I
l riemergere dell’inflazione, mai così alta dagli anni Settanta del secolo scorso, ha spinto le banche centrali, in particolare la Fed e la BCE, ad alzare repentinamente i tassi di interesse. L’innalzamento dei tassi comprime il credito e di conseguenza, secondo il gergo ormai noto ai più, “raffredda” l’economia. Se i tassi sono alti, alto è il costo del denaro preso in prestito; se il denaro costa di più, la domanda di credito si riduce, il risparmio viene premiato, gli investimenti languono. D’altronde, insistono i “falchi” (monetaristi, ovvero allievi di Milton Friedman), l’inflazione colpisce soprattutto le fasce più povere della popolazione: ciò è vero, ma è vero perché non vi è adeguamento tra inflazione e salari. Ed è altrettanto vero che, tassi di interesse alti, colpiscono coloro che sono indebitati, favorendo i creditori. In un modo o nell’altro (pagando di più i beni di consumo, con salari stazionari; pagando di più le rate del mutuo, sempre con retribuzioni ferme), essendo i più poveri spesso indebitati, la popolazione con bassi redditi ne esce fuori a pezzi.
Nulla, nelle faccende monetarie, sembra naturale; tutto è frutto di scelte, politiche, che favoriscono alcuni e danneggiano altri. La storia per esempio ci insegna che, più dell’iperinflazione nei primi anni Venti del Novecento, furono le politiche di austerità dei primi anni Trenta a favorire l’avvento di Adolf Hitler e del nazismo. Le politiche monetarie possono cambiare il senso della storia, in meglio ma soprattutto in peggio. Se ciò è vero, perché, quando si parla di moneta e di banche centrali, si è convinti di avere a che fare con una materia tecnica che nulla condivide con la politica? L’importante studio di Stefan Eich, Teoria politica del denaro. Da Aristotele a Keynes (ed. Treccani, l’editore di questa rivista – n.d.r.), prova a rispondere, e lo fa con molta efficacia, a questa domanda.
Quello di Eich è in primo luogo un libro di storia delle idee. La tesi è netta: la moneta è un’istituzione politica, di gran lunga più antica del capitalismo il quale, fin dai suoi albori, ha fatto del tutto per depoliticizzare il denaro; una filosofia politica con ambizioni normative, e che soprattutto voglia incidere sul presente, deve rimettere al centro della sua indagine la moneta. Per sostenere la sua tesi, Eich chiama a raccolta momenti altissimi del pensiero occidentale: parte da Aristotele, con le sue due diverse accezioni della moneta, quella dell’Etica Nicomachea e quella della Politica; passa poi per John Locke, letto con grande originalità, e si occupa di un autore che quasi mai viene accostato al dibattito filosofico sul denaro, Johann Gottlieb Fichte; quindi si concentra su Karl Marx e John Maynard Keynes, intesi come chiavi essenziali per comprendere la modernità capitalistica ma anche, in particolare nel caso di Keynes, il nostro presente; in conclusione, Eich descrive il contemporaneo monetarismo, indicando strade a esso alternative.
Storia delle idee, ma più propriamente genealogia: il discorso filosofico passato in rassegna da Eich, infatti, si intreccia con discontinuità e fratture storiche decisive. Sono le grandi crisi, monetarie e in generale economiche, quasi sempre intrecciate con catastrofi belliche, a far maturare le riflessioni più originali e feconde sul denaro: gli anni Novanta del XVII secolo in Inghilterra; quelli del XVIII secolo in Prussia, con l’Europa scossa dalla Rivoluzione francese e dalla guerra rivoluzionaria; il panico e le crisi monetarie della metà del XIX secolo; la fine del Gold Standard tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale.
La moneta è un’istituzione politica, di gran lunga più antica del capitalismo il quale, fin dai suoi albori, ha fatto del tutto per depoliticizzare il denaro.
L’inizio dello scavo genealogico, però, con “mossa keynesiana”, è dedicato ad Aristotele: più in generale, alla funzione della moneta nella polis classica; più in particolare, alla concezione aristotelica della moneta intesa come strumento della reciprocità e della giustizia. È noto che Aristotele, nel V libro dell’Etica Nicomachea, abbia inteso la moneta, in greco nomisma, come frutto di nomos, legge, ma più propriamente – in questo caso – di convenzione. Ancora: Aristotele sostiene che la moneta renda possibile lo scambio e, così facendo, la formazione e la durata della comunità politica. Si ha scambio perché vi è una pluralità di bisogni, elaborati attraverso una pluralità di lavori; e la moneta rende commensurabile, dunque scambiabile secondo giustizia e reciprocità, ciò che per natura è differente: una sedia non è un tavolo, una casa non è un vestito; il lavoro del falegname non è quello del sarto. Tale è la pluralità dei bisogni e dei lavori che serve l’istituzione di una moneta che renda giusto, proporzionato e quindi reciproco, lo scambio; giusta, perché fondata sulla giustizia reciproca, la comunità politica.
Sin qui, l’Etica Nicomachea. Sempre Aristotele, nel I libro della Politica, affrontando la tematica già platonica della crematistica, presenta in altro modo la nascita della moneta: l’emergere di bisogni che la comunità politica non può soddisfare implica il commercio con gli stranieri; affinché ciò sia possibile, è necessario il denaro. La moneta, in questo caso, non è più un’istituzione politica della città, nasce invece spontaneamente nel mercato, in particolare in quello che lega le città straniere l’una all’altra. La crematistica allora si sdoppia: quella che riguarda l’amministrazione della famiglia, la riproduzione della stessa e la vita felice del cittadino, è naturale e da approvare; quella che riguarda il commercio, che ha come unico fine l’accumulo di denaro e quindi di ricchezza, che non è naturale, non ha limiti, non serve la buona vita ed è dunque da disapprovare.
Già in Aristotele dunque, nel IV secolo avanti Cristo, si manifesta l’ambivalenza della moneta: istituzione politica e mezzo di circolazione; convenzione e merce; strumento di giustizia reciproca e patologia del desiderio. Da Aristotele in poi, nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, la stessa ambivalenza si approfondisce, si articola, soprattutto si ripresenta. Prendere per buona la definizione dell’Etica Nicomachea o, di converso, la nozione negativa di crematistica della Politica, significa fare del denaro un terreno di scontro normativo fondamentale o, piuttosto, il nemico da combattere.
Ma sono gli affondi su Locke e Fichte che rendono il libro di Eich irrinunciabile, perché di estrema attualità. Sia Locke che Fichte, infatti, pensano il problema del denaro nel mezzo di crisi monetarie, strettamente intrecciate con fratture rivoluzionarie e crisi belliche: la guerra tra l’Inghilterra e la Francia iniziata nel 1688, ovvero subito dopo la Gloriosa rivoluzione; la guerra rivoluzionaria esplosa nel 1792, che vedeva contrapposta la Francia alle potenze della reazione, tra queste la Prussia. In entrambi i casi, la rivoluzione scuote gli assetti istituzionali del mondo feudale, aprendo la strada alla piena affermazione della borghesia mercantile e finanziaria, prima, e della “grande industria”, poi. Ma è la guerra a imporre scarsità di moneta metallica e, di conseguenza, soluzioni monetarie inedite. Se i mezzi di pagamento (ordini di pagamento, lettere di cambio, ecc.) affondano le proprie radici nel commercio e nelle città tardo-medioevali, solo nel 1694 nasce la prima banca centrale, la Bank of England; se con John Law, in Francia e agli inizi del XVIII secolo, già era stata tentata la via della moneta fiat, slegata cioè dai metalli preziosi e dunque fiduciaria, è con gli assegnati emessi dalla Francia rivoluzionaria che il dibattito in merito coinvolge tanto l’Inghilterra, con Burke, quanto la Prussia, con Fichte.
L’ambivalenza della moneta: istituzione politica e mezzo di circolazione; convenzione e merce; strumento di giustizia reciproca e patologia del desiderio.
Il contributo di Locke alla teoria del denaro, considerato decisivo da Marx, incrocia pensiero speculativo e prassi. Di denaro e di interesse, infatti, Locke si occupa a partire dagli anni Sessanta del XVII secolo, quando, da Oxford, si trasferisce nella residenza di Anthony Ashley Cooper, cancelliere dello Scacchiere e Lord Proprietor della Carolina. Al servizio di quest’ultimo, Locke è inizialmente precettore e medico, poi consulente commerciale e politico, in particolare in merito all’iniziativa coloniale in Carolina. L’impegno nelle faccende coloniali è evidente, spesso esplicito, nel Secondo trattato sul governo (1689); trova nei pamphlet di contenuto economico e finanziario, però, la sua piena espressione. Nel primo di questi, quello scritto nel 1668, Locke chiarisce la doppia funzione del denaro: “contrassegno” nominale per “pareggiare i conti”, ma anche “garanzia” o “cauzione”. Nel primo caso, spicca la natura convenzionale e politica della moneta; nel secondo, decisivo quando gli scambi si fanno sempre più internazionali, domina il valore intrinseco della moneta. Se dunque la coniazione, per Locke, rimaneva prerogativa del sovrano, traffici d’oltre mare e amministrazione delle colonie imponevano vincoli molto rilevanti.
Con la Gloriosa rivoluzione e la guerra contro la Francia, quando la crisi monetaria si impone, Locke torna sulle questioni monetarie, sia perché coinvolto nella fondazione della Bank of England (1694) sia perché, con l’esplodere della crisi, la Corte d’appello promuove la costituzione di una commissione di esperti (1695); tra questi, Locke e Isaak Newton. Si formano due schieramenti: coloro che sostengono, con Newton, la svalutazione (riduzione della quantità di metallo prezioso presente nelle monete); coloro che invece sostengono, con Locke, la riconiazione secondo il vecchio valore elisabettiano. Vince lo schieramento di Locke, col governo che avvia la riconiazione in massa, nel 1696-1697.
Alla luce dell’affondo aristotelico che apre la ricerca di Eich, sorge però una domanda: per quale motivo Locke, pur facendo proprio il convenzionalismo aristotelico, combatte la soluzione nominalista (svalutazione)? Indubbiamente, come sopraindicato, l’esperienza diretta nell’amministrazione della Carolina sollecita problemi inediti, connessi principalmente con la funzione di garanzia esercitata dalla moneta, funzione di grande importanza per Locke sin dal pamphlet del 1668 (“…e quindi gli stranieri non possono mai essere obbligati ad accettare le vostre cambiali o ricevute in pagamento, per qualsivoglia sua parte, e sebbene forse potrebbero circolare come impegni valevoli fra il vostro popolo, ciò non impedirebbe affatto che esse vadano soggette a inevitabili dubbi, controversie e contraffazioni, e che richiedano per assicurarci del loro essere una valida e autentica garanzia altre prove che non i nostri occhi o una pietra di paragone”).
Seguendo l’originale linea interpretativa di George Caffentzis, però, Eich legge il pamphlet del 1695, quello che sostiene la battaglia politica di Locke in Inghilterra in generale e nella commissione più nello specifico, attraverso le lenti della sua filosofia del linguaggio, così come espressa nel Libro terzo del Saggio sull’intelligenza umana (1689). Al pari dei “modi misti” (“accozzaglie di idee messe assieme a piacimento dallo spirito”), malleabili e instabili semanticamente, la convenzione monetaria può generare contesa, disordine, irriducibile pluralismo. È vero dunque che il valore metallico della moneta è frutto di una convenzione, ma la stessa, una volta affermata, deve farsi rigida, quasi fosse divenuta un indiscutibile fenomeno naturale. La “politica della depoliticizzazione del denaro”, il monetarismo contemporaneo, secondo Eich prende le mosse proprio da Locke, nel 1695. La crisi monetaria, infatti, per Locke è anche e soprattutto una crisi di fiducia, effetto della Gloriosa rivoluzione: attraverso la moneta metallica forte, che colpisce debitori e commercianti, e che senz’altro affatica l’impegno bellico contro la Francia, ma che premia i creditori e i grandi proprietari, si ripristina la fiducia nel governo e si rafforza, al contempo, l’espansione coloniale della corona.
Il monetarismo contemporaneo è una “politica della depoliticizzazione del denaro”.
Un secolo dopo, a partire dalla Rivoluzione francese del 1789, e dall’introduzione da parte della stessa degli assegnati, il problema del denaro torna al centro della riflessione filosofica e politica. Il XVIII, chiarisce Eich, è il secolo nel quale comincia a crescere l’indebitamento degli Stati, con esso, il credito pubblico. La Francia rivoluzionaria, schiacciata dal debito mette in campo un’operazione che sarà bersaglio della critica affilata di Edmund Burke (1790): gli assegnati sono infatti cartamoneta che ha per corrispettivo l’esproprio dei beni della Chiesa. Del tema non si occupa soltanto Burke, seppur in modo tangenziale lo fa anche Kant, nella sua Metafisica dei costumi (1797). È nello scritto dedicato alla pace perpetua (1795), più in particolare, che Kant condanna l’uso bellico del credito pubblico, indicando nel rapporto tra finanza e guerra un circolo vizioso, necessariamente autodistruttivo.
Ma è un evento ulteriore, nel febbraio del 1797, a sollecitare gli sforzi speculativi sul denaro di Fichte: la Banca di Inghilterra dichiara la sterlina non più convertibile in metallo prezioso. Se la moneta fiat di Low e gli assegnati della Rivoluzione avevano nella terra il proprio corrispettivo materiale, la sterlina, dalla sera del 26 febbraio, ha come unico corrispettivo l’Impero, la fiducia nella sua stabilità. Dal 26 febbraio del 1797, per far fronte alle difficoltà della guerra (rarefazione del metallo prezioso imposta dall’aumento delle spese militari) e fino al 1821, una sperimentazione monetaria inedita prende piede. E soprattutto, ma è questo il punto decisivo, la sterlina non crolla: a un secolo dalla nascita della prima banca centrale, pur nel pericolo di una cocente sconfitta militare, la fiducia nei confronti delle istituzioni britanniche garantisce banconote la cui solidità non è più assicurata dall’oro.
Fichte è tra coloro che salutano con entusiasmo il successo britannico, ma fa un passaggio politico ulteriore: per un verso, ritiene la moneta fiat indispensabile per la creazione di uno Stato razionale, capace di generare un benessere sempre più esteso della cittadinanza; per l’altro, ritiene inseparabile la moneta fiat dalla chiusura, attraverso lo Stato, del commercio estero. La moneta fiat, per Fichte, è propriamente una moneta segno o simbolo della volontà politica dello Stato; lo Stato, in base all’espansione del commercio interno, deve saper regolare la quantità di moneta, aumentandola gradualmente.
È allora evidente che, con Locke e Fichte, siamo già nel dibattito contemporaneo: per il primo, la convenzionalità monetaria deve essere limitata dal parametro metallico; per il secondo, la stessa convenzionalità va esaltata attraverso il protagonismo attivo dello Stato. Echi della posizione di Locke, come suindicato, si ritrovano nel monetarismo novecentesco e del nostro tempo; mentre Fichte costituisce sicuramente un riferimento per Georg Friedrich Knapp, protagonista della scuola storica tedesca e letto con attenzione critica da Keynes.
Per Locke, la convenzionalità monetaria deve essere limitata dal parametro metallico; per Fichte, la stessa convenzionalità va esaltata attraverso il protagonismo attivo dello Stato.
Prima di arrivare al presente, Eich dedica due robusti capitoli a Marx e Keynes. Le pagine su Marx hanno molti pregi: mettono da subito all’angolo tutti quelli che riducono la sua a una teoria della moneta merce; chiariscono la ricerca febbrile e costante che Marx dedica al denaro e al credito; valorizzano il ruolo decisivo, in questa ricerca, della Banking School britannica di Thomas Took e John Fullarton; individuano nella teoria marxiana un tertium datur, alternativo sia alle teorie della moneta credito nominaliste che a quelle della moneta merce metalliste. Sono però pagine che non mettono a fuoco adeguatamente il concetto di denaro, propriamente politico, che Marx propone, in particolare nei Grundrisse: “il potere che ogni individuo esercita sull’attività degli altri o sulle ricchezze sociali, esiste in esso in quanto possessore di valori di scambio, di denaro”. Il denaro, per Marx, non è mai solo merce, mezzo di circolazione, ma sempre “potere sociale” e “simbolo” dello stesso, nonché, in quanto riserva di valore, oggetto di un desiderio senza limite, smodato.
La timidezza del capitolo dedicato a Marx viene dimenticata rapidamente, tanto sono vibranti le pagine dedicate a Keynes. Solo quest’ultimo, a parere di Eich, è capace di rendere nuovamente attuale la sfida di Aristotele: la moneta, convenzione politica, come strumento della giustizia reciproca. Il percorso di Keynes, per nulla lineare, è ricostruito in modo dettagliato e limpido al contempo: dalla Riforma monetaria (1923) al Trattato della moneta (1930), dallo scontro politico con Winston Churchill ai viaggi americani, dal conflitto teorico con August von Hayek alla Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta (1936), dall’affermazione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt a Bretton Woods. Keynes rapprende, in un’unica figura, genialità scientifica e capacità strategiche. Sconfitto a Bretton Woods, nel 1944, come d’altronde a Versailles nel 1919, fonda la macroeconomia e istruisce la svolta epocale che, dopo la Seconda Guerra mondiale, rende possibile i “Trenta gloriosi”. Con lui, e soprattutto dopo di lui, nulla nel pensiero e nella pratica economica sarà più come prima.
Dopo Versailles, Austria e Germania, ovvero le potenze sconfitte e punite dai trattati di pace, sono destabilizzate da un’inflazione senza precedenti. Inflazione che dilaga un po’ ovunque e che genera reazioni politiche molto dure, nel senso del ripristino del Gold Standard andato in frantumi durante la Grande Guerra. Nel 1923, col suo La riforma monetaria, Keynes propone una “gestione discrezionale attiva della moneta”; solo in questo modo, afferma, la moneta può essere stabile, senza che ciò comporti depressione e aumento della disoccupazione. La gestione diretta dell’offerta di moneta, attraverso il tasso di interesse, sollecita un protagonismo politico decisivo delle banche centrali. Un intervento attivo che senz’altro rompe con il laissez-faire ottocentesco, aprendo la stagione della macroeconomia e, con essa, di un nuovo rapporto tra Stato e mercato; ma al contempo alternativo alla pianificazione che si va consolidando in Unione Sovietica. Intervento che avrebbe da subito preteso l’abbandono della regola aurea: Keynes invece, almeno in prima battuta, perde lo scontro con i metallisti del suo tempo, Winston Churchill tra questi. Anche alla luce della sconfitta, Eich legge l’elaborazione delle tesi forti che qualificano il Trattato della moneta, opera nella quale Keynes si misura tanto con la scuola storica di Knapp, quanto con la teoria della moneta credito di Knut Wicksell. Unità di conto utile ad annotare debiti e crediti, la moneta è in primo luogo un’istituzione politica; con l’affermazione delle banche, però, si afferma una moneta nuova, creata ex nihilo dalle banche stesse: il ruolo politico, costituzionale, delle banche centrali è per Keynes urgente.
Il Trattato della moneta esce nel 1930, intanto, nel mese di ottobre del 1929, Wall Street crolla. La crisi finanziaria si trasmette rapidamente all’economia reale; si tratta di un crollo senza precedenti, con disoccupazione di massa e povertà generalizzata, negli Stati Uniti e in Europa, nell’Occidente tutto. Nel 1931, Londra abbandona il Gold Standard; nel 1933, stessa cosa fanno gli Stati Uniti: la depressione impone la soluzione da Keynes proposta un decennio prima. L’abbandono della gabbia aurea, che sancisce anche la fine dell’egemonia britannica, non basta però a risollevare l’economia. Sono questi gli anni in cui Keynes elabora le idee contenute nel suo capolavoro del 1936, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Dalla politica monetaria alla politica fiscale: soltanto attraverso la “socializzazione” degli investimenti, attraverso uno stimolo pubblico/fiscale degli stessi, chiarisce Keynes, è possibile tenere a freno l’incertezza, far ripartire l’occupazione e, di conseguenza, i consumi. L’applicazione delle politiche ispirate alla Teoria generale in un primo momento si combina con la catastrofe bellica, per poi divenire il fondamento del Welfare State, negli Stati Uniti e in Europa. Keynes, però, ha da subito chiaro che, senza un adeguato accordo monetario internazionale, l’autonomia di bilancio al livello nazionale è più limitata. Per questo motivo, combatte alacremente a Bretton Woods, quando nel 1944 si riscrivono le regole finanziarie del mondo occidentale.
Keynes ha da subito chiaro che senza un adeguato accordo monetario internazionale l’autonomia di bilancio al livello nazionale è più limitata.
Keynes perde anche a Bretton Woods, ma la sua proposta economica e politica è egemone fino alla crisi, energetica e inflattiva, degli anni Settanta. Da allora, col trionfo della scuola monetarista di Milton Friedman (Nobel nel 1976), con la violenta stretta deflattiva di Paul Volcker (Presidente della Fed a partire dall’agosto 1979), torna in auge la moneta forte, pur se in un regime di moneta fiat e cambi fluttuanti (dall’agosto del 1971). Ma il punto essenziale, sul quale si concentrano le pagine finali del libro, è una rinnovata politica che depoliticizza la moneta, cancellando la democrazia economica e sostanziale. In questo senso, la proposta di Eich, seppur non inedita, è di grande attualità: la mescolanza tra crisi pandemica e climatica, inflazione e guerra, pretende una radicale inversione di rotta, che solo una effettiva democratizzazione della moneta e dell’economia può favorire.