6%: il doppio della media tedesca, ma pur sempre poco. Janine, allora, mi spiega quello che sanno in tanti: la conta degli occupati in Germania è un po’ dopata; per essere contato come occupato è sufficiente che un disoccupato partecipi a un’iniziativa di inserimento professionale o sia brevemente impiegato. Il risultato è che una parte dei cosiddetti occupati tedeschi continuano a percepire il sussidio di disoccupazione Alg II e a fare la fila davanti ai Jobcenter, gli uffici dell’Agenzia del Lavoro che gestisce l’assegnazione dei sussidi.
Hartz IV è in realtà il nome di una fase dell’epocale ristrutturazione del welfare, portata avanti nello spirito dell’Agenda 2010, l’enorme riforma del sistema sociale tedesco del 2005. Il sussidio prevede una cifra mensile di circa 800 euro per una persona singola, la metà dei quali è da utilizzare per pagare un’abitazione a basso costo. L’Hartz IV ha avuto un tale impatto sulla società tedesca che il vocabolario Duden ha inserito ufficialmente il termine “hartzer” per indicare chi riceve il sussidio, solitamente per un periodo prolungato. A Marzahn Nord, quasi il 90% lo riceve da più di due anni.
Un popolo per i populisti?
Il sostegno per la destra identitaria tra chi è disoccupato o ha redditi bassi è un singolo aspetto di un processo molto più eterogeneo. Concentrarsi su di esso, come decido di fare io, è una scelta consapevolmente arbitraria, a Marzahn Nord come nel resto della Germania. L’AfD tedesca è stata fino a oggi votata da poveri e ricchi, da meno colti e più istruiti, ed è il risultato di un cortocircuito nel rapporto dei tedeschi con i propri tabù storici.
Resta il fatto, però, che in molte regioni AfD sia effettivamente il partito più votato tra operai e disoccupati. Non solo, secondo il sondaggio pubblicato dal quotidiano nazionale Die Welt subito dopo le elezioni di Berlino, l’AfD è stato il partito in assoluto più votato tra chi non ha lavoro. I disoccupati o i beneficiari di sussidi sono anche una delle categorie che, solitamente, votano di meno e, anche in questo caso, sembra che ne abbiano approfittato i populisti, che sono riusciti a riportare al voto un esercito di ex astenuti.
La vera domanda, a questo punto, è come mai tante persone in situazione di disagio si affidano a un partito che ha un programma economico in cui si prevedono tagli del welfare e un’ulteriore privatizzazione della sanità? La risposta è soprattutto una ed è ormai nota: l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali. In occasione della crisi dei rifugiati del 2015-2016, una parte dei tedeschi ha accolto le suggestioni di una campagna identitaria contro la Willkommenspolitik, la politica di accoglienza dei rifugiati di Angela Merkel. Una campagna che ha assunto velocemente i contorni di una protesta anti-establishment, di una riscossa sociale per chi sente di contare di meno.
All’inizio del 2016 Marzahn era tra le aree con il maggior numero di centri di accoglienza attivi o pianificati: terreno fertile per le estreme destre, incluse quelle apertamente eversive. Hanno fatto il giro della Germania le immagini dei naziskin della NPD che partecipavano alle manifestazioni contro i centri di accoglienza a Marzahn.
“Puoi restare. Sei italiano, mica arabo”
Incontro Thomas qualche chilometro a sud di dove ho incontrato Janine, in un parchetto circondato da alcuni caseggiati alti e ordinati. Thomas ha militato per anni proprio nella NPD, il partito neonazista tedesco, arrivando anche a ricoprire un ruolo di dirigente a livello locale. Ora Thomas però ne è fuori e dice: “Quello che la NPD dice pubblicamente non ha niente a che vedere con quello che vuole davvero. Loro sognano proprio il ritorno del Terzo Reich, cose come il rimpatrio forzato di qualunque straniero e la sterilizzazione degli handicappati“.
Adesso Thomas si occupa, insieme con altri abitanti del suo caseggiato, di mandare avanti una casettina in legno che funge da centro ricreativo. “Facciamo un lavoro importante. C’è un baretto a prezzi molto bassi. Mentre qui abbiamo dei giocattoli. D’inverno ci sono i giochi in scatola, mentre oggi che è una bella giornata i bambini possono giocare nel parco giochi. Molti genitori non hanno voglia o il tempo di portare i figli a giocare, ma grazie a questo posto, a noi che controlliamo, possono farlo. Così i bambini non stanno tutto il giorno davanti alla televisione”.
Mentre i bambini giocano un gruppo di donne e uomini si gode caffè, sigarette e patatine fritte con maionese e ketchup. Mi siedo a parlarci, anche se nei primi minuti non sono l’ospite più desiderato. “Chi sei? Scrivi per un giornale? Lascia perdere, dite tutti stronzate.” “Magari tu no, ma poi non te lo pubblicano, non te lo pubblicano se non scrivi stronzate” “Cosa? Italiano? E che ci fai qui? Ti sei perso?” “A me non sembri italiano, parli un po’ come un cecoslovacco. O sei polacco?” “Vabbè, dai, comunque italiano va bene, puoi restare” “Magari possiamo cucinare qualcosa di buono, che dici?” “Come non sai cucinare? Allora lo vedi che non sei italiano”. Ridono. Rido anche io.
Ci vuole poco per iniziare a parlare di stranieri. Perché parlare di stranieri significa parlare anche delle rivendicazioni dei locali. I due argomenti sono così intrecciati da fare impressione. È sufficiente non rispondere con uno sguardo severo alle prime parole del proprio interlocutore per sentire opinioni che, fino a poco tempo fa, sarebbero rimaste sepolte sotto l’intricato sistema di tabù che vige nel Paese.
Ci vuole poco per iniziare a parlare di stranieri. Perché parlare di stranieri significa parlare anche delle rivendicazioni dei locali. I due argomenti sono così intrecciati da fare impressione.
Il gruppo parla con me, ma inizia anche a discutere internamente, con fare sentito, come se in tanti non aspettassero altro. “Tu mi devi dire perché i soldi che non c’erano due anni fa per noi ci sono ora per questi rifugiati, perché? Non è mica razzista come domanda, no?” “Io ogni tanto lavoro nella sicurezza, ho fatto la sicurezza dove danno i soldi ai profughi del centro: vederli là in fila che prendevano soldi senza nessun problema è difficile, non è giusto, non è corretto” “In televisione, dovunque guardi: profughi, profughi, profughi, tutti i giorni, sempre” “Ma come? Come non ci sono state le violenze? Certo, hanno provato a stuprare due ragazze, a Pankow. Non hai letto su Facebook? C’era scritto, sì, sì! Era scritto su Facebook, proprio ieri”.
Dopo un bel po’ di conversazione provo a domandare se qualcuno ha votato AfD. A quanto pare, però, nessuno va a votare. Nicko, un uomo molto robusto con la rasatura decisamente alta che all’inizio mi guardava in cagnesco, però mi dice: “I politici fanno tutti schifo, sono tutti uguali, tutti, anche quelli dell’AfD. Ma almeno se viene l’AfD manda via tutti questi mollucken”. I “mollucken” non sono gli abitanti delle Molucche, ma gli stranieri in generale, intesi come selvaggi. Si tratta di una versione ancora più dispregiativa di “kanaken”, un termine con cui da tempo ci si riferisce agli immigrati turchi, italiani, spagnoli. Nicko ha trent’anni e fa l’autotrasportatore, mi spiega che secondo lui un problema sono i polacchi che gli fanno concorrenza sconfinando in Germania e lavorando a prezzi stracciati. Ma, alla fine, mi dice, il vero guaio restano i musulmani, sia quelli che ci sono da tempo sia quelli appena arrivati. “Non è mica razzismo. Metti i vietnamiti. I vietnamiti sono qui da anni, non danno fastidio a nessuno e infatti nessuno ce l’ha con i vietnamiti”. Di musulmani, invece, non dovrebbero più arrivarne in Germania, lo dicono anche gli altri. “Tu sei italiano, puoi stare, se eri arabo ti cacciavo via”, mi ripete Nicko, ridendo. Una signora più anziana, che fino a quel momento non aveva detto nulla, mi dice, a bassa voce: “Gli immigrati ricevono gli stessi soldi del mio sussidio, anche di più. Senza fare niente. Io da anni devo compilare i miei fogli e se sbaglio a mettere una crocetta o a dichiarare dieci euro che mi ha dato mia sorella mi trattano come una ladra… A volte penso che farei meglio a mettermi un velo da araba e andare vestita così al Jobcenter, magari mi trattano meglio”.
Torno a parlare con Thomas, perché voglio chiedere anche a lui cosa pensi della vampata dell’AfD a Marzahn Nord. Lui mi dice quello che mi diranno quasi tutti da queste parti: si tratta di un voto di forte protesta. Al momento in cui gli parlo, marzo 2017, l’AfD è lacerata internamente e sta scendendo nei sondaggi. Ma io chiedo ugualmente a Thomas cosa accadrebbe se questa protesta dovesse arrivare, un giorno anche lontano, alla maggioranza dei voti. Thomas ci pensa un attimo, come se non avesse mai considerato l’opzione. Poi risponde: “Beh, allora avremmo un nuovo NSDAP in Germania”. NSDAP è il nome ufficiale del fu partito nazionalsocialista hitleriano. ”Cioè un partito nazista al governo in Germania?”, gli chiedo. “Sì. Perché l’AfD comunque è quella cosa lì…”.
I perdenti della nuova Germania
Vado a vedere i dati sulle forme di sussidio a rifugiati e immigrati in Germania. La situazione è eterogenea, intricata. In generale, chi vive in un centro di accoglienza o si sta inserendo nella società riceve somme (in denaro o servizi) uguali o inferiori al sussidio per i cittadini tedeschi (o per gli stranieri che vivono in Germania da anni). Quella che c’è – evidente – è però la paura di dover spartire con i nuovi arrivati il diritto al welfare o l’accesso ai mestieri senza particolare qualifica professionale. E non stupisce neppure che questo timore della competizione straniera sia più radicato nelle zone deboli del Paese, perlopiù nell’ex Germania dell’Est.
Nel 2005 è stata pubblicata una delle ricerche più complete sulla povertà in Germania e su come lo stato sociale tedesco abbia garantito un benessere generale e, al tempo stesso, istituzionalizzato un sistema di povertà. La ricerca è stata effettuata da un ampio team di sociologi, guidati dai professori Franz Schultheis e Kristina Schulz, che hanno voluto realizzare un lavoro à la Pierre Bourdieu, trasportando nella società tedesca la tecnica e lo stile de La misère du monde. Il titolo del libro, Gesellschaft mit begrenzter Haftung (“Società a responsabilità limitata”), giocava con il nome delle Srl tedesche (GmbH) e, sul solco di questa suggestione, raccontava anche il processo di liberalizzazione della Germania orientale, inclusa una de-industrializzazione arginata con la massiccia distribuzione territoriale del welfare.
Contatto il Professor Schultheis, che oggi insegna all’Università di Ginevra, perché voglio chiedergli cosa pensi del soggetto della sua ricerca dodici anni dopo. “Le cose sono cambiate da un punto di vista culturale”, mi spiega, “ai tempi avevamo a che fare con una generazione ancora direttamente collegata all’esperienza della DDR, mentre oggi c’è una generazione di giovani che sono culturalmente integrati nella cultura dell’Ovest, che conoscono l’euro e hanno confidenza con lo stato sociale.” Questo non significa, però, che i Länder dell’est abbiano raggiunto una parità: “Oggi l’ex DDR è divisa in due, tra chi è riuscito a diventare parte della nuova Germania e chi, invece, si sente a tutti gli effetti un cittadino di serie b.”
Una sconfitta che si riassume in condizioni sociali o di lavoro precarie e meno retribuite rispetto alle regioni occidentali, malgrado, o forse a causa delle grandi riforme di inizio millennio. Come mi ricorda Schultheis: “L’Agenda 2010 ha sicuramente abbassato il livello di disoccupazione, ma ha lasciato sul tavolo diversi problemi strutturali. C’è qualcosa che non possiamo negare: il modello di successo della Germania poggia le proprie spalle su una ampia fascia di poveri. Proprio ora stiamo aggiornando la nostra ricerca, per pubblicare una traduzione in greco e raccontare anche in Grecia che esiste un’altra Germania”.
“Es ist zum kotzen!”
Il Jobcenter di Marzahn Hellersdorf si trova in un palazzone di Allee der Kosmonauten, la via che la DDR dedicò agli “eroi del socialismo” che andarono nello spazio. Là, a seconda della giornata, la fila è lunga, molto lunga o lunghissima.
Di fronte all’ingresso le persone attendono in silenzio, ognuna di loro ha una cartellina in mano. Dentro alle cartelline ci sono i documenti da presentare agli esigenti impiegati dell’Agenzia del Lavoro. Il sussidio in Germania si basa su una trasparenza assoluta, quasi fondamentalista. Va dichiarato ogni centesimo del proprio status finanziario e, soprattutto, bisogna rispettare il principio di “sostegno a patto di impegno”. In tutte quelle cartelline, quindi, ognuna delle persone attorno a me ha documenti che dimostrano i propri sforzi per uscire dalla disoccupazione, mandando ogni mese un numero preciso di candidature in cerca di lavoro o partecipando alle formazioni professionali assegnate dal Jobcenter. Quando sono quasi arrivato al bancone dell’accettazione, lascio il posto a un uomo sulla cinquantina con in mano una cartellina di Spiderman che salta da un grattacielo. Mi ringrazia con un sorriso. Prima di uscire completamente dalla fila, noto una donna giovane, molto magra, con i capelli biondo platino e dei leggings multicolore. La ragazza sta discutendo con l’impiegato di uno dei banchi della preselezione. Non riesco a capire cosa dicano: lui, soprattutto, parla piano, scuotendo leggermente la testa. Dopo qualche secondo la donna se ne va con il viso rosso dalla rabbia, urlando “Es ist zum kotzen, es ist zum kotzen!”, che significa che “c’è da vomitare”, anche se vomitare non è la parola più adatta, kotzen è più volgare.
Qualche istante dopo, ritrovo la ragazza fuori dall’edificio, mentre armeggia con il suo telefono. Mi avvicino e le chiedo cosa sia successo. “Questa è la volta buona che spacco tutto, non resta più niente là dentro.” Il problema della ragazza è che non si è presentata a una convocazione del Jobcenter. Non è la prima volta e, ora, le verranno tolti dei soldi dal sussidio, si tratta di una sanzione. Oggi la giovane voleva salire dall’impiegata che si occupa di lei, per spiegare le proprie ragioni, ma non le è stato permesso. “Va a finire che mi danno i buoni per fare la spesa. Una volta me li avevano già dati, qualche anno fa. Sai quanto ti vergogni quando stai alla Lidl e devi pagare con i buoni pasto?”. I buoni sono dei voucher del Jobcenter per comprare il cibo, vengono utilizzati in modo che sia garantita la sussistenza ma resti la sanzione in denaro.
Il principio del “sostegno a patto d’impegno” su cui è strutturato il welfare tedesco può evolvere in una forma di giudizio totale sulla vita del cittadino, soprattutto quando il sussidio diventa una condizione prolungata.
Quello del rapporto tra chi riceve il sussidio e gli impiegati del Jobcenter è un tema delicato. Sebbene la regola preveda che ciascun impiegato non si occupi più di tre mesi di un singolo cittadino, ci sono delle eccezioni, soprattutto quando il sussidio si incrocia con altri servizi sociali. Gli impiegati del Jobcenter sono sottoposti a forme di stress strutturale, sia perché l’Agentur giudica costantemente la loro capacità di far evolvere ogni “cliente” (li chiamano proprio così), sia perché le discussioni con i “clienti” possono diventare molto aspre. Ci sono sempre nuovi casi di aggressione verbale o addirittura fisica a danno degli impiegati. Volente o nolente, l’impiegato si trova spesso a dover effettuare decisive scelte individuali in merito a ciascun caso, continuando allo stesso tempo a incarnare una personificazione dello stato sociale e del principio “sostegno a patto d’impegno” su cui è strutturato. Un principio che può evolvere in una forma di giudizio totale sulla vita del cittadino, soprattutto quando il sussidio diventa una condizione prolungata. Più passa il tempo, più lo Stato interroga il cittadino sulle sue abitudini, sulla sua saluta fisica e mentale, sulla sua visione della società, fino a deviare verso vere e proprie forme di medicalizzazione del disagio sociale.
Scham – la vergogna
Quando si parla con gli abitanti di Marzahn Nord, la parola che ritorna più spesso è “vergogna”. Questo non vale certo per chi ha un lavoro soddisfacente e riesce a vivere più che dignitosamente la propria esistenza, ad esempio le tantissime persone che non ricevono un sussidio e si sentono parte di un simbolico ceto medio-alto della zona, pur vivendo lontane dal centro cosmopolita di Berlino. La vergogna vale però per tanti altri, per chi sente di aver fallito in una società che, nominalmente, offrirebbe tutte le possibilità.
Schamland, “Il Paese della vergogna” è il titolo del libro del sociologo Stefan Selke. Quando gli chiedo perché abbia scelto proprio la categoria di “vergogna” per il suo libro, lui mi spiega: “Stiamo parlando di essere poveri in un paese ricco. Di chi, come dicono alcuni, è ‘troppo ricco per morire e troppo povero per vivere’. Cosa significa povertà? È facile definirla da un punto di vista economico o normativo. C’è però un piano più pratico, che è quello del potersi o non potersi permettere lo standard di vita della società in cui si vive. Il punto decisivo, che non consideriamo mai abbastanza, è il lato simbolico della povertà. In Germania questa simbologia è già chiara nel linguaggio, ad esempio con la stigmatizzazione del termine ‘hartzer’, che è la verbalizzazione di un processo di emarginazione di una parte dei cittadini. Questa dimensione simbolica, ovviamente, non la risolviamo dando cinque euro in più alle persone, perché è soprattutto il frutto di una precisa ideologia”.
Un’ideologia che, secondo il Professor Selke, non è accidentale nell’organizzazione sociale tedesca. “Esiste un concetto che è quello della punizione tramite la vergogna. Può diventare un sistema di disciplinamento sociale che funziona quasi senza soldi, in cui le persone sono portate a forme di auto-governo tramite l’interiorizzazione di una retorica della colpa. In questi anni è in corso una mutazione: è di nuovo normale puntare il dito contro le persone perché sono ‘pigre’ o perché ‘non meritano niente’… La verità, però, è che questo è un modo per non vedere la realtà del mondo in cui viviamo oggi, dove una caduta esistenziale può avvenire per chiunque, da un momento a un altro. La verità è che preferiamo dire che ognuno è la sola causa dei propri mali, piuttosto di ammettere che camminiamo tutti su una lastra di ghiaccio molto sottile”.
“L’importante è muovere il culo”
Al Quartiersmanagement di Marzahn Nord conosco Victoria, un’impiegata comunale estremamente gentile che mi mostra una mappa di tutte le iniziative e strutture sociali nel quartiere. Mentre guardo la cartina mi convinco sempre di più che a Marzahn Nord vivano tre tipologie di tedeschi. I primi sono quelli non particolarmente toccati dai vari disagi sociali, pur avendo, talvolta, un certo rancore simbolico verso la Repubblica Federale di Germania. Il secondo tipo di tedeschi, invece, con la Repubblica ha un rapporto costante, viscerale, corporeo, visto che da questa riceve i soldi per mangiare e per vivere. La terza tipologia di tedeschi di Marzahn Nord, invece, è costituita da un piccolo esercito di lavoratori sociali: i funzionari volenterosi della stessa Repubblica, che ne mettono in atto le potenzialità ma, anche, ne propagano più o meno consapevolmente le ideologie portanti. Quanto quest’ultima tipologia di tedeschi saprà ancora comunicare e interagire con le prime due è, di fatto, la vera domanda sul futuro di quartieri come Marzahn Nord e del rapporto tra istituzioni e la parte più scontenta ed emarginata della cittadinanza.
La comunicazione e l’interazione, da quello che vedo, sembrano funzionare molto bene in alcuni centri giovanili. Quando arrivo al centro per giovani Betonia di Marzahn Nord, è già pieno di ragazzi. Alcuni ascoltano la musica, altri giocano a ping-pong, altri preparano dei panini. Christopher, uno degli educatori, mi mostra il centro, che è gestito da un’associazione privata tramite fondi statali e cittadini: “Per i ragazzi è molto importante poter venire qua. Tanti in casa non ci voglio stare e, se non venissero qui, non riuscirei a immaginarmi molti altri posti dove possano passare il pomeriggio, almeno qui nel quartiere.”
Al di là delle opposte retoriche, al di là dei rancori neo-nazistoidi, al di là delle facili utopie post-terzomondiste, non si sa come proseguirà l’incontro tra il proletariato bianco tedesco e quello migrante.
In una grande sala parlo con alcuni ragazzi, mentre dalle casse dello stereo viene sparato a tutto volume del rap tedesco. I sogni dei bambini del centro sono gli stessi ovunque: c’è chi vuole fare il calciatore e chi la pasticcera, chi vuole fare il bandito e chi il poliziotto. C’è la ragazzina che vuole fare la cantante e il ragazzino che non ha la più pallida idea di cosa farà domani mattina. Alcuni adolescenti rispondono scherzando, dicendo che da grandi vogliono prendere l’Hartz IV. Gli chiedo cosa sia l’Hartz IV, secondo loro. Due ragazzine che si stanno mettendo lo smalto sulle unghie mi rispondono quello che mi direbbe qualunque tedesco medio: “L’Hartz IV ce l’hanno quei bambini che hanno i genitori troppo pigri per lavorare”. “Esatto!” esclama un altro bambino. Mi guardo intorno. Se le statistiche su Marzahn Nord non sono sbagliate, quasi due bambini su tre vivono in una famiglia con il sussidio. Qualcuno di loro deve trovarsi anche qui, in questo stesso momento.
Poco dopo, conosco Paul e Max, 23 e 24 anni. Vengono al Betonia da quando sono piccoli e continuano a frequentarlo, ancora adesso. “Per me è stato molto importante venire qui, c’è sempre qualcuno con cui puoi parlare quando hai un problema” spiega Paul, “ancora adesso invece di starmene a casa quando non lavoro, vengo qua. Questo posto mi ha aiutato a muovere il culo, in questo quartiere la cosa importante è muovere il culo. A un certo punto c’è chi resta col culo per terra e chi lo muove. Io ho già fatto tanti lavori. Ora lavoro come guardia armata all’aeroporto”. Paul parla in modo molto sicuro, scandendo bene le parole. “Chi viene da fuori ha un po’ di pregiudizi su Marzahn. Ma anche io ho i miei pregiudizi, ad esempio su Neukölln. Là ci sono sempre disordini, a Capodanno hanno bruciato una macchina per festeggiare. Se succedesse qui, sarebbe sulle prima pagine di tutti i giornali.”
Quando spiego che anche io sono arrivato a Marzahn Nord sulle tracce dei pregiudizi, inclusi quelli politici, l’altro ragazzo, Max, ha voglia di parlarne: “Il centro rifugiati qui dietro non è mica bruciato. Non è mai successo niente. Certo, anche qui ci sono degli estremisti di destra, magari perché da ragazzini si sono presi qualche pugno di troppo da qualche straniero.” Malgrado la fermezza delle sue parole, Max parla con un tono molto gentile, sorridendo. Gli domando cosa pensa del successo dell’AfD? “Non significa a tutti i costi che la gente sia di estrema destra, anzi, guarda, non c’entra proprio niente. Nel senso, cosa dovrebbero votare? Cosa? Frau Merkel? Qua nessuno la vuole più vedere, scordatelo, scordatelo proprio. Spd? Mah, anche per loro non so proprio che senso abbia. La gente è frustrata, CDU e SPD sono al governo da venti anni. Tante persone da queste parti sono stufe di guadagnare poco mentre tutto diventa più caro. C’è chi vota la sinistra estrema, ma altri la Linke non la vogliono votare nemmeno per scherzo, perché la Linke significa anche SED, il vecchio governo della DDR, quindi lasciamo stare.”
Calze di lana
Qualche giorno dopo, a inizio aprile, sono di nuovo sul tram 16. Mentre aspetto di arrivare all’ultima fermata, leggo l’ennesimo articolo sulla campagna elettorale del socialdemocratico Martin Schulz, l’ex Presidente del Parlamento Europeo che vuole ora spodestare Angela Merkel. Anche lui deve aver fatto qualche giro in posti simili a Marzahn Nord visto che, d’un tratto, i suoi temi preferiti sono diventati l’uguaglianza, la difesa dei diritti sociali e la protezione dei meno abbienti. Schulz è arrivato a promettere un improbabile smantellamento dell’Agenda 2010, una riforma che fu opera dell’ultimo Cancelliere socialdemocratico, Gerard Schröder, e che, piaccia o meno, è stata una delle pietre angolari del rilancio dell’economia tedesca.
Non si sa se questa riscoperta della questione sociale da parte dell’establishment politico riuscirà, sul lungo periodo, a contrastare l’etnicizzazione delle rivendicazioni dei più scontenti. Magari funzionerà per le prossime elezioni, ma i problemi potrebbero cominciare proprio dopo. Ora, oltre un milione di nuovi arrivati è in Germania e andrà ad aggiungersi a comunità immigrate la cui integrazione nel paese è tutt’altro che realizzata (o, secondo alcuni, tutt’altro che realizzabile). Al di là delle opposte retoriche, al di là dei rancori neo-nazistoidi, al di là delle facili utopie post-terzomondiste, non si sa come proseguirà l’incontro tra il proletariato bianco tedesco e quello migrante.
Una risposta convinta su come debba avvenire questo incontro, però, è certo di averla Matthias, un uomo corpulento sulla cinquantina, che a Marzahn Nord ho incontrato più volte. Matthias gestisce da anni la Spielplatzinitiative Marzahn, un’associazione che cura due terreni attrezzati su cui vengono organizzate numerose attività per i più piccoli e, molto spesso, si creano occasioni d’incontro tra i bambini locali e quelli dei centri di accoglienza.
Matthias mi ha invitato a una delle giornate ricreative che organizza. Tutto si svolge su uno dei due terreni, dove c’è un piccolo laghetto artificiale, un bivacco con il fuoco, una bella casetta circolare con la cucina e un forno in mattoni. Quando arrivo, il prato brulica di bambini: alcuni giocano a pallavolo, altri cavalcano due pony arrivati là non so come, altri ancora saltano su un grande elastico. Delle ragazze del posto e delle giovani ragazze curde hanno cucinato alcune pizze. “Sai quanti genitori all’inizio non vogliono far venire i bambini? Tanti. Poi dopo le prime volte capiscono che i rifugiati sono persone come loro e tutto diventa più facile”, mi spiega Matthias.
I bambini giocano in gruppi, non sono completamente mischiati, si riconoscono ancora bene i gruppetti dei ragazzini medio-orientali e quelli dei piccoli tedeschi. L’atmosfera è gioiosa. Matthias mi parla dei prossimi progetti, in maniera instancabile: mi spiega delle difficoltà oggettive, delle soddisfazioni, dei contrasti nel quartiere. Infine mi racconta un episodio: “Lo scorso inverno, una volta, siamo riusciti a far venire a un’iniziativa diverse madri rifugiate con i loro figli e, anche, un gruppo di madri che vivono in una serie di caseggiati qua dietro, persone molto ostili contro i migranti. Sono caseggiati dove vivono molti rappresentanti della comunità russo-tedesca, un sottogruppo etnico che prova un particolare astio per i musulmani, non c’è niente da fare. Tante di quelle mamme o dei loro mariti erano stati fisicamente in prima fila nelle proteste contro l’apertura dei centri di accoglienza. “Quando, però, si sono incontrate qua con le mamme siriane, afgane o irakene hanno parlato tutte insieme ed è venuto fuori che nel centro di accoglienza i pavimenti dei prefabbricati erano molto freddi e i bambini avevano sempre i piedi gelati. È andata a finire che le persone del posto hanno regalato svariate paia di calze di lana ai bambini rifugiati. Quando ho rivisto alcune di quelle persone gli ho chiesto se hanno cambiato almeno un po’ idea su chi sta nel centro di accoglienza. Loro mi hanno risposto che non si tratta di cambiare idea. Si tratta dei bambini.”