M issione compiuta, signor Presidente”. Jarosław Kaczyński si commuove fino alle lacrime nel celebrare davanti a una folla di sostenitori la vittoria alle elezioni parlamentari. È il 25 ottobre 2015 e il partito conservatore Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) torna al governo in Polonia dopo otto anni all’opposizione. Jarosław lo ha fondato nel 2001, insieme al fratello gemello Lech. I loro volti identici segnano profondamente la politica polacca, arrivando a ricoprire in contemporanea le cariche di Primo ministro e di Presidente della Repubblica. Oltre che dal vincolo di sangue, sono uniti da un comune progetto politico, che però si interrompe bruscamente il 10 aprile 2010. Lech Kaczyński, Capo di Stato della Polonia, muore in un incidente aereo, insieme ad altre cariche di spicco del Paese, nella peggior tragedia della storia polacca dalla Seconda Guerra Mondiale. Cinque anni dopo, a lui va il primo pensiero di Jarosław dopo il successo elettorale.
Dalla morte del gemello, le ambizioni politiche di Jarosław Kaczyński confluiscono in una crociata personale, che non si esaurisce con la riconquista del potere politico ma punta ad assoggettare anche quello giudiziario. A partire dal 2015 il leader di Diritto e Giustizia non ricopre cariche istituzionali, ma da “semplice” deputato del Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, orchestra di fatto la conversione del suo Paese in un sistema illiberale. Con una complessa serie di interventi legislativi, il PiS ha minato l’indipendenza dei giudici, aggredito i diritti fondamentali, ingabbiato il dibattito pubblico. Il solco è tracciato e secondo l’autorevole analisi di Laurent Pech, direttore del dipartimento di Legge della Middlesex University di Londra, anche la meta è chiara: “dopo l’Ungheria, la Polonia diventerà il secondo regime non democratico dell’Unione Europea”.
Per capire come questa deriva sia stata possibile, bisogna immaginare l’erosione dello Stato di diritto come una partita a scacchi, in cui ogni mossa si appoggia sulla precedente e serve a preparare la successiva, in vista di un obiettivo finale. “Prima uccidi il guardiano, poi attacchi il forte”, spiega al Tascabile Arianna Angeli, professore aggregato di Diritto Pubblico Comparato dell’Università degli Studi di Milano. Il guardiano è il Tribunale Costituzionale, formato in Polonia da 15 giudici scelti dal Parlamento e nominati dal Presidente della Repubblica per un mandato di nove anni. Dato che il Parlamento si rinnova ogni quattro anni, a un partito di governo servirebbero due legislature consecutive per comporre interamente un tribunale.
Ma il PiS ha fretta e una coincidenza elettorale lo aiuta: l’elezione del Presidente della Repubblica si tiene in Polonia ogni cinque anni, svincolata e il più delle volte sfalsata temporalmente da quella del Parlamento: può capitare quindi che un Capo dello Stato coabiti per buona parte del suo mandato con un Sejm, e quindi un Primo ministro, di orientamento politico diverso. Ma non nel 2015, quando in agosto vince il candidato del PiS Andrzej Duda e in ottobre lo stesso partito ottiene la maggioranza nell’emiciclo. “Il Presidente rifiuta il giuramento dei giudici neo-eletti dal Parlamento a fine legislatura, controllato dal partito Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska, PO). Poi, con una serie impressionante di leggi, il nuovo emiciclo seleziona i giudici costituzionali e blocca l’attività del tribunale fino a che non ne ha eletto la maggioranza dei membri”. Quando, a fine 2016, il Presidente del Tribunale Costituzionale Andrzej Rzepliński termina il proprio mandato, un successore compiacente viene scelto con nuove modalità approvate nel frattempo dal Sejm. Disponendo di un Tribunale Costituzionale favorevole si aggira il rischio di incostituzionalità dei provvedimenti adottati. La separazione dei poteri è intaccata, cade nelle mani del governo il primo bastione delle garanzie democratiche.
Le ambizioni politiche di Jarosław Kaczyński non si esauriscono con la riconquista del potere politico ma puntano ad assoggettare anche quello giudiziario.
Una volta che la strada è spianata, Jarosław Kaczyński può intraprendere il suo ambizioso piano di riforma della giustizia. Il primo assaggio era stato a inizio 2016 un provvedimento vintage, retaggio dell’epoca socialista: l’unione delle cariche di Procuratore Generale e Ministro della Giustizia, già in vigore in Polonia dal 1990 al 2010. “Diventa impossibile indagare sui membri del governo, quando il capo dei pubblici ministeri è esso stesso un membro del governo”, osserva Dominika Sitnicka, specialista in temi di diritto di Oko.press, portale polacco di giornalismo investigativo vincitore dell’Index Award 2020 per la libertà d’espressione. Poi arriva il piatto forte, un “pacchetto” di norme che si articola in tre tronconi e che serve a neutralizzare ogni possibile opposizione della magistratura ai piani politici del PiS, investendone tutti gli ambiti: la Corte Suprema, il Consiglio Superiore della Magistratura e le corti ordinarie. Per cominciare, una legge sulla responsabilità dei magistrati introduce una camera disciplinare nella Corte Suprema. Un modo per influenzare i giudici e punire, ad esempio, quelli che presentano domande di pronuncia pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea o disapplicano le leggi in contrasto con la Costituzione, secondo la lettura di Arianna Angeli.
Il passo seguente è l’assalto al Consiglio Superiore della Magistratura (Krs), organo incaricato di vigilare sull’indipendenza delle corti, che conta 25 membri tra cui 10 eletti dalle più alte cariche dello Stato e 15 dai giudici fra i giudici. “Senza emendare la Costituzione, approfittando di un passaggio poco dettagliato, il PiS fa approvare una legge che attribuisce al Sejm l’elezione dei 15 membri togati”, spiega la giurista. Si tratta di un provvedimento cruciale: il Krs controlla le carriere dei giudici ordinari e propone i nomi per la Corte Suprema, che è per i polacchi l’ultima roccaforte dello Stato di diritto, visto che i suoi membri dispongono di un mandato senza scadenze temporali. Per cingerla d’assedio, dal Parlamento arriva un altro fantasioso tentativo di epurazione: si decide in un primo momento di rimuovere tutti i giudici, salvo quelli selezionati dal ministro della Giustizia. Poi, in seguito a un’ondata di sdegno, si ripiega sull’abbassamento dell’età pensionabile dei suoi membri da 70 a 65 anni. “Chi vuole continuare a esercitare deve presentare richiesta e ottenere l’approvazione dal Presidente della Repubblica. Così si accelera il ricambio e ci si libera di figure scomode, tra cui il Primo Presidente della corte, Malgorzata Gersdorf”. La Corte di Giustizia Europea ferma la norma, contraria al principio di irremovibilità e indipendenza dei giudici, ma l’avvicendamento al vertice è solo rimandato. Nell’aprile 2020, infatti, scade il mandato di presidenza di Gersdorf. Le succede Małgorzata Manowska, ex vice-ministro della Giustizia di un governo del PiS, scelta dal presidente polacco Duda contro il parere della maggioranza dei giudici della corte stessa. Trova il suo posto l’ultimo tassello di un mosaico sempre più cupo.
Con la graduale conquista della scacchiera giudiziaria, il PiS può procedere agevolmente nella costruzione di una Polonia a propria immagine. Nel corso degli anni vengono approvate leggi in ogni ambito della vita pubblica atte a consolidare il predominio del partito di governo e ridurre i margini di manovra delle opposizioni. Il diritto di riunione viene limitato e i media controllati, a partire dalla televisione di Stato: la Polonia precipita in 5 anni dal 18esimo al 62esimo posto dell’indice sulla libertà di stampa di Rsf. Parallelamente l’esecutivo impone una concezione della società sempre più aderente a quelli che considera “i valori tradizionali, nazionali e cattolici”. Il target interno preferito sono le persone LGBTI+, indicate come portatrici “di un’ideologia peggiore del comunismo”, per utilizzare le parole del presidente Duda. E se il tema della “difesa della famiglia tradizionale” è abbastanza comune alle forze conservatrici in tutta Europa, in Polonia il livello del dibattito è estremo: i deputati possono sostenere nei talk show della tv pubblica che gli omosessuali non sono normali o scrivere su Twitter che il Paese sarebbe più bello senza di loro. Alcuni sindaci conservatori arrivano a dichiarare i loro comuni “LGBTI-free”, in una sinistra escalation discriminatoria.
Dopo le elezioni vinte al ballottaggio del 12 luglio, c’è un’altra missione da portare a termine: la riduzione ai minimi termini del dissenso.
Mentre il governo pianifica di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, considerata “troppo liberale”, i prossimi passi potrebbero riguardare l’educazione sessuale nelle scuole o un’ulteriore limitazione della legge sull’aborto, già molto restrittiva in Polonia e già messa nel mirino del PiS in passato. “Quando in Parlamento si discute di abolire il diritto all’aborto anche in caso di malformazione del feto, le persone scendono in piazza. Così come accade nell’estate 2017, con le proteste più massicce che abbia mai visto in Polonia”, racconta Sitnicka. Ma la mobilitazione della società civile spesso serve solo a differire un provvedimento: “Dopo le contestazioni, il Presidente della Repubblica mette il veto su due leggi della riforma giudiziaria. Poi il Sejm le ripresenta con qualche ritocco e Duda le approva”.
Nella cornice semipresidenziale dell’ordinamento polacco un Presidente della Repubblica compiacente è pedina fondamentale per i disegni del PiS. Fra le sue prerogative c’è infatti il diritto di veto su ogni legge, superabile solo con una maggioranza di tre quinti del Sejm, numeri di cui il PiS non dispone. Per questo motivo il partito di governo fa di tutto per tenere le elezioni il 10 maggio 2020, in piena emergenza Covid19. Pur di non annullare il primo turno delle presidenziali, l’esecutivo evita di dichiarare lo stato di emergenza, cosa che impedirebbe per legge ogni appuntamento elettorale, e il Parlamento licenzia una legge per svolgere la consultazione via posta. La macchina logistica è farraginosa, ma l’occasione troppo ghiotta: il presidente in carica viaggia al 60% nei sondaggi ed è l’unico che può spostarsi per il Paese, tenendo di fatto comizi mascherati da discorsi istituzionali. Il Senato, dove il PiS non ha la maggioranza, fa però muro e rispedisce al Sejm la legge a quattro giorni dalle elezioni. Solo allora, quando è evidente l’impossibilità materiale di organizzare la consultazione, Jarosław Kaczyński getta la spugna. “Il governo non può legalmente organizzare le elezioni via posta, ma comincia lo stesso a stampare le schede elettorali, ora inutilizzabili perché sono cambiati i candidati. Questo azzardo è costato alle casse dello Stato milioni di euro”, puntualizza la giornalista di Oko.press.
Le elezioni si tengono poi il 28 giugno e il ballottaggio il 12 luglio: Duda supera di misura (51% contro 49%) il candidato di Piattaforma Civica, il sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowski, con uno strascico di polemiche per irregolarità nella campagna elettorale e nel voto evocate dai sostenitori dello sconfitto. Per Kaczyński e i suoi questo risultato significa almeno altri tre anni di dominio assoluto, con il Parlamento sotto controllo e un Capo di Stato della propria scuderia. E c’è un’altra missione da portare a termine, la riduzione ai minimi termini del dissenso: il partito di governo sta studiando una riforma che limiti la proprietà straniera nei giornali polacchi. Le accuse di “disinformazione” e “ingerenze straniere” saranno i cavalli di questa battaglia, che rischia di assottigliare ulteriormente lo spazio del dibattito nel Paese.
I polacchi più preoccupati per lo stato della loro democrazia, ora, guardano all’Europa, considerata l’ultimo baluardo di una difesa disperata. “Ormai quando temiamo per i nostri diritti, il primo pensiero va alla Corte di Giustizia Europea”, sostiene Sitnicka. I giudici comunitari possono infatti bloccare l’applicazione delle norme nazionali se esse non sono conformi al diritto europeo, come è successo ad esempio con la legge sull’età pensionabile dei giudici. La CGUE, però, non ha competenza per questionare la conformità degli organi del potere giudiziario dei Paesi Membri dell’Unione. Questo riporta il problema al punto di partenza: una magistratura sempre meno indipendente dal potere politico sarà anche meno incline a denunciare le interferenze del potere politico.
I polacchi più preoccupati per lo stato della loro democrazia, ora, guardano all’Europa, l’ultimo baluardo di una difesa disperata.
Come a Lussemburgo non sempre si può rispondere agli appelli, così da Bruxelles si fatica a intervenire in maniera efficace. Al netto di iniziative non vincolanti e quindi sostanzialmente aleatorie come raccomandazioni (Commissione) e risoluzioni (Parlamento), le istituzioni europee hanno due strumenti per fermare il declino dello Stato di diritto: le procedure di infrazione (ex art. 258 TFUE) e l’Articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea. Il primo è un arma di precisione, dal raggio limitato. Il secondo un bazooka, potenzialmente decisivo ma molto difficile da innescare.
Con una procedura di infrazione, la Commissione Europea può richiamare uno Stato membro al rispetto dei trattati comunitari e, in caso di inadempienza, deferirlo alla Corte di Giustizia Europea. La riforma della giustizia polacca è valsa da sola quattro procedure tra il 2017 e il 2020, che in alcuni casi hanno prodotto misure cautelari in grado di rintuzzare i singoli assalti del PiS alla magistratura, ma mai di intaccare l’intero progetto di controllo del sistema giudiziario. Tramite l’Articolo 7, invece, la Commissione denuncia un serio rischio di violazione dei valori fondamentali dell’Unione. Dopo una procedura lunga e complessa, che prevede un ampio confronto e il voto favorevole dei due terzi del Parlamento Europeo, lo Stato interessato può perdere temporaneamente i suoi diritti in seno all’Unione, fra cui quello di voto. Ma questa misura estrema si può adottare solo con un voto all’unanimità degli altri Capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio Europeo, come racconta al Tascabile Terry Reintke, europarlamentare dei Verdi tedeschi che si occupa del caso nella commissione parlamentare per le Libertà Civili (LIBE). “L’attivazione dell’Articolo 7 (20/12/2017, ndr) – è stata utile, perché ha favorito il dialogo, il monitoraggio, l’emersione dei problemi della Polonia. Ma non si arriverà mai fino in fondo, perché al Consiglio l’Ungheria protegge la Polonia e viceversa”.
Il periodo storico, inoltre, non è dei più propizi: come ha dimostrato il recente negoziato sul Recovery Fund e sul bilancio pluriennale dell’Unione, gli altri Paesi sembrano poco disposti a fare la voce grossa con il governo polacco, che come tutti gli altri dispone del potere di veto nel Consiglio Europeo. Per non inficiare la delicata trattativa, si è sostanzialmente sorvolato sulle questioni di principio, evitando di vincolare in maniera stringente l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello Stato di Diritto. Ma senza un’azione risolutiva in tempi brevi, i diritti sanciti dai trattati comunitari saranno sempre più a rischio in Polonia, soprattutto per le minoranze, gli attivisti dissidenti, le persone LGBTI. Come conclude Reintke, “i polacchi sono europei e questa è una questione europea. Non possiamo girarci dall’altra parte”.