I n alcune fotografie l’austriaco Gerhard Bast appare con l’uniforme grigia ben tagliata, gli angoli del colletto neri, il berretto con la fascia nera e il teschio con le ossa incrociate come fregio. Bast, già direttore della Gestapo di Linz, era un uomo col potere di decidere il destino della vita degli altri, ma non ha saputo quanto sia divenuto più potente con la scrittura il figlio, Martin Pollack.
Scrittore e giornalista, traduttore dal polacco al tedesco di varie opere di Kapuściński, Pollack ha visto solo un paio di volte di sfuggita il padre, di cui ha rifiutato il cognome: un comandante nazista attivo anche nella Polonia occupata, in Jugoslavia e nel Caucaso, poi ricercato dalla polizia federale austriaca per crimini di guerra. Si è messo sulle sue tracce per sapere chi egli fosse stato veramente, che cosa avesse fatto, accettando di pagare il prezzo del disfacimento dell’universo familiare, borghese e acquiescente.
Ne è nato un libro prezioso, Il morto nel bunker. Indagine su mio padre tradotto da Luca Vitali e pubblicato in Italia da Keller, che non è collocabile entro confini di genere. È davvero tante cose insieme: romanzo documentario, reportage, saggio. Soltanto all’età di 14 anni Pollack ascoltò dalla madre qualche allusione all’attività del padre durante la guerra. Ricevette da lui un’unica lettera. Era una piccola storia illustrata con animali e uomini. La bruciò in un attacco di disperazione. Cinquantasei anni dopo l’omicidio di Gerhard Bast, il cui corpo è stato ritrovato il 6 aprile del 1947 in un bunker in Sudtirolo, Pollack ha cominciato ad assemblare le tessere del mosaico di un rapporto caratterizzato dall’assenza eppure ingombrante.
Nella rottura con la nonna, che pretese da lui la promessa di non sposare una polacca o un’ebrea, ci sono il senso e il peso del viaggio di Pollack. Nel 1961, all’apice della Guerra Fredda, lei gli propose di ripercorrere le orme paterne con un lungo tour di formazione in varie città tedesche. Pollack aveva diciassette anni, si rifiutò e scelse Praga, dove le SS erano finite appese a testa in giù, e successivamente Varsavia per gli studi di slavistica.
“Se si nasce in una famiglia come la mia, nella quale tutti, ma proprio tutti, il nonno, il prozio, la nonna, il padre e lo zio sono stati nazisti attivi e si sono riconosciuti nel nazismo, esistono tre possibilità: si seguono le tracce del loro percorso, come per esempio fece il politico di destra Jörg Haider; si cerca di tacere e occultare tutto, oppure si affronta il passato della propria famiglia e si ammette ciò che è stato. Per me quest’ultima era l’unica via credibile. Volevo capire soprattutto come persone apparentemente normalissime, quali erano mio nonno e mio padre, fossero diventate dei criminali, che cosa avesse animato e fatto scattare la violenza”, spiega Pollack.
Il morto nel bunker
Si tratta di un’inchiesta bidimensionale, che affronta una questione privata e al contempo pubblica della storia del Novecento: “I due aspetti sono intrecciati inscindibilmente” sostiene Pollack. “Durante le ricerche ho maturato la convinzione che nella storia della mia famiglia non ci fosse quasi nulla di natura prettamente privata. Una delle sorelle di mio nonno sposò un ebreo a Zagabria, un’altra rimase a Laško nell’attuale Slovenia, di cui la famiglia era originaria, e sposò uno sloveno. A prima vista si trattava di scelte del tutto personali, ma anche politiche, perché entrambe presero le distanze dal nazionalsocialismo, cosa tutt’altro che facile all’interno della famiglia”.
L’autore si pone una domanda intima e universale: “Ho ereditato qualcosa da mio padre? Porto dentro di me qualcosa?”. Un interrogativo che riguarda tutti, ma risulta più complesso e coraggioso con un padre nazista. E ne sottointende un altro: la prima generazione destinata a conoscere negli anni il significato della pace in Europa è innocente e realmente liberata dal male? Pollack ringrazia la scuola e gli insegnanti che lo resero immune da nostalgie familistiche, difficili da decostruire, per quel passato di presunta grandezza e annichilimento.
Se nella Germania e nell’Austria postbelliche le macerie proprie della sconfitta erano un tabù e occorreva esaltare l’eroismo della ricostruzione, Pollack non ha avuto tentennamenti nello scavare nella distruzione fino a tratteggiare i volti delle vittime di suo padre, ormai polvere nel vento e numeri privati dell’identità per la Storia.
In Paesaggi contaminati (Keller, traduzione a cura di Melissa Maggioni) Pollack sostanzia con il verbo “imboschire” l’opera dei carnefici che nel Novecento hanno disseminato l’Europa di fosse, in cui è stato disperso il residuo ultimo di umanità. “La giustificazione per il genocidio era quella di ‘modellare il paesaggio. L’uso del termine apparentemente neutrale, addirittura innocente, ‘paesaggio’, da parte dei nazisti, è una ragione importante per utilizzarlo con cautela e per indagarlo criticamente”, osserva. Pollack trasmette l’urgenza di indagare nelle terre dell’oblio, perché non sono sufficienti i memoriali, di cui abbonda il Vecchio continente, spesso ammantati dalla retorica dell’eroismo che garantisce sempre un futuro alla guerra.
Il 16 dicembre del 1944 le bombe americane distrussero la sua casa di Linz. Pollack si rifugiò nei locali sotterranei e si salvò con la donna di servizio. Il bambino di allora raccoglie frammenti sparsi, l’adulto di oggi illustra come l’accezione di paesaggio sia in modo inestricabile un groviglio di sensazioni, immaginazione e memoria. Il morto nel bunker ruota intorno alle scelte individuali, come quella di intraprendere una carriera nella polizia politica, macchina del terrore e dell’orrore dello Stato nazista, e a dilemmi fatalmente insoluti.
Gerhard Bast crebbe in un ambiente familiare in cui il linguaggio era intriso della retorica nazionalista più retriva. È paradigmatico il tragitto che nel decennio 1929-’39 lo portò dagli studi di giurisprudenza presso l’Università di Graz, fucina del nazionalismo germanico e poi roccaforte nazista, all’ideologia dell’élite razziale e politica delle SS. Gerhard, pienamente integrato nei movimenti studenteschi e nelle Heimwehr, le milizie patriottiche, imparò a odiare tutto ciò che gli stava attorno, a cominciare dallo Stato nuovo e debole.
A che cosa miravano quei giovani? “Volevano sovvertire la società dalle fondamenta, abbatterla e distruggere le istituzioni statali. Tutto avrebbe dovuto essere sottomesso a un energico Führer”, scrive Pollack. Le Heimwehr, formazioni paramilitari antidemocratiche e antimarxiste composte nel 1928 da 150.000 membri armati, erano ideologicamente legate all’Italia, consideravano e celebravano Mussolini come un modello. Dopo la disgregazione del movimento soprattutto in Stiria e Carinzia la maggioranza degli aderenti confluì nel partito nazista.
La formazione di un nazista
Il passaggio dalla violenza politica e dalla propaganda studentesca antisemita al movimento hitleriano fu brevissimo. Il 30 ottobre del 1931 Gehrard Bast, all’epoca ventunenne, aderì al NSDAP, il partito nazista, messo fuorilegge in Austria nel giugno del 1933, con la tessera numero 612972. Il padre lo aveva anticipato nel mese di agosto. Il partito hitleriano austriaco seguì alla lettera il programma della NSDAP tedesca e ne ricalcò le forme di organizzazione, propaganda e lotta. All’alba degli anni Trenta il NSDAP austriaco reclutò le proprie forze soprattutto tra i giovani.
Il 19 giugno del 1933, quando divenne fuorilegge, gli appartenenti al NSDAP austriaco erano 67.000. In molti ripararono in Germania, proseguendo la propria attività. L’undici marzo del 1938 dopo l’Anschluss i membri “illegali” erano saliti a 164.000. Nel 1942 schizzarono a 688000 per poi cominciare a rifluire, 536.662 nel 1946.
Nel gennaio del 1932, lo studente Bast divenne ufficialmente membro delle SS di Heinrich Himmler a Graz, matricola 23064. A Graz, celebrata da Hitler come città della sollevazione popolare, nel febbraio del 1937 al culmine di una manifestazione imponente un giovane si arrampicò e issò per la prima volta sulla facciata di un palazzo dell’amministrazione pubblica austriaca una bandiera con la croce uncinata.
A ventisette anni Bast si arruolò presso la Polizia segreta di Stato di Graz e contestualmente lo accolsero nei servizi di sicurezza del Reichsführer SS (SD), strumento del genocidio. Il giurista Bast aveva gli strumenti per sapere cosa fosse la Gestapo, uno Stato nello Stato al di fuori della legge, di cui dalla primavera del 1940 diresse la sezione di Graz, dopo la nomina ad assessore governativo e capitano dell’esercito. “Perché proprio lui?”, è la domanda costante che si allunga come un’ombra opprimente. Quando Pollack chiedeva se suo padre, capo missione dei Sonderkommandos e degli Einsatzkommandos incaricati dell’eliminazione fisica degli ebrei, rom e avversari politici, fosse stato migliore degli altri, gli rispondevano: “Si è sempre comportato con onore”.
La nonna inculcò nel nipote l’idea del comportamento onorevole del figlio. Pollack non ha dubbi dinnanzi al bivio, a cui molti si appigliarono, tra la responsabilità personale e l’obbedienza militare: “Sono uno storico e so che nessuno fu costretto a partecipare alla fucilazione degli ebrei o dei partigiani. Mio padre avrebbe potuto rifiutarsi e non gli sarebbe successo nulla, tutt’al più avrebbe avuto un’ammonizione e sarebbe stato relegato in qualche ufficio a sbrigare carte. È stata una sua libera scelta. Certo, subiva qualche pressione da parte della famiglia per l’educazione ricevuta, ma ciò non cambia la sostanza del fatto che fu lui a scegliere liberamente di partecipare a quegli interventi”.
Il volto del giovane Bast divenne inconfondibile soprattutto dopo la guerra, quando entrò in clandestinità per sottrarsi all’arresto. Il rito iniziatico propedeutico all’ingresso nelle Burschenschaften, organizzazioni degli universitari tedeschi, gli segnò le guance con due cicatrici chiamate Schmisse. Gli studenti, a cui era già proibito il contatto con gli ebrei, per accedervi dovevano combattere un duello con la spada strettamente regolamentato.
Il mito dell’innocenza
Pratiche identitarie e simbologie che stanno tornando di moda: “L’Austria è esemplare sotto questo profilo. Sono cresciuto in una famiglia i cui maschi appartenevano tutti alle Burschenschaften di stampo tedesco-nazionalista, diventati poi senza eccezione convinti nazionalsocialisti e feroci antisemiti. Pensavo che il fenomeno si sarebbe estinto in modo ‘biologico’, per così dire, con la morte della generazione di mio padre e di mio nonno. Un errore fatale, come si è visto. Numerosi giovani membri delle Burschenschaften tedesco-nazionaliste e militanti del FPÖ, di estrema destra, sono al governo e ricoprono posizioni importanti nelle istituzioni. E sono animati dallo stesso spirito che contraddistingueva i miei famigliari”.
“Tutti eravamo idealisti, tutti ci credevamo”, diceva la nonna di Pollack. Un’ammissione piena, che conferma quanto sostenuto l’otto luglio del 1991 dal Cancelliere della Repubblica Austriaca, Vranitzky, che ammise in Parlamento che l’Austria non fu solo una vittima del Terzo Reich. L’élite politica austriaca sostenne invece la versione secondo cui il Paese era stato vittima dell’aggressione hitleriana, e insistette per sottolineare il proprio ruolo nella liberazione.
“Il mito dell’innocenza non è mai stato superato completamente” sottolinea Pollack. “Ancora oggi, molti austriaci ritengono di essere stati soprattutto vittime e solo in casi eccezionali anche colpevoli. E se si guarda a quello che succede in Europa, la fortissima spinta a destra in alcuni Paesi con richiami più o meno espliciti al fascismo o al nazionalsocialismo, bisogna ammettere che una vera e propria resa dei conti con queste ideologie non c’è ancora stata. Perciò mi sembra importante non smettere mai di affrontare il problema”.
Nel ventennio successivo alla guerra la volontà generale di dimenticare e la sostanziale impunità dei criminali alimentarono l’insorgenza di fenomeni e manifestazioni pubbliche, violente di neonazismo. Dal 1945 al 1955 i “Tribunali del popolo”, istituiti appositamente, furono discretamente indulgenti con 13607 condanne, 9870 assoluzioni. Nel 1963 l’ex agente della Gestapo, che aveva arrestato Anna Frank ad Amsterdam, occupava una posizione di riguardo nella polizia di Vienna e come lui molti altri nazisti di rango. Lo denunciò Simon Wiesenthal che nel 1947 a Linz, città natale di Adolf Eichmann e d’elezione di Adolf Hitler, dove era di stanza Bast, creò il proprio Centro di documentazione.
Dopo l’Anschluss, ricorda giustamente Pollack, in Austria nessuno poteva non sapere cosa stesse accadendo agli ebrei e non solo. Gran parte delle arianizzazioni e delle confische delle proprietà degli ebrei nel piccolo centro di Amstetten passarono per la scrivania del nonno, l’avvocato Rudolf Bast, nazionalsocialista della prima ora che non cercava giustificazioni al proprio antisemitismo. Dopo la guerra pretese di essere stato una figura marginale, in nessun modo coinvolto con i crimini del regime nazista.
La raccolta di prove, di testimoni attendibili delle responsabilità individuali nei massacri genocidiari è stata faticosa, lunga, paradossalmente necessaria e anche Pollack non si è sottratto. Ha realizzato le ricerche negli archivi in Germania, Slovenia, Polonia e nei documenti privati della famiglia non distrutti nell’immediato dopoguerra. Ha iniziato tardi a porre domande, ma è riuscito a raccogliere parecchio materiale, al punto da poter scrivere qualcosa come la storia di una mentalità, che non è tramontata, incapace di concepire una vita in comune oltre la frontiera innanzitutto linguistica.