“I l populismo si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato. È «malattia infantile» della democrazia quando i tempi della politica non sono ancora maturi. È «malattia senile» della democrazia quando i tempi della politica sembrano essere finiti.” È con queste parole che Marco Revelli apre il suo ultimo libro dedicato al fenomeno che più di tutti sta delineando lo spazio, il dibattito e la geografia della politica contemporanea. Populismo 2.0 (Einaudi 2017), è il più recente in ordine di tempo. Da destra come da sinistra, negli ultimi anni, tutti hanno cercato di fare luce sulla “crisi” della politica. Chi approfondendo il discorso dal punto di vista teorico; chi analizzando degli studi di caso su fenomeni particolari e non paragonabili tra loro (si passa, ad esempio, da Matteo Renzi in The Boy di David Allegranti a Matteo Salvini in Anatomia di un populista di Matteo Pucciarelli, passando per Podemos di Podemos: la sinistra spagnola oltre la sinistra, di Pucciarelli e Giacomo Russo Spena. Forse però, in questo caso, dobbiamo fare uno sforzo prospettico e smetterla di parlare di “crisi”. La “crisi”, infatti, inizia e finisce, facendo in modo che “lo stato delle cose” si riequilibri per proseguire sostanzialmente immutato. Il momento non è passeggero: siamo in uno scenario nuovo, post-qualcosa (post-politico? post-democratico? finalmente post-moderno?) dove le categorie della politica sono cambiate e le parole hanno assunto un nuovo significato. Magari uscendo dalla retorica – ormai classica – che legge il conflitto non più come “destra vs sinistra” ma “alto vs basso”, perché il discorso populista (la ragione, per dirla con Carlo Formenti, che al fenomeno ha dedicato un saggio molto discusso per Derive Approdi) è ormai diventato egemonico e sta sempre più filtrando “a sinistra”, dove viene visto come un espediente strategico per ‘giocare ad armi pari’ con il nemico.
Populismo è una catch-all word, che fonda il suo successo sulla possibilità che in ogni momento della storia, a ogni livello, ci sia un popolo che si sente escluso e deprivato. A questo proposito, Revelli legge il populismo non come una questione di merito (esiste questa tendenza della politica politicante che bolla come “populista” tutto quello che è brutto e cattivo e fuori dalla nostra comprensione) o di metodo (come invece suggeriva già nel 2003 Marco Tarchi, autore del recentemente ristampato Italia populista), ma come “un’entità molto più impalpabile e meno identificabile entro specifici confini e involucri. È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione della finanza totale […] nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione”. Che va ad agire nel vuoto, continua: “[…] prodotto dalla dissoluzione di quello che un tempo fu la sinistra e la sua capacità di articolare la protesta in proposta di mutamento e di alternativa allo stato di cose presente”.
Populismo è una catch-all word, che fonda il suo successo sulla possibilità che in ogni momento della storia, a ogni livello, ci sia un popolo che si sente escluso e deprivato.
Che qualcosa si stia agitando a sinistra, dopo aver assistito via via a successi sempre più importanti e radicati (non solo politici, quindi, ma anche egemonici) nello spazio a destra (dalla Brexit a Donald Trump), o post-politico (come nel caso del Movimento 5 Stelle), è evidente. Il caso di Podemos ha risvegliato la fantasia italiana, storica patria della sinistra in cerca d’autore. Il successo politico della formazione di Pablo Iglesias, che si dichiara fieramente afferente al “populismo”, arriva però dalla capacità di intercettare delle istanze reali e dopo un processo di costruzione autenticamente “dal basso” e che ha portato alla formazione di una creatura politica ‘nuova’, che sfrutta gli stilemi comunicativi contemporanei (ad esempio il programma elettorale impaginato come un catalogo Ikea) e i meccanismi di partecipazione offerti dalla rete, inserendoli però in un contenitore partitico molto ‘rigido’ (Podemos, infatti, discute tesi congressuali, vota di continuo documenti, istituisce una cinghia di trasmissione tra la base e un vertice solidissimo). Non dimentichiamo che Podemos nasce come emanazione politica dei movimenti di piazza degli indignados, che hanno incanalato quella rabbia di cui parlava Revelli in una proposta attiva e non “reattiva” (quella, in sintesi, che ha mosso la formazione del Movimento 5 Stelle che sembra agire in quello stesso spazio politico in cui agisce Podemos, di fatto occupandolo), non è una proposta calata dall’alto a cui la gente deve credere per atto di fede.
Il recente successo di Jean-Luc Mélenchon al primo turno delle ultime presidenziali francesi (arrivando quasi al 20% dei voti con un grande recupero nelle ultime settimane) ha riproposto il tema della “variante populista” a sinistra ai tempi della crisi della socialdemocrazia (il Partito Socialista Francese ha preso un catastrofico 6%). Nonostante il leader di La France Insoumise abbia dichiarato che non voterà per Marine Le Pen, qualche osservatore fa notare come le istanze portate avanti dai movimenti, che siano di destra o di sinistra, ogni tanto coincidono. Dallo scetticismo verso la governance europea – non solo contro le burocrazie di Bruxelles o Strasburgo, ma anche contro la moneta unica – alla riproposizione del protezionismo come antidoto contro gli effetti nefasti della globalizzazione. È la contraddizione per cui Marine Le Pen può citare Marx, Matteo Salvini può parlare di Gramsci e nessuno alza il dito perché tutto sembra tenersi. E si tiene proprio perché quei partiti hanno deciso di occuparsi degli “esclusi”, i “deprivati”, di chi è stato “ricacciato in qualche margine”, della working class. Per dirla con Revelli: “Se la destra scopre la classe operaia vuol dire che qualcosa si è rotto. In profondità. Nella classe operaia, in primo luogo. Nella destra, anche. E soprattutto nella sinistra. Vuol dire che la sinistra ha lasciato il campo”. Questa catch-all word travalica le distinzioni ideologiche, pur volendo agire dentro una cornice ideologica e non a servizio di una nuova ideologia, come spesso si dice a questo proposito. E questa è una seconda contraddizione. Secondo i filosofi francesi Pierre Dardot e Christian Laval, infatti, “Il populismo è la parola del nemico”. Recentemente intervistati da il manifesto, affermano che il “populismo” non critica il sistema ma rappresenta: “[…] una risposta neoliberale alla crisi del capitalismo. Accentua la guerra commerciale tra gli stati: guerra finanziaria e fiscale nel quadro di una concorrenza generalizzata. Le diverse configurazioni del populismo, da Trump alla Brexit, sono l’espressione di una politica che appare anti-sistema ma che rafforza il sistema”.
Gli ‘esclusi’, i ‘deprivati’ che formano il sempre più consistente bacino elettorale dei ‘populismi’ sono un corpo sociale nuovo, risultato della cosiddetta proletarizzazione del ceto medio.
Gli “esclusi”, i “deprivati” che formano il sempre più consistente bacino elettorale dei “populismi” sono un corpo sociale nuovo, risultato della cosiddetta proletarizzazione del ceto medio. Ed è quel corpo che il sociologo italiano Emanuele Ferragina ha chiamato “La maggioranza invisibile” (BUR Rizzoli 2014). Se un partito politico fosse in grado di intercettare quel tipo di malumore, quel tipo di istanza, quel tipo di rivendicazione e portarlo in una cornice di pensiero capace di produrre un’azione politica “redistributiva”, allora potrebbe contare su un grandissimo consenso popolare. E per farlo, si deve ricorrere a qualsiasi mezzo comunicativo per radicare il messaggio. L’idea di “creazione di popolo” sta un po’ alle fondamenta del discorso del “populismo democratico” portato avanti dal gruppo di Senso Comune, uno spazio di elaborazione che si è costruito attorno a un manifesto che spiega le linee guida per cui: “La soluzione alla crisi politica ed economica che soffre l’Italia è un populismo democratico, che unisca i cittadini che in questo momento non si sentono rappresentati e li coinvolga nella costruzione di un paese più libero e più giusto”. Tra gli estensori, c’è Paolo Gerbaudo, sociologo di stanza a Londra che ha recentemente dato alle stampe The Mask and the Flag: Populism, Citizenism, and Global Protest (Hurst 2017), in cui si vuole esplorare la nascita e crescita delle nuove forme di partecipazione politica nelle piazze come risposta alla nuova Grande Trasformazione (dalla primavera araba al caso di Bernie Sanders, che meriterebbe una trattazione a parte).
Secondo Pankaj Mishra stiamo vivendo in una vera e propria “età della rabbia” (dal titolo del suo ultimo libro Age of Anger, Farrar Strauss & Giroux 2017). Una reazione “fisiologica” al tradimento delle promesse di libertà, stabilità e crescita proposte dalla politica come “élite” liberale (sia di destra, che di sinistra). Una reazione violenta e distruttiva che si esprime nel voto “deprivato”. Marco Revelli chiude Populismo 2.0 definendo questo periodo “l’età del vuoto”, abitato da un «popolo di vittime» senza sbocchi. «[…] non si trova» infatti “Nessun protagonista politico, nessun candidato alla rappresentanza di questi perdenti della new economy”. Ma ogni apparente rivoluzione sembra essere vana. Da un lato, per i motivi sopra spiegati da Dardot e Laval; dall’altro, perché: “Quasi ovunque l’agitazione neo populista in basso viene utilizzata apertamente da chi sta in alto, senza apparente contraddizione” conclude Revelli. “E forse questo spiega il motivo per cui le élite governanti d’Europa, e con essere a maggior parte del sistema di informazione di sistema, pur fingendo indignazione timore nei confronti di queste insorgenze […] non fanno che rafforzare nel seguito”.
Alla fine, c’è un solo elemento che, pur nel nuovo scenario, pur con un corpo sociale totalmente frammentato, atomizzato e non rappresentato, pur nella paura imperante, rimane sempre uguale a se stesso e capace di auto-alimentarsi assorbendo, e quindi normalizzando, ogni spinta sinceramente rivoluzionaria o anche solo “di rottura”. Da destra come da sinistra. E non c’è “populismo” (che sia di merito, di metodo, di strategia o di sentimento) che tenga. Il potere. Come se cambiassero i mezzi, ma il fine ultimo rimanesse sempre lo stesso. Con le istanze che si assorbono e si disinnescano mentre lo “status quo” contro cui queste proteste si indirizzava non solo si auto-conserva, ma si rafforza.