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uando Alessandro Magno si accorse che tra i personaggi illustri di Corinto, l’unico che non si era presentato per omaggiarlo era il filosofo Diogene di Sinope, andò lui stesso a cercarlo. Trovatolo disteso al sole, l’imperatore si offrì di esaudire qualunque richiesta e così il filosofo rispose che, sì, Alessandro poteva fare qualcosa per lui: spostarsi, dal momento che gli stava facendo ombra.
Questo celebre episodio narrato da molti storici antichi è passato alla storia come emblematico nella comprensione di quel poco della filosofia cinica che è sopravvissuto alla storia. Proprio in questa corrente, tesa al primato della vita pratica su quella teorica, l’autore del Tascabile Franco Palazzi rintraccia la radice di un atteggiamento antagonistico che fa dell’oppressore il bersaglio della rabbia e di un’irriverenza dissacrante in grado di produrre una postura radicale dell’agire politico.
La politica della rabbia. Per una balistica filosofica è un saggio che si prefigge di risemantizzare la rabbia all’interno del discorso politico. A partire dal modello dei cinici rintraccia tre modelli coerenti con questa prospettiva (Valerie Solanas, Malcom X e Audre Lorde) e passa poi a definire e individuare come una prassi rinnovata della rabbia esista oggi e possa esistere nel futuro, calcando le orme di movimenti contemporanei, in particolar modo quello femminista di Non Una di Meno.
Nel tuo saggio scrivi che la filosofia intrattiene una relazione “mancata” con la rabbia, da sempre indagata “con la lente della condotta morale individuale, senza interrogarsi sulle implicazioni più propriamente politiche”; eppure il tuo testo – il cui intento è peraltro sbilanciare il rapporto tra teoria e prassi in favore di quest’ultima – è puntellato di riferimenti teorici a Benjamin, Foucault, Cartesio e altri. Perché oggi necessitiamo di una filosofia della rabbia?
Ho articolato il testo in tre parti. Un primo nucleo che in qualche modo sollevasse il problema, avanzando una proposta sì teorica, ma con dei riferimenti importanti alla prassi. L’idea era poi di aggiungere a questa prima parte un secondo nucleo che raccogliesse dei casi di studio, ma fosse anche un modo per capire dove rintracciare quella “forma di vita” tipica di una certa espressione della rabbia che volevo indagare. Il terzo passaggio è invece un intervento nell’attualità che però, a differenza della prima parte, prova ad essere più approfondito e sistematico. Va da sé che i riferimenti filosofici sono stati la necessaria cassetta degli attrezzi per costruire il libro più che motivi ispiratori veri e propri, che devo invece da un lato all’incontro con alcuni movimenti sociali come Black Lives Matter e Non Una di Meno, dall’altro ad una serie di aporie che mi sembrano gravare sul dibattito pubblico soprattutto in Italia, dove paradossalmente ancora più che negli USA direi ci sia un ritardo molto forte nel concepire il rapporto tra emozioni, sentimenti e politica come non esclusivamente reazionario e irrazionalistico. Questo è probabilmente dovuto al fatto che, da noi, tanto il dibattito accademico quanto quello mainstream hanno dimenticato una certa dimensione emotiva dell’agire politico che altrove è oggi più connaturata ai movimenti. Da queste premesse si può intuire la strategia del libro rispetto alle questioni toccate dalle tue domande: per far dialogare filosofia politica e rabbia occorre far entrare la prassi politica come medium tra le prime due. D’altro canto, per dare spazio e risalto a quelle pratiche politiche che oggi fanno un uso egualitario della rabbia bisogna difenderne la legittimità e il valore, compiti che solo una teoria della rabbia può assumere pienamente.
Uno degli aspetti che rimane forse un po’ poco centrale nel tuo testo, ma che a mio avviso è fondamentale per comprenderne gli argomenti, è la distinzione tra “odio” e “rabbia”. Una differenza che oggi è invece poco chiara nella lingua politica comune, basti pensare alla continuità semantica in cui convivono categorie come haters e angry white male. Dove conduce la differenziazione dei due concetti?
Questa è una domanda che si lega senz’altro all’attualità degli ultimi giorni. Cosa alberga in episodi come la
vandalizzazione della CIGL a Roma? Dobbiamo leggere l’emotività che guida fatti simili come politicamente sbagliata perché si tratta, appunto, di odio e non di rabbia, oppure potrebbe trattarsi di una rabbia male indirizzata? Io nel libro propongo la metafora della balistica proprio per sottolineare l’importanza di dirigere bene la rabbia, capire da chi parta, verso chi sia rivolta, comprendere quali possibilità di colpire il bersaglio abbia, e così via. Rabbia e odio, poi, hanno due nature completamente diverse; nella prima infatti c’è una forza dinamica, intesa proprio nel senso di potenza cinetica, nell’odio c’è invece un’energia che ristagna, che non ha uno sbocco oppure, se lo ha, porta sempre allo stesso risultato, segue sempre il medesimo schema. Inoltre, la rabbia può anche instaurare una dialettica – come dico nel capitolo su Audre Lorde, in cui la rabbia verso le sue alleate valeva quanto quella verso gli avversari politici –, l’odio no. La rabbia è un elemento che chiama in causa la posizione dell’altra e ammette che tale posizione possa cambiare in risposta alle nostre sollecitazioni, oppure possa generare una reazione che apra un dialogo; da un gesto di rabbia può scaturire una risposta attraverso cui ci sarà– come sosteneva di nuovo Lorde – una reciproca trasmissione di informazioni. Al contrario, nell’odio c’è una sorta di opposizione frontale tra due posizioni che si vogliono predeterminate; il soggetto che odia si rappresenta l’oggetto del suo odio come immutabile e così l’unica soluzione politica di tale sentimento è lo scontro e l’annientamento di una delle due parti – se non una reciproca eliminazione. Mi sembra di poter dire che, se vogliamo ragionare su una categoria come quella di fascismo, allora è proprio l’emotività fatta di odio a caratterizzarlo.
Eppure la percezione comune è che molti movimenti per i diritti oggi abbiano atteggiamenti di odio verso i loro avversari, proponendo soluzioni abolizioniste, ad esempio contro la famiglia, contro il carcere, contro figure e istituzioni del passato (penso alla questione delle statue). Questo spaventa molto l’opinione pubblica. Secondo te come si concilia la forza progressista della rabbia con queste attitudini che sembrano invece rifarsi all’odio politico?
La differenza centrale è che nell’abolizionismo di cui parli il bersaglio è una struttura istituzionale e non una categoria identitaria o un gruppo di persone. Ciò che si vuole abolire non è, ad esempio, una categoria di persone razzializzate, ma un’istituzione che si ritiene razzialmente discriminatoria. Dal punto di vista più teorico c’è un passaggio interessante alla fine del corso parigino di Foucault del 1976 Bisogna difendere la società dove il filosofo si chiede se esista un razzismo di classe – o, più esattamente, un razzismo socialista. Così come il razzista odia colui che identifica come appartenente a una razza inferiore, esiste un odio simile nella lotta tra le classi, un odio verso i borghesi da parte dei proletari? Foucault afferma quasi controvoglia (vista la sua distanza nei confronti del marxismo francese) che, se pure si può parlare di razzismo socialista in casi come lo stalinismo, all’interno del pensiero marxista (a differenza che in quello dell’estrema destra e persino di quello liberale) non c’è alcun bisogno del sentimento razzista dell’odio. La lotta di classe mira ad abolire le classi in quanto tali, oppressori e oppressi, e nella lettura marxista questa abolizione non passa per l’eliminazione fisica dei capitalisti, ma dalla collettivizzazione dei mezzi di produzione. Ecco che allora potremmo dire che nel momento in cui i mezzi di produzione sono collettivizzati non ci sarebbe motivo di odiare l’individuo che prima era un capitano d’industria. Si potrebbe aggiungere quindi che la categoria di odio di classe – spesso citata ma curiosamente quasi mai concettualmente sviluppata in profondità – è internamente contraddittoria perché proprio nel pensiero marxista e marxiano forse più che di odio sarebbe opportuno parlare, appunto, di rabbia, cioè di qualcosa che si rivolge ai ruoli sociali con cui abbiamo a che fare – che non è un atteggiamento per forza nonviolento, questo è importante dirlo, ma la violenza non è mai indirizzata nei confronti della persona in quanto tale.
Proprio il discorso attorno alla violenza è un altro nodo centrale del tuo saggio: per sviluppare a pieno la potenzialità politica della rabbia, bisogna essere in grado di accettare e praticare anche atti di violenza, sganciandoli dalle accuse preventive che da ogni parte fioccano a bloccarne il potenziale. Tutto il tuo libro è poi disseminato di esempi e rimandi ad una dimensione più o meno violenta della rabbia – soprattutto nella parte centrale, dedicata a tre figure emblematiche come Solanas, Malcom X e Audre Lorde. Quali implicazioni a livello sociale ha parlare di violenza?
Il punto di partenza di qualunque riflessione sensata sulla violenza è riconoscere che la società è già violenta. Nel discorso pubblico sembra sempre di poter valutare la violenza politica contrapponendola a un contesto che da essa è estraneo – come fosse un termine da introdurre nel sistema, altrimenti inesistente. Io credo che empiricamente, ma anche teoricamente, questa cosa sia completamente falsa e che, per dirla con
Cedric Robinson, il concetto di ordine pubblico sia già di per sé ideologico, dal momento che la nostra società non è affatto ordinata. Nelle nostre menti si annida l’idea che una società disordinata possa essere la peggiore delle anarchie, simile allo stato di natura hobbesiano, ma la condizione in cui viviamo non è affatto ordinata come pensiamo che sia. In primo luogo perché è una società in cui esiste una fortissima diffusione di violenza a livello micropolitico – pensiamo alle morti sul lavoro e ai femminicidi – e poi perché chiaramente ci sono delle possibilità centrifughe e centripete di disordine – pensiamo ai fatti della CIGL di cui parlavamo poco fa. Penso che i fenomeni che danno forma e albergano nella nostra società, sia nelle loro componenti più stabili che in quelle maggiormente inclini al disordine, siano caratterizzati da una violenza che va molto in profondità. È Žižek a impostare la differenza tra una violenza soggettiva e una oggettiva, ossia tra una violenza a cui è facile attribuire un soggetto individuabile e una immanente alle strutture di oppressione della società, che quindi non ha dei responsabili individuali nemmeno da un punto di vista ideologico – come accade per il patriarcato o il capitalismo. La società dunque è di per sé meno ordinata e più violenta di come la raccontiamo e da ciò possiamo dedurre di avere chiaramente una soglia di tolleranza nei confronti di certi fenomeni violenti ben più alta di quanto pensiamo. Detto questo, un sentimento come la rabbia non è inevitabilmente violento nelle sue manifestazioni – questo è ad esempio chiaro in un movimento come NUdM, che è molto radicale nelle sue posizioni politiche ma che fa un uso sporadico e largamente simbolico della violenza. Però, nel momento in cui ci rendiamo conto che la società ammette, tollera e spesso incentiva tutta una serie di istanze disgregatrici dei legami sociali, allora anche il discorso inerente a una possibile violenza politica agita tramite un uso radicale della rabbia diventa molto più relativo. Bisognerebbe ad esempio ragionare se l’uso di una violenza simile non potrebbe prevenirne di maggiori, come avviene nel caso di Black Lives Matter negli USA, che reinterpretando lo strumento della rivolta urbana usa una violenza contro le cose, strumentale a ridurne una contro le persone. I fatti attorno a BLM sono un caso in cui è lampante l’assenza di un’opposizione manichea tra violenza e non violenza, e in cui invece coesistono due usi distinti della violenza – quello della polizia e quello di alcuni manifestanti – con diverse conseguenze sul piano sociale. Proprio questa violenza contro le cose, nell’ambito di una risignificazione della rabbia, penso che possa essere piuttosto razionalizzata e accettata dalla società.
Eppure il tuo libro si apre citando l’episodio delle fioriere fiorentine. Il discorso in merito allo spazio urbano si traduce necessariamente in termini politici, la città è il terreno in cui il potere estrinseca la sua attitudine normatrice, cioè l’ordine di cui ragionavi prima. È proprio contro questo controllo, nascosto dalla maschera del decoro pubblico, che nasce l’azione dei movimenti citati, condotta attraverso la riappropriazione del diritto a interagire con lo spazio, anche in maniera violenta. Ma il potere non può né vuole tollerare e comprendere una violenza contro le cose, basti pensare al G8 di Genova, dove a fronte di omicidio e torture delle forze dell’ordine, sono state comminate pene ai manifestanti per “devastazione e saccheggio”. Mi sembra di poter dire che lo spazio pubblico sia la prima linea del fronte di questa lotta, siamo ancora inchiodati lì.
Se possibile, vorrei complicare ancora di più il quadro già ricco che tratteggi. Non parlerei di “potere” al singolare e con l’articolo determinativo – il presentarsi come gli unici sulla piazza non è che una peripezia di certi poteri particolarmente inclini alla millantazione, che per ironia della sorte spesso non sono nemmeno i più “potenti” (quelli amano l’invisibilità e l’astrazione). Penso al potere, per restare a Foucault, alla stregua di qualcosa che circola, che funziona in una rete di spinte tra loro anche contrarie. Nello spazio pubblico come altrove, c’è una pluralità di poteri. Persino il potere nella sua accezione più manesca e incline all’arbitrio, quello della polizia, non è l’unico negli scenari urbani – Black Lives Matter è lì a dimostrarlo. Esistono poteri per cui la violenza contro l’arredo urbano in risposta a un omicidio razzista è più grave della violenza razzista stessa (l’episodio di Firenze) e altri con una diversa gerarchia di priorità – le migliaia di persone che nei giorni seguenti scesero in strada al fianco della comunità senegalese. Ciò che bisogna evitare è un approccio statico (e in ultima analisi anti-strategico) alle manifestazioni di potere nello spazio pubblico, per cui una dimostrazione violenta sarebbe sempre più radicale di una non violenta o viceversa (staticità che criticava magistralmente già Luk
ács). Un solo sciopero femminista di Non Una di Meno vale più di tutte le vetrine spaccate dal cosiddetto Black Bloc – non perché le due cose siano necessariamente in contraddizione, ma perché da un lato c’è una ricchezza di repertori di riappropriazione dello spazio pubblico, dall’altro l’ingenuità di chi crede che la medesima tattica (per giunta non estranea a una visione molto maschile e maschilista e dell’attivismo) possa funzionare in qualunque contesto.
Una cosa che si ricorda di rado di Genova è che il potere brutale di quei giorni, il potere che tortura e uccide, era allo stesso tempo un potere impaurito, vacillante, ridicolo. Tra le ingiustizie più grandi subite dal “popolo di Genova” c’è stata, da parte di pezzi significativi della società civile italiana (penso ai grandi media) l’affermarsi della narrazione che quel giorno si sia consumato una sorta di derby e che, pur meritando un paio di cartellini rossi in più, l’abbia vinto meritatamente lo stato contro i e le manifestanti. Che i successivi percorsi di vita delle persone che nel 2001 protestarono contro il G8 – percorsi spesso ricchissimi e socialmente impegnati, come ci ricorda Gabriele Proglio nel suo recente libro – ammontino a una sconfitta mentre la stolida impunità del celerino che inneggia a Pinochet sarebbe una vittoria è, prima che una inaccettabile semplificazione manichea, una menzogna. Lo stato di polizia, che sia quello di Genova o quello che dall’altro lato del Mediterraneo ha ucciso Giulio Regeni, rimane, nelle parole di Paolo Virno, una “banda di periferia”: brutale e pericoloso come solo certe bande sanno essere, ma marginale rispetto a qualunque cosa sia politica. Mi sembra che la pratica della politica contro quella della polizia sia, seguendo Rancière, il modo migliore di rivendicare lo spazio urbano e non solo – e lo sia tanto più se consideriamo la polizia non solo come un’istituzione da riformare radicalmente e in ultima analisi da abolire, ma anche come il principio antipolitico per eccellenza, la difesa violenta di una distribuzione iniqua delle risorse di ogni tipo. Curiosamente, in questa accezione filosofico-politica la polizia corrisponde alle sue origini storiche come forza dell’ordine che reprime chi mette in discussione i rapporti di proprietà: gli schiavi che fuggivano dalle piantagioni negli Stati Uniti, i primi sindacati di massa in Europa. Di questa pochezza costitutiva del potere poliziesco ampiamente inteso non dovremmo mai dimenticarci. Sottovalutarlo mai, irriderlo sempre.
Le manifestazioni di rabbia che abbiamo osservato invece nel caso della CIGL e più in generale la rabbia cavalcata dai populismi di turno, informata dalla paura della perdita dei propri privilegi, sembrano però scaturire e dirigersi spesso in una dimensione dispersiva, nichilista e distruttiva più che rivoluzionaria. Mi sembra, cioè, che nell’orientamento del “popolo arrabbiato” la matrice sia oggi poco dinamica o radicale e molto passiva. Penso a quello che Fisher chiama “impotenza riflessiva” oppure a tutto il filone di pensiero sull’induzione del desiderio, come gli studi di Byung-chul Han o di Žižek, che illustra come i desideri eterodiretti dal capitale finiscano col creare una condizione sociale favorevole alla conservazione dello stesso, un clima di assuefazione, ma soprattutto di impotenza. Da qui, il problema col desiderio. A loro volta, questi concetti mi paiono collegarsi, negandolo, all’attributo di cura di sé che la rabbia possiede (e che tu esemplifichi attraverso le figure di Malcom X e di Audre Lorde), componendo un quadro dove desiderio, rabbia e cura di sé e degli altri sono elementi disgiunti che vanificano i presupposti radicali della rabbia di cui parliamo. Quali sono dunque i rapporti tra questi tre elementi e come possono essere ricollegati tra loro?
Il concetto di cura di sé è ciò che nella mia proposta può fare da tramite tra teoria e prassi. I rischi di un loro isolamento sono da un lato la riduzione di una critica teorica anche radicale a merce più esotica sullo scaffale del supermercato, dall’altro quello di una prassi anche antisistemica ma deficitaria di autocoscienza. In questo contesto un concetto come quello di cura di sé, che rileggo sulla scia di Foucault, mi sembra un modo per provare a mettere in comunicazione gli elementi di questo quadro. E in ciò la rabbia diviene elemento costitutivo della cura di sé, da un lato perché essa si sottrae alla logica individualizzante neoliberale del “prendersi cura di sé” inteso come wellness (legato a un’estetica ridotta ad antitesi dell’etica), e dall’altro perché essa si può tradurre nella cura dell’altro e dell’altra, in un’ottica dialettica. Parliamo quindi del prendersi cura non nel senso di essere imprenditori di se stessi, ma di una riscoperta del proprio valore intrinseco, del proprio godimento, e anche della capacità di guardare verso gli altri e le altre in un modo che non è paternalistico o filantropicamente conservatore, ma radicale.
Oltre a ciò bisogna emendare un concetto vecchio – medioevale – tutt’oggi latente, quello di “servitù volontaria”, l’idea cioè che la società sia basata su forme di ingiustizia e oppressione in larga parte dovute alla mancanza di indipendenza e senso critico di chi le subisce, che non si renderebbe conto di come a tenerle in piedi sia soltanto la propria adesione acritica. L’idea di volontà che sta dietro a tale concetto è problematica perché rimanda a un individuo caricaturale, che ha sempre chiari i suoi desideri, non tentenna mai tra un sì e un no né si lascia influenzare da volizioni diverse dalle proprie (un’immagine che ad esempio il femminismo ci spinge a rigettare). Quello che io provo a dire al riguardo, mutuando la critica che Frédéric Lordon fa di tale concetto, è che non esiste servitù volontaria in questa accezione monolitica: la servitù è sempre desiderante, passionale. Non esiste insomma una servitù che appartenga a un sé del tutto autosufficiente: essa è sempre mediata da un groviglio di desideri, bisogni, relazioni. Ecco dove si colloca il desiderio nel mio discorso, la cui lettura a questo punto non è unicamente positiva. Nonostante io creda, con Deleuze, nella sua produttività, non è detto che ciò che il desiderio produce sia per forza buono, che sia immune da contro-effetti; credo piuttosto che ribellione e servitù abbiano entrambe a che fare con esso.
Alla condizione di passività di cui parlavo, però, andrebbe aggiunta anche una riflessione in merito al ruolo e alla figura della vittima. Come ha scritto Daniele Giglioli, essere vittima è oggi insieme tutela e garanzia di sopravvivenza e di purezza; essere vittime “immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio”. Unita al torpore indotto di cui si discuteva, la dimensione vittimistica può essere un potente deterrente dall’intraprendere una prassi radicale, una vita attiva come la descrivi, depotenziando la rabbia e mutandola in odio – rafforzato proprio dall’autonarrazione vittimistica – oppure, addirittura in risentimento.
Posto che movimenti come NUdM secondo me spezzano questa retorica vittimistica dal momento che rompono il nodo gordiano tra colpa e debito e che di questo scrivo nel libro anche in risposta a Giglioli, mi interessa parlare qui della cosiddetta classe media, quella specie di ammasso indistinto oggi sempre più vasto in cui troviamo però una forte differenziazione. In merito, c’è stata in anni recenti una mossa interessante ma direi inefficace riguardo il lavoro intellettuale, che hanno fatto autori come Raffaele Alberto Ventura. Parlare infatti di “classe disagiata”, quindi riconoscere che nell’Italia di oggi non ci siano i margini per lavorare in tante e tanti nella cultura ricevendone un trattamento materiale decente, è sì un modo per uscire da questa rappresentazione vittimale (della serie: “sapevamo che sarebbe stato difficile e abbiamo voluto provarci lo stesso”), ma si ferma a questo punto, rischiando di perdere di vista un insieme di fattori fondamentali tra cui, ad esempio, il riconoscimento di quella vulnerabilità costitutiva propria di un certo tipo di sfruttamento lavorativo. Cioè, è vero che non è più possibile immaginarsi un’intellettualità di massa fuori dallo sfruttamento economico neoliberale, ma questo è precisamente il problema, ciò che svela cosa non va nel sistema; è il problema di un sistema che ha più bisogno di operai e contadini che sgobbino per quarant’anni che di persone che si dedichino a studiare per quel lasso di tempo. La critica non va esposta dunque contro chi desidera, ad esempio, arrivare ai più alti gradi dell’istruzione o della vita culturale, piuttosto andrebbe – anche qui, balisticamente – indirizzata contro chi rende quella dimensione un bene di lusso. Mi sembra che in molte riflessioni questo passo non avvenga.
A ciò aggiungerei che, pur non confidando nella retorica di una popolazione composta per il 99% di persone uguali e sfruttate contro il restante 1%, devo dire che se vogliamo realmente fare un salto in una direzione egualitaria è necessario un doppio movimento. Da un lato, si tratta di recuperare la formulazione marxiana di forza lavoro, ossia l’idea per cui un lavoratore è caratterizzato da attitudini sia fisiche che psichiche, sgomberando così il campo da ogni facile binarismo corpo/mente e da quello, collegato, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Dall’altro, occorre riconoscere che il raccoglitore di pomodori e il ricercatore universitario condividono sia un tipo di sfruttamento lavorativo con delle forti ripercussioni anche sulla loro psiche (ne parlavo in Tempo presente), sia una serie di differenze che li portano a vedersi come contrapposti, ma che sono funzionali al capitale stesso – Lisa Lowe parla in questo senso di una “produzione sociale della differenza” nel capitalismo. È chiaro poi che le due figure che ho appena nominato non andrebbero meramente sovrapposte tra loro e in proposito c’è chi, parafrasando Sartre nell’introduzione ai Dannati della terra di Fanon, pur partendo da una posizione di solidarietà e alleanza dovrebbe capire di non essere il soggetto centrale di una lotta e tendere la mano, sapendo però che questa potrebbe essere mozzata invece che presa dalla categoria più oppressa (e che sarebbe già un passo in avanti). Questo gesto di presa di coscienza e autocritica è però tutt’altro che vittimistico e perciò non sfocia nel risentimento. La vittimizzazione infatti, quando è agita da un soggetto privilegiato, rimanda al risentimento per il rischio della perdita di una prerogativa gerarchica ed è proprio in questo contesto che bisogna rompere – come ribadisco fa NUdM– con quelle categorie di colpa e debito che hanno contribuito a creare un rapporto subdolo tra vari tipi di oppressione.
A questo punto è lecito chiedersi a chi appartenga la rabbia. La rabbia è un diritto di pochi?
Qui ci sono di nuovo due rischi da evitare. Il primo è che appartenga solo a quei soggetti che nell’immediato potrebbero vedersela tollerare, ossia dei soggetti privilegiati; il secondo è la tentazione della cosiddetta idendity politics nella sua accezione più deteriore, per la quale la rabbia apparterrebbe soltanto a quelle soggettività che sono, dal punto di vista intersezionale, oppresse su una molteplicità di piani – in altre parole pensare che se si è oppressi “soltanto” in termini di classe, razza o genere, non lo si è abbastanza per guadagnarsi il “diritto” alla rabbia. Anche qui allora parlare di balistica significa concentrarsi su quella che è la direzione della rabbia; se essa cioè è posta a difesa di un privilegio costituito oppure lamenta una mancanza di uguaglianza, di pari diritti e così via. La mia analisi sociale di fondo in questi termini è materialistica, nel senso che le forme di oppressione di cui io parlo hanno una brutale oggettività. La cosa curiosa della nostra epoca, invece, è che proprio manifestazioni di oppressione così facili da individuare poiché sotto gli occhi di tutte e tutti (per esempio il razzismo osservabile su un treno, o l’etero-sessismo delle molestie per strada,), sono quelle che un certo pensiero “di sinistra” oggi derubrica come simboliche, descrivendole come “culturali”, ossia supponendole immateriali, come se non possedessero dimensioni estremamente tangibili o andassero ad aggiungersi e intersecarsi con il “tradizionale” sfruttamento lavorativo. Se si prendono in considerazione dunque le intersezioni, ma anche la materialità degli scenari, è possibile intuire quando un tipo di rabbia si fa universalistica, nell’intento di espandere indefinitamente il novero di chi accede a un diritto o a una risorsa, oppure quando essa è aristocratica o conservatrice. Ecco che ritorna quell’abolizionismo di cui discutevamo: movimenti come NUdM e BLM vogliono l’abolizione di specifiche strutture di oppressione , ovvero l’uguaglianza attraverso una rabbia che come scrivo è negativa non nella misura in cui vuole rovesciare il presente capovolgendolo (la negazione come contrario, il dominio delle donne come risposta a quello degli uomini), ma nega l’ingiustizia presente, aprendo l’orizzonte delle alternative (la negazione come diversità, e quindi fra l’altro come superamento del genere in quanto criterio di discriminazione sociale).