I
l 21 febbraio 1975 Giuseppe Marchisella, guardia di pubblica sicurezza, fu ucciso nel corso di una rapina in piazza dei Caprettari, a Roma. In servizio di sorveglianza presso un ufficio postale, in divisa e armato con un ingombrante fucile MAB, l’agente era un bersaglio facile e fu freddato al primo accenno di difesa. La rapina, condotta dalla banda dei marsigliesi (Berenguer, Bergamelli e Bellicini), fruttò il magro bottino di quattrocentomila lire. Il giorno dopo i funerali di Marchisella la fidanzata, Clara Calabresi, si lanciò dal quarto piano della sua abitazione. Morì in ospedale dopo diversi giorni di agonia. I due si erano sposati in segreto, con un matrimonio di coscienza, qualche tempo prima (il regolamento impediva ai poliziotti di sposarsi prima dei 26 anni) ed erano in attesa che lui compisse gli anni per poter contrarre matrimonio civile.
La morte del giovane poliziotto e della fidanzata provocò un rabbioso moto di indignazione tra gli agenti di PS e furono contenute a stento manifestazioni di dissenso clamorose. La rapina di piazza dei Caprettari riassumeva in sé alcuni dei fattori di una crisi profonda che stava attraversando la polizia da molto tempo, una crisi che si sarebbe aggravata in maniera ulteriore negli anni successivi. Il giovane poliziotto ucciso non era privo di esperienza, ma era stato impiegato in un servizio pericoloso senza precauzioni, in divisa (trasformato pertanto in un bersaglio), con un armamento inadeguato (il MAB era un’arma da guerra poco utile in certe circostanze) e soprattutto con una scarsa preparazione al tiro, cosa piuttosto comune tra gli agenti in quegli anni.
I problemi della polizia di quel periodo iniziavano sin dalla fase del reclutamento. Come Giuseppe Marchisella, il settanta per cento dei nuovi arruolati nella PS – nel periodo compreso tra il 1960 e il 1976 – proveniva dal meridione ed era entrato in polizia in cerca di un impiego stabile e di una paga sicura. Molti dei nuovi arruolati possedevano il titolo minimo necessario per l’ingresso, la quinta elementare, e provenivano spesso da contesti sociali svantaggiati. Attratti – o più spesso ingannati – dalle campagne pubblicitarie dell’Amministrazione, si arruolavano in cerca di una professione rispettabile, sperando di poter continuare a studiare, di acquisire delle specializzazioni tecniche o di fare un mestiere avventuroso e dinamico.
Li accoglieva invece un’istituzione militare chiusa e rigida, retta da una disciplina anacronistica che accentuava in maniera netta la separazione tra i poliziotti e il resto della società. Alla scarsa istruzione professionale ricevuta nelle scuole, che aveva ripercussioni sull’efficienza del servizio e sulla sicurezza stessa degli agenti, seguivano durissime condizioni di lavoro, turni prolungati, straordinari non pagati e retribuzioni molto basse. Come scrisse il sociologo Franco Ferrarotti, diventare poliziotti significava “spesso passare attraverso un triste itinerario di umiliazioni, frustrazioni gratuite, diritti negati, abusi di autorità, arbitrii, cibo cattivo e camerate squallide”.
Il settanta per cento dei nuovi arruolati nella Pubblica Sicurezza, tra il 1960 e il 1976, proveniva dal meridione ed era entrato in polizia in cerca di un impiego stabile e di una paga sicura.
Accanto a questi problemi, gravi disfunzioni organizzative accentuavano l’inefficienza del comparto sicurezza del Paese: eccessiva prossimità con il potere politico, ripartizione irrazionale dell’organico disponibile, penuria di mezzi, impiego estensivo di uomini nei servizi di ordine pubblico, mancanza di una direzione unitaria e di un coordinamento efficace tra polizie. La poca collaborazione tra le principali agenzie di sicurezza del Paese – l’Arma dei carabinieri e la PS – generava spesso inefficienza, ritardi, sovrapposizioni e interferenze. L’Arma dal canto suo soffriva difficoltà simili a quelle della pubblica sicurezza, era però sollecitata in maniera minore, poiché molto meno impiegata nei servizi di piazza – manifestazioni e conflitti di lavoro – gestiti spesso dai reparti mobili e dai raggruppamenti celere della PS.
A fronte di un comparto sicurezza in condizioni critiche, la società italiana era in fermento, e non soltanto nelle forme (pro)positive, creative e vitali dei movimenti giovanili e studenteschi o delle legittime rivendicazioni del mondo del lavoro, ma anche nel suo folto ed eterogeneo sottobosco criminale. In soli cinque anni, dal 1971 al 1976, i reati denunciati raddoppiarono in numeri assoluti. Entrando nel dettaglio, le rapine (tentate e consumate) videro un incremento notevole: quelle in banca furono 748 nel 1973, 900 nel 1974, 985 nel 1975, 1300 nel 1976. Prendendo in esame i numeri complessivi, tenendo presente quindi le azioni compiute a danni di uffici postali, banche, gioiellerie, armerie, altre attività commerciali e abitazioni, le rapine passarono nel complesso dalle 1735 del 1973 alle 4306 del 1976. I delitti con movente politico passarono dai 482 del 1974 ai 1198 del 1976. Sul fronte opposto il sistema carcerario sembrava un colabrodo: le evasioni erano state 286 nel 1975, 359 nel 1976 e nel 1977 si arrivò a più di un’evasione al giorno.
Come avevano rilevato alcuni osservatori, i nuovi delinquenti erano giovani o giovanissimi, avevano una mobilità estrema, impiegavano spesso mezzi superiori a quelli in dotazione alle forze di polizia (auto e moto veloci, armi da fuoco più maneggevoli e più moderne) e soprattutto le loro azioni erano caratterizzate da un elevato livello di violenza, brutalità e cinismo. Sulle cause di questa nuova criminalità si erano interrogati in molti. La parte più conservatrice dei commentatori attribuiva questi fenomeni a una disgregazione della famiglia e dei “valori tradizionali”, agli impulsi della società dei consumi, ai messaggi veicolati dalla tv, dal cinema e dai giornali. Altri punti di vista inquadravano invece l’origine del problema nello sviluppo caotico e disorganico che aveva attraversato il Paese, uno sviluppo spesso selvaggio, incontrollato, e non bilanciato da strumenti di welfare efficaci. Uno sviluppo che aveva accentuato in maniera stridente le disuguaglianze sociali.
A ciò bisogna aggiungere che l’aumento della criminalità non era un fenomeno soltanto italiano ma interessava, con le dovute differenze, l’intera Europa occidentale e il nord America. La peculiarità italiana più evidente, tornando ai problemi delle polizie, era costituita dalle dimensioni enormi del comparto forze dell’ordine e dalle sue condizioni: un grande insieme inefficace, confuso e frammentato. Le molte polizie di Italia, dipendenti da diversi ministeri e con compiti spesso sovrapposti, avevano una consistenza di organico senza eguali tra i paesi dell’Europa Occidentale, senza per questo ottenere risultati commisurati alla loro forza numerica. In diverse inchieste giornalistiche l’Italia fu definita spesso il Paese delle “troppe polizie”: carabinieri, guardie di PS, finanzieri, guardie forestali, capitanerie di porto, agenti di custodia, guardie rurali, campestri, boschive, zoofile e vigili urbani si muovevano su scenari spesso sovrapposti senza un coordinamento efficace. Ma ciò che destava la preoccupazione maggiore era, come abbiamo accennato, il mancato collegamento tra l’Arma e la PS, due istituzioni con compiti che in gran parte tendevano a sovrapporsi.
L’Italia fu definita il Paese delle “troppe polizie”: ciò che destava la preoccupazione maggiore era il mancato collegamento tra l’Arma e la PS, due istituzioni con compiti che in gran parte tendevano a sovrapporsi.
La criminalità, il clima sociale turbolento e l’inefficienza delle forze dell’ordine (molti dei reati commessi restavano impuniti) generarono nella parte più abbiente del paese, oltre ad una certa sfiducia nei confronti degli apparati di polizia, un ricorso diffuso a forme private di controllo, di sicurezza e di difesa. Proprio in questo decennio infatti sia la domanda che l’offerta di una sicurezza privata iniziarono a crescere in maniera rapida. Si assistette a un’espansione del mercato: dagli accessori più o meno costosi (cancelli automatici, allarmi, porte e vetri blindati, cani da difesa, armi), fino ai corsi di autodifesa e alle arti marziali. Si rafforzò e si moltiplicò l’offerta di forme private di protezione personale come l’utilizzo di guardie del corpo, tanto che al tempo ebbe una certa fortuna il termine gorilla per indicare i guardaspalle; si parlò addirittura dei gorilla come un “genere di consumo” per le classi benestanti. Anche il settore della vigilanza a pagamento conobbe una crescita intensa: sorsero e si svilupparono vere e proprie polizie private da impiegare nel controllo di zone residenziali o nella sorveglianza di attività commerciali.
Le questioni che abbiamo affrontato sinora, crisi della polizia, aumento della criminalità e conseguente ricorso a forme private di sicurezza (quando non di giustizia), furono tanto importanti e dense di implicazioni che entrarono per riflesso anche nel cinema. E non in un singolo lungometraggio ma in un filone che conobbe una grossa fortuna e che fu lo specchio di quell’epoca: il cinema poliziesco o, nella sua versione di genere italiana, poliziottesco. Le immagini, a volte distorte a volte fedeli, della società, della criminalità e della polizia presenti in quei film sono state indagate in un lavoro eccezionale di Roberto Curti, Italia odia. Rivedendo alcuni lungometraggi di quella vasta filmografia – Milano Calibro 9; Milano odia, la polizia non può sparare; Roma a mano armata; solo per fare alcuni esempi tra i più noti – si resta colpiti dalle profonde assonanze con l’Italia dell’epoca. Tralasciando le differenze tra pellicole, la qualità dei singoli lavori e la maggiore o minore aderenza alla realtà, il poliziesco italiano è un mezzo utile per ripensare, con molteplici suggestioni, all’Italia di quegli anni.
Dal contesto di crisi che abbiamo descritto gli apparati di sicurezza della Repubblica uscirono con fatica, attraverso un lungo processo di cambiamento non indolore e non privo di difficoltà e nodi che ad oggi ancora non sono completamente sciolti. Nell’immediato la pressione della criminalità, e in particolar modo del terrorismo (che nella Penisola conobbe dimensioni e peso sconosciuti negli altri paesi europei), costrinse lo Stato a cercare una risposta rapida, adeguata e forte. Di conseguenza le polizie furono interessate, anche grazie a una fitta cooperazione internazionale, da una serie di innovazioni che iniziarono a cambiarne le modalità operative: intenso lavoro di intelligence, utilizzo dell’informatica, maggiore coordinamento, addestramento di unità speciali, nuove armi, miglioramenti nel controllo delle carceri. In tempi recenti un’accurata ricerca storica comparata tra Italia e Repubblica federale tedesca, condotta da Laura Di Fabio, ha analizzato in profondità la risposta delle istituzioni al terrorismo, evidenziando l’importanza che ebbe per la Repubblica lo scambio di saperi con la Germania Federale.
I provvedimenti dello Stato in questo campo furono però molto tecnici e interessarono soprattutto il lato della repressione. Poco si fece, dal punto di vista politico e sociale, per disinnescare e allentare quelle frizioni da cui si erano originati la criminalità e il terrorismo. In quel difficile frangente un insperato segnale di cambiamento, una nota positiva, provenne proprio da uno dei corpi dello stato impegnati in prima linea a fronteggiare l’emergenza criminale: la pubblica sicurezza. Un movimento democratico clandestino, nato dal basso, tra le guardie e i sottufficiali del corpo, raggiunse in pochi anni una dimensione di massa. Dopo un periodo intenso di lotte con la parte più conservatrice dell’istituzione, il movimento riuscì a condurre il corpo a una riforma importante, alla smilitarizzazione e alla sindacalizzazione. Fino a quel momento l’Italia era rimasta l’unico paese dell’Europa occidentale con un comparto polizia interamente militare privo di diritti sindacali e politici. La presenza del movimento interno alla PS e la nascita di fermenti analoghi anche in altre polizie (soprattutto nella Guardia di Finanza) rappresentò un presidio democratico all’interno delle istituzioni in una congiuntura in cui, viste le difficoltà e le emergenze, sarebbe stato facile cedere a soluzioni autoritarie o, come pure talvolta avvenne, a strategie repressive dure e poco democratiche.
Un movimento democratico clandestino, nato dal basso, tra le guardie e i sottufficiali della Pubblica Sicurezza, riuscì a condurre il corpo a una riforma importante, alla smilitarizzazione e alla sindacalizzazione.
Più di quarant’anni dopo, la situazione è cambiata e per diversi aspetti è migliorata molto. L’Italia di oggi non è quella dell’assassinio della guardia Marchisella. I dati e le statistiche descrivono un paese sicuro, anche se con un grande panorama criminale sommerso dove le mafie e la corruzione hanno un peso che a volte riesce anche difficile quantificare. Appare evidente, tuttavia, una differenza sostanziale con il periodo turbolento che abbiamo descritto finora.
Il comparto forze dell’ordine della Repubblica è rimasto pletorico – più che in passato – e frammentato ma è tutto sommato efficiente, dotato di un discreto livello professionale e provvisto di strumentazioni tecnologiche all’avanguardia. Le condizioni lavorative ed economiche degli operatori di polizia (sia dell’Arma dei carabinieri che della Polizia di Stato) sono molto migliorate e possono essere considerate più che dignitose. Alcuni dei problemi organizzativi del passato sono ancora presenti, anche se notevolmente attenuati: il coordinamento tra polizie, ad esempio, pur essendo più efficiente sconta ancora una serie di ritardi.
Nonostante questi indubbi progressi, le polizie contemporanee non sono immuni da problemi e la loro tenuta democratica dovrebbe essere sempre oggetto di attenzione da parte della società e della politica. Purtroppo, tranne che in rari casi, di polizie si parla sempre poco e con scarsa cognizione: per celebrazioni di rito o per muovere critiche dopo clamorosi fatti di cronaca.
Negli ultimi venti anni alcuni gravissimi eventi – i fatti del G8 di Genova per primi, ma anche i singoli episodi di violenze a danno di persone fermate di cui il caso Cucchi è solo il più noto – hanno dimostrato la necessità di tenere sempre alto il livello di attenzione sui comportamenti dei singoli operatori e delle istituzioni. Fondamentale è anche una continua verifica sulla capacità delle polizie di giustificare in maniera democratica, credibile e affidabile determinate scelte. E questo non sempre è avvenuto e non sempre avviene. Resta problematica anche la scarsa autonomia e l’eccessiva dipendenza delle polizie dalle forze politiche che di volta in volta si succedono al governo, ma questa è una questione antica, radicata nella consuetudine amministrativa e politica del Paese
Nonostante indubbi progressi, le polizie contemporanee non sono immuni da problemi e la loro tenuta democratica dovrebbe essere sempre oggetto di attenzione da parte della società e della politica.
Facendo un confronto tra l’Italia della rapina in piazza dei Caprettari e quella attuale, a fronte delle statistiche che parlano di una continua diminuzione del numero dei reati, colpisce la presenza insistente della “questione sicurezza” all’interno del dibattito politico e pubblico. Ripensando al passato della Repubblica, quella odierna sembra più che altro un’isteria securitaria. Un’isteria alimentata ad arte da alcune parti politiche attraverso vecchi e nuovi media e che ha interessato ed inglobato una serie di questioni e di ambiti che nulla hanno a che vedere con la criminalità e con la sicurezza.
La questione migratoria innanzitutto, da grande problema umanitario e logistico, che un Paese che si dice avanzato dovrebbe riuscire a fronteggiare e che negli anni scorsi aveva affrontato in maniera efficace (come nel caso dell’Operazione Mare nostrum, un’operazione militare e umanitaria partita nel 2013 con lo scopo di garantire la salvaguardia della vita dei migranti in mare e assicurare alla giustizia i responsabili del traffico illegale), è stata trasformata attraverso la retorica in un problema di sicurezza. Un grande fenomeno umano, né il primo né l’ultimo della storia, è stato ridotto a una questione di criminalità, di protezione delle frontiere contro un nemico esterno. Ma questa, purtroppo, non è una politica esclusiva di questo Paese: si pensi, ad esempio, al respingimento dei migranti che tentano, con grave rischio per la loro vita come nel Mediterraneo, di passare il confine tra Messico e Stati Uniti attraverso il deserto. Un recente lavoro di Francisco Cantú (Solo un fiume a separarci. Dispacci dalla frontiera), giovane studioso di diritto internazionale arruolatosi nella polizia di confine statunitense per fare esperienza diretta della frontiera, fa un po’ di luce sulle pratiche brutali di quel sistema repressivo e racconta la criminalizzazione subita dai migranti nello spazio del confine.
Un’altra opera di criminalizzazione, altrettanto ingiustificata, ha interessato in Italia da molti anni le classi più deboli ed esposte della società: nomadi, venditori abusivi, mendicanti e senzatetto. In un efficace tentativo di isolare, escludere o più spesso soltanto di allontanare “dalla vista” queste persone, molti luoghi pubblici sono stati resi poco accessibili utilizzando la sempre efficace formula retorica della “lotta al degrado”. Le grandi stazioni ferroviarie, da cui sono scomparse persino le panchine (sedersi è un lusso che si paga), sono l’esempio più evidente di queste politiche. Come raccontava bene un articolo pubblicato su Internazionale un paio di anni fa (Wolf Bukowski, Le stazioni si stanno trasformando in fortezze contro i poveri), alcune campagne stampa avevano dipinto la stazione di Bologna come “un luogo da cui scappare a gambe levate, dove i viaggiatori sono vessati dalle pretese dei mendicanti e circondati da una folla di disperati”. Colpisce che le parole usate per questa campagna del 2017 richiamino (ricordando l’antica ostilità sociale verso le categorie di oziosi e vagabondi) quelle con cui una rivista di polizia dell’Italia liberale, nell’anno 1868, rifletteva sull’accattonaggio: “Ad ogni ora, ad ogni stazione, (…) in casa e fuori, di mattina e di notte, in campagna ed in città noi siamo inseguiti, annoiati, rattristati da una turba indigena e forestiera di poveri più o meno indiscreti che domandano e qualche volta quasi c’impongono la carità”.
Questo non vuol dire che in Italia non esistano problemi di sicurezza. Tuttavia, del dibattito pubblico e politico attuale sorprende che l’attenzione, quando si parla di questi temi, si concentri più sulle questioni sopraccennate (che potremmo definire “pagliuzze”), con toni spesso forcaioli, facendo leva sulle paure più viscerali della popolazione, e non sulle grandi questioni come la criminalità organizzata e la corruzione (che sono invece delle vere e proprie “travi” negli occhi dello Stato).
Il mercato della sicurezza non ha mai conosciuto una crisi: si nutre del disimpegno pubblico e prospera quando lo Stato si ritrae.
Nel Paese sussistono da tempo una serie di questioni sociali che a lungo andare potrebbero diventare anche un problema di sicurezza, o criminale. E come in passato, o forse peggio, non vi è una volontà politica che agisca in maniera preventiva, attenuando sul nascere quel disagio che potrebbe degenerare. Si è lasciato, senza proporre soluzioni adeguate, che alcune differenze – economiche e geografiche – si tramutassero in forti disuguaglianze. Le periferie urbane, le province più povere e le zone interne sono state volutamente lasciate indietro, senza un progetto. Eppure l’esempio vicino della Francia, che ha trasformato le proprie banlieue in ghetti dove occultare la marginalità, ghetti che poi sono diventati un incubatoio criminale, sconsiglierebbe una politica simile.
La sicurezza è un bene pubblico, collettivo, come la scuola e la sanità; è anche un diritto, come il lavoro. E nei contesti dove gli altri beni/diritti vengono a mancare, dove la scuola latita, dove gli ospedali chiudono e il lavoro manca, a lungo andare scompare anche la sicurezza per tutti, e viene sostituita, se va bene, dalla sicurezza per pochi. Il mercato della sicurezza non ha mai conosciuto una crisi, si nutre del disimpegno pubblico e prospera quando lo Stato si ritrae.
L’Italia contemporanea è a un bivio, può cercare di preservare o migliorare la situazione attuale agendo in via preventiva e non solo repressiva, oppure trasformarsi in un Paese dove la sicurezza sarà sempre più una questione privata, un lusso riservato ai benestanti, come già purtroppo avviene in molte parti del mondo dove i poveri possono vivere sicuri al massimo facendo la guardia ai quartieri dei ricchi.