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unedì 15 dicembre 1969, a tre giorni dalla bomba di Piazza Fontana, nel giro di una giornata succedono un paio di cose che continuano a influenzare la storia del nostro Paese. Al mattino Valpreda viene arrestato, e da quel momento inizia un lungo percorso di persecuzione giudiziaria; Pinelli è ancora in questura, e non immagina che si tratti delle sue ultime ore. Nel frattempo, a poche centinaia di metri di distanza, nel Duomo di Milano e nella piazza che lo ospita, vengono celebrati i funerali per le vittime.
Le foto e i video di quella mattina sono agghiaccianti. Tutti gli italiani, grazie all’unico canale della RAI, possono vedere sotto il cielo basso di quel giorno quasi mezzo milione di milanesi in silenzio, chiusi nei cappotti in una pozza di nebbia; non si sollevano cori o applausi, o bandiere. In quel momento, in Veneto, tra gli spettatori del funerale c’è Guido Lorenzon (28 anni), un professore che insegna francese in una scuoletta vicino a Treviso. Assiste ai funerali insieme ai suoi studenti, a fatica.
Sabato 13 dicembre, il giorno dopo la strage, Lorenzon aveva incontrato un suo amico, un ragazzo che conosceva dai tempi del collegio e che aveva ritrovato come libraio, editore (e anche filosofo, per velleità). Questo suo amico, Giovanni Ventura, l’aveva invitato per una chiacchiera, e sembrava molto agitato. Ancora dopo mezzo secolo dai fatti, per Guido Lorenzon non è facile parlare di tutto quel che è successo: quel sabato di cinquant’anni fa aveva capito che un amico, una persona di cui si fidava, era un terrorista nazifascista. Mesi, anni dopo, si sarebbe scoperto che Giovanni Ventura era uno dei membri più rilevanti del gruppo veneto di Ordine Nuovo, l’organizzazione di estrema destra extraparlamentare più influente dei cosiddetti anni di piombo, responsabile di decine di attentati esplosivi contro civili; Ventura era uno dei responsabili della morte di italiane e italiani, cittadini della Patria che gli ordinovisti dicevano di onorare. Il professore, Guido Lorenzon, in quell’aula di francese decise di diventare un testimone; e non ha smesso di esserlo, ancora oggi, alle soglie dei suoi ottant’anni.
Partirei da quel 13 dicembre, il sabato, il giorno del colloquio con Ventura. Che cosa ricorda di quel giorno?
Ricordo bene quel giorno. Ero ancora sconvolto per quello che era successo. Ho incontrato Giovanni Ventura nel suo ufficio a Treviso, era agitato anche lui… mi disse “la polizia sta cercando a destra e a manca, dappertutto”, che c’erano visite nelle case, eccetera. Gli ho chiesto cosa fosse successo. “Lo sai cos’è successo. Se però non basta bisognerà fare qualcos’altro”. Gli ho chiesto se avesse informazioni, almeno rispetto a chi fosse stato. Mi disse che se me l’avesse detto, non sarebbe più stato un rivoluzionario.
[Ci sono, nella nostra intervista, diverse interruzioni, emozioni, a distanza di mezzo secolo dai fatti.]
Eravamo a Treviso, nell’ufficio di Ventura in città, vicino a Piazza Pola.
Passiamo a qualche giorno più tardi, è il 15 dicembre. Lei si trova a scuola, con la sua classe di francese, e alla televisione mostrano i funerali per le vittime della Strage. Cosa ricorda di quel lunedì, invece?
Sì, lunedì 15 dicembre 1969 mi trovavo in un’aula delle scuole medie di Arcade, in provincia di Treviso. All’improvviso il bidello bussa la porta e ci dice che in televisione stanno mostrando in diretta i funerali per le vittime della Strage di Piazza Fontana. Mi trovavo nell’aula provvista di televisore, e per questo si decise di unire altre classi per assistere insieme alla cerimonia. Sono arrivati altri ragazzetti di altre classi, e abbiamo seguito in un silenzio irreale, lo stesso silenzio che c’era in quella piazza a Milano, quello che succedeva. Mi ha impressionato molto l’atteggiamento dei ragazzi: avevano capito subito cos’era successo, ed è in quel momento che ho deciso di dire quello che sapevo, fosse o meno utile a scoprire i colpevoli.
Non è esagerato ritenere, quindi, che quel momento in classe sia stato decisivo. Già nei giorni precedenti però, almeno immagino, il pensiero le girava in testa. Ma da quel momento è nata una catena di eventi che non è ancora finita.
Non è ancora finita. In quel momento mi sono accorto che avevo capito che nel pomeriggio avrei deciso – più che cosa fare – come farlo. Il dubbio sul farlo o meno, il cosa, l’avevo superato quella mattina. È probabile che senza quel momento in classe nel pomeriggio avrei preso la stessa decisione, magari, ma resta il fatto che vedere i funerali con i ragazzi è stato un punto di non ritorno.
Lei quel giorno da professore è diventato testimone, è cambiato il suo status, l’abito da presentare in società. Una nuova identità che, volente o nolente, l’ha accompagnata per tutta la vita. Lei si sente ancora un testimone vivente di qualcosa? O è un’identità che si sgretola nel tempo?
Mi sento ancora il testimone di allora, di quando ho deciso di diventarlo. Un testimone spontaneo, volontario… Ho preso l’iniziativa di riferire a un avvocato, un esperto, quello che mi era stato raccontato in modo da reperire una prima valutazione. Perché non è stato facile arrivare a un momento in cui tu decidi di compiere il tuo dovere di cittadino. Non è facile. Quelle che vedevo intorno erano tante e piccole cose che accadevano l’una dopo l’altra: nessuna delle cose che Ventura mi ha raccontato o mostrato era di per sé un motivo per – lo dirò banalmente – andarlo a denunciare. La Strage di Piazza Fontana ha messo insieme tutte queste cose, e lì per me non era più possibile non compiere il mio dovere, cioè andare da un legale per capire come muovermi, e quindi andare dalla magistratura. Tanto più che a un certo punto gliel’ho detto, a Ventura, “tu conosci tante cose, me le hai anche raccontate, perché non vai tu dalla magistratura a dire quello che sai? Perché io non so che cosa tu abbia fatto o meno, io mi attengo a quello che ho visto e a quello che ho udito. Vai tu!”. Mi venne risposto di no, no; gli dissi allora che sarei andato io.
[Silenzio]
Lui venne informato che ero stato dall’avvocato, e gli confermai che sarei andato a parlare con la magistratura.
E lei non ha mai avuto paura per la sua incolumità?
Certo. È da stupidi non rendersi conto in che razza di cosa grossa mi fossi cacciato… Avevo già un sentore all’inizio, perché sapevo di persone che si erano occupate contro di loro già prima e che erano finite male. Mi riferisco a due episodi accaduti a Padova: il portiere che è morto cadendo dalle scale [Alberto Muraro, assassinato due giorni prima di deporre contro due ordinovisti, ndA], e addirittura un commissario di polizia che è stato degradato, fatto fuori dal punto di vista professionale [Pasquale Juliano, capo della squadra mobile, rimosso dai suoi superiori, ndA]. Ed erano due persone che si erano opposte al gruppo di Ordine Nuovo di Padova. Queste cose le sapevo e le avevo presenti.
E come conviveva, allora, con questa paura?
Andando avanti [mentre lo dice sorride]. Pensando solo a quello che era il mio compito giorno per giorno, la scuola, correggere i compiti, vivere in famiglia, obbedire alle chiamate del magistrato. All’inizio mi chiamava spesso, erano mezze giornate l’una dopo l’altra, tra verbali e accertamenti sul piano personale.
Stava puntando il dito su degli sconosciuti, mentre buona parte dell’opinione pubblica credeva fosse colpa degli anarchici. Di cos’erano fatti, quei mesi? Com’era fatta quella solitudine, la sensazione di non essere creduti?
La sensazione di non essere creduti è qualcosa di terribile. Però… io non l’ho patita molto. Perché le persone che mi conoscevano, mi credevano. Sapevano che raccontavo una cosa incredibile, perché tutta Italia pensava che dietro piazza Fontana ci fosse Pietro Valpreda. Stavo dicendo invece che le cose non stavano in quel modo, che la bomba l’aveva piazzata qualcun altro, magari con dei timer partiti da Treviso. Sapevo di dire una cosa che la gente non voleva sapere. E soprattutto che i mezzi di informazione non giudicavano coerente con le informazioni ufficiali in loro possesso: non mi pesò molto l’incredulità, perché sapevo che questo era diventato il mio ruolo: quello di dire la verità, e basta. Non mi sentivo solo perché, come dire, ero in combattimento.
Non si parlava di scorte o di misure di sicurezza?
C’è stato un momento in cui ho avuto la scorta. Ho ricevuto una telefonata dall’avvocato che è stato il mio legale durante tutto il periodo del processo di Catanzaro [1972-1979]; era un parlamentare, Dino De Poli. Mi telefona da Roma e mi dice “il dottor D’Amato ha stabilito che tu abbia la scorta”.
Quando?
Erano i primi giorni di febbraio del 1970. Qualche ora dopo, anzi anche meno, una gazzella della polizia andava su e giù davanti alla mia abitazione. I vicini di casa si chiedevano cosa fosse successo; poi la sera hanno iniziato il servizio ravvicinato, due poliziotti a turni di otto ore erano sempre con me, notte e giorno.
Nel momento in cui lei si accorge che una persona che conosce è implicata in quelle vicende, che domanda si è fatto sulle proprie conoscenze? Immagino ci sia stato un momento, un’epifania, in cui ha capito che una persona con cui prendeva il caffè, chiacchierava, era capace di certe cospirazioni con i servizi segreti militari, le basi americane, i vertici di Ordine Nuovo.
Quando mi sono reso conto che, di fatto, Giovanni Ventura era tra gli organizzatori della bomba di Piazza Fontana, quando mi sono reso conto che quel timer che mi aveva mostrato nel settembre del ’69 fosse uguale a quello che ha fatto detonare la bomba di piazza Fontana, lì mi è crollato il mondo. Mi sono reso conto che non c’era più quel piccolo margine che potesse rassicurarmi, dirmi che Ventura non c’entrava, che fosse la persona che ho sempre conosciuto. Mi sono sentito molto male. È stata una grande delusione.
Perché lei quale Ventura conosceva?
Conoscevo il Ventura studente appassionato di filosofia e storia, un po’ troppo accanito sui valori della destra, e “la democrazia è un errore”, ripeteva spesso queste cose, le sue posizioni, che erano le stesse sostenute da alcuni settimanali, in particolare Il borghese. Conoscevo quel Ventura che poi si è trasformato in libraio, l’editore, aveva relazioni molto utili per la sua attività a Roma e Milano; sembrava in procinto di aprire una tipografia importante… Conoscevo questo Ventura ed ero contento per lui.
E per Ventura lei era un uomo di destra, di sinistra…?
Un uomo di centro, della sinistra DC, attenta al sociale. E tutto quello che è successo, non mi ha fatto cambiare: io sono rimasto con le stesse idee, il mondo mi è girato intorno, però [sorride].
Provando a mettermi nei suoi panni provo a immaginarmi i suoi colloqui con Freda e Ventura dopo il 13 dicembre. Andava da loro con una certa… tranquillità, per così dire, perché almeno sapeva di essere osservato dalla polizia…?
Non è così. Direi che è il contrario: nel senso che la scorta io l’ho avuta quando si sono interrotti definitivamente i colloqui tra me e Giovanni Ventura, si sono interrotti dopo la registrazione all’Hotel Plaza di Mestre, quella che venne poi ascoltata direttamente in cuffia dal magistrato. Ho avuto la scorta dopo. L’ho rifiutata perché quando sono stato chiamato a Roma da Occorsio e Cudillo, e l’istruttore mi ha chiamato per dirmi che erano fuori provincia e non potevano accompagnarmi, con tanta paura mi sono trovato senza scorta a Roma, che era un posto nuovo per me, e psicologicamente il più pericoloso. Tra l’altro la scorta venne fornita in un modo un po’ strano, la scorta era senz’auto, i due poliziotti viaggiavano con me, nella mia Mini Minor a due porte. Nel caso fosse successo qualcosa, non sarebbe stato il massimo né per loro né per me. Più tardi ho capito che la scorta serviva a anche osservarmi, per capire chi incontravo, eccetera.
Cosa significava vivere nella minaccia?
Alcune mie abitudini non sono mai tornate indietro, sono ancora molto attento quando mi muovo in auto, per dire. Non ho mai visto una vera minaccia, fisica, lì nascosta: ricordo bene però di quando leggendo i giornali, anni dopo, nel 1985, ho saputo che Vinciguerra avesse accettato l’incarico di farmi fuori. Lo stava dichiarando lui stesso in tribunale, era lì per altri fatti. Quando gli chiesero perché non fosse riuscito a portare a termine l’incarico, rispose che nel frattempo era stato arrestato dai carabinieri.
C’è una cosa che abbiamo in comune, ed è il territorio, da dove veniamo. Com’è sceso a patti con l’idea che l’origine di quel male, che le bombe ordinoviste fossero assemblate qui fuori, nella campagna trevigiana? Tramate a Padova, e perfezionate a Mestre, nei nostri giardini di casa.
Ci sono tante osservazioni che si possono fare, su questo punto. Direi che il territorio, la popolazione, il suo atteggiamento dominante ha consentito a Freda e Ventura di muoversi all’interno della nostra società camuffandosi, e così Gilberto Cavallini a Treviso, che ospitava Mambro e Fioravanti; è un territorio che ha ospitato gli esplosivi, le persone, le armi; un crogiolo sociale complesso dove, presentandosi in un certo modo, è facile passare inosservati.
La verità su Piazza Fontana è decisiva per la nostra nazione e la collettività. Da un punto di vista individuale, le persone pensano che tutto questo non sia rilevante, che non le coinvolga. Io sono convinto del contrario, se uno non sa – soprattutto i giovani – quello che è successo può imbattersi nelle stesse cose. Detto questo, è un territorio che io non mi sento di giudicare. Cerco soltanto di descriverlo. Dopotutto è sempre in questo contesto che è nata la mia decisione di fare il testimone spontaneo; è qui che i dottori Calogero e Stiz, nonostante le minacce, hanno portato avanti il loro lavoro di indagine. È una storia complessa, una società complessa: di qua sono passati tutti, anche la magistratura che ha lavorato per la verità.
Qual è l’Italia nata da quel 12 dicembre 1969?
Le azioni dei colpevoli non hanno soltanto distrutto famiglie, mietuto vittime, hanno anche realizzato un atteggiamento politico e sociale che vige tuttora; le stragi, a chi voleva fare del male all’Italia, hanno dato un risultato positivo. Intendo: la bomba di piazza Fontana è stata progettata non solo per uccidere, ma per incolpare “gli altri”. Nasce da una menzogna, una falsità costruita a tavolino: ma i colpevoli sono loro, i fascisti di Ordine Nuovo. Pagati e sostenuti e coperti. L’attentato era così ben progettato che c’era già il colpevole pronto, l’hanno addirittura chiamato da Roma, Valpreda. Di Valpreda sapevano qualsiasi cosa, spostamenti, conoscenze, abitudini insomma. Era pedinato costantemente.
Poi sono arrivati i processi. E cos’è rimasto, dopo tutti questi anni? Resta che le garanzie dei mandanti politici a chi ha piazzato le bombe sono state mantenute. Perché è vero che l’Italia “sa” chi sono i responsabili, ma chi ha mai pagato di fronte alla giustizia? Finché le famiglie vanno a portare i fiori alle vittime di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, di Bologna, e delle altre vittime, noi non dobbiamo dimenticare chi è Stato [“con la maiuscola”, tiene a precisare].
Rielaborazione di un estratto dal podcast Stragisti d’Italia, di Nicolò Porcelluzzi, prodotto da Storytel, una ricerca che si concentra sui nazifascisti di Ordine Nuovo per capire l’origine e lo sviluppo delle stragi di Stato, scavando negli uffici dei servizi segreti italiani e nei loro intrecci con i ministeri più importanti della Repubblica Italiana.