G eorge Catlett Marshall è stato il primo militare ad aver vinto il premio Nobel per la Pace. Un cortocircuito solo all’apparenza che si spiega con il piano che prese il suo nome e che dopo la Seconda Guerra Mondiale permise il rilancio dell’economia europea, devastata dal conflitto. Oggi, quello che ai tempi venne presentato come lo “European Recovery Plan” è entrato stabilmente nell’immaginario collettivo come un modello di successo al quale rifarsi quando è in ballo un intervento su larga scala finalizzato a risolvere crisi economiche e sociali che attanagliano più Paesi. Non può sorprendere quindi che nella storia recente questa metafora sia stata utilizzata a più riprese da coloro che invocano un “Piano Marshall” per l’Africa.
L’annuncio del provvedimento venne fatto il 5 giugno 1947 da Marshall in persona, nelle vesti di Segretario di Stato, in un discorso alla Harvard University. In quell’occasione, l’ex capo di Stato maggiore delle forze armate, prima di far riferimento alle ragioni che spingevano gli Stati Uniti a intervenire in Europa, volle smentire che il piano fosse un tentativo di fermare il “nuovo” nemico. “La nostra politica – dichiarò – non è contraria a un paese o a una dottrina, ma è contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos.” In realtà, l’amministrazione Truman venne accusata da più parti di voler colonizzare l’Europa in funzione anti sovietica. Mosca, infatti, per Washington rappresentava una minaccia da tenere lontana dal Vecchio Continente a suon di miliardi di dollari.
A settant’anni di distanza, le “insidie” che minacciano l’Europa sono ben diverse, ma una parte consistente della retorica politica continua a far riferimento a un rischio “invasione”. In molti salotti televisivi, il “nemico” ha svestito l’uniforme dell’Armata Rossa e ha indossato gli abiti dell’immigrato che attraversa il Mediterraneo a bordo di un barcone. I flussi migratori, in queste argomentazioni, rappresentano una minaccia che è necessario arginare anche con provvedimenti che sappiano trattenere in patria coloro che si dirigono verso l’Europa. Anche perché secondo molti, fare investimenti rilevanti in Africa (per questo si evoca un Piano Marshall), nel lungo periodo, avrebbe costi socio-economici inferiori a quelli previsti per affrontare flussi destinati a crescere. Un principio che, banalizzato in un’ottica di propaganda elettorale, prende forma piuttosto trasversalmente nello slogan: “Aiutiamoli a casa loro”.
Secondo molti, fare investimenti rilevanti in Africa nel lungo periodo avrebbe costi socio-economici inferiori a quelli previsti per affrontare flussi migratori destinati a crescere.
“Sebbene sconvolgimenti improvvisi, come guerre e carestie, rappresentino un fattore, gli elementi che sul lungo periodo influenzano maggiormente i flussi migratori sono legati a ragioni demografiche ed economiche.” Ne è convinto Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e coordinatore dell’osservatorio sulle migrazioni, che al Tascabile spiega come, stando ai dati sull’immigrazione in Italia nel 2016, per ogni 100 ingressi nel nostro Paese almeno 85 possono essere attribuiti a ragioni principalmente economiche. Una ricerca di condizioni migliori che può essere spiegata in buona parte dall’esplosione demografica che sta vivendo il continente: “Per dare il contesto, in Africa subsahariana – regione dalla quale proviene gran parte dei migranti diretti in Italia – nel 1990 erano 500 milioni, più o meno come ora in Europa, oggi sono un miliardo, e tra venticinque anni toccheranno quota 2 miliardi”. Completano il quadro le previsioni dell’Onu al 2050, secondo le quali la popolazione del Vecchio Continente rimarrà sostanzialmente stabile ma, ricorda Villa, solo nel caso in cui l’afflusso di stranieri si mantenesse attorno al milione all’anno.
Sul fronte della crescita, negli ultimi trent’anni sono stati fatti progressi importanti. Basti pensare che solo nell’ultimo decennio, nei Paesi dell’Africa subsahariana, il reddito pro capite annuo è passato da circa 1.200 a 1.652 dollari (in Ue 34.861 dollari), con un miglioramento di oltre il 30 per cento, rimanendo però tra i più bassi al mondo. Quindi, spiega il ricercatore Ispi, “quando utilizziamo la formula ‘aiutiamoli a casa loro’ dobbiamo cominciare a pensare che si tratta di contrastare forze di lungo periodo come demografia e differenze di reddito, che continueranno ancora per molto tempo a rappresentare importanti fattori di attrazione verso l’Europa”.
Preso atto di questa situazione, per Matteo Villa, il principio di voler investire in Africa per far fronte alla crisi migratoria incontra due ordini di problemi: l’insufficienza dei fondi stanziati, che spesso hanno un orientamento ondivago e non pianificato, e la scarsa affidabilità dei governi che beneficiano dei finanziamenti. “Di solito – spiega il ricercatore Ispi – il 30/40 per cento degli aiuti se ne va in corruzione, il che non vuol dire che questi soldi non entrino nell’economia del Paese, ma che finiscono per aumentare le disuguaglianze invece che diminuirle.”
Inoltre, la crescente crisi migratoria ha spinto gli organismi europei a dirottare i capitali destinati allo sviluppo verso obiettivi più di breve periodo. Una percentuale rilevante di questi fondi, infatti, viene utilizzata per l’accoglienza dei rifugiati sul proprio territorio e non si traduce in un trasferimento di risorse. Nello specifico secondo l’Ocse, il nostro Paese nel 2016 ha destinato il 34% degli aiuti pubblici invece che allo sviluppo in Africa, all’accoglienza dei rifugiati sul suolo italiano, passando in termini assoluti da 983 milioni di dollari allocati nel 2015 ad oltre 1,66 miliardi del 2016, con un incremento del 69%.
La crisi migratoria ha spinto gli organismi europei a dirottare i capitali destinati allo sviluppo verso obiettivi di breve periodo: una percentuale rilevante è utilizzata per l’accoglienza dei rifugiati sul proprio territorio.
Secondo Villa, l’efficacia di un piano di investimento nei Paesi in via di sviluppo è legata alla sua capacità di fare in modo che il reddito pro capite medio aumenti in modo diffuso e generalizzato, andando a intaccare le sacche di miseria che resistono all’interno dei singoli Stati. “Un’impresa che diventerebbe realizzabile – spiega il ricercatore – solo se si disponesse di un budget molto superiore a quello che al momento viene stanziato e tanto tempo a disposizione per raccogliere i frutti sperati.”
Risultati che, tra l’altro, non sono affatto scontati. Alcuni sociologi, infatti, sostengono l’esistenza di una “migration hump“, ossia una gobba delle migrazioni, che si basa sul principio che redditi molto bassi possano essere il principale dissuasore delle migrazioni, che fino a un certo livello di sviluppo continuano a crescere invece che diminuire. Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno costruito un diagramma che incrocia il prodotto interno lordo (il cosiddetto PIL) dei Paesi in via di sviluppo e la quantità di coloro che decidono di migrare. Dai risultati emerge che si muovono soprattutto gli abitanti che hanno un reddito nella fascia intermedia. “In questa teoria – spiega Villa – i dati portano alla formazione di una parabola ribaltata, per l’appunto una gobba, dove i Paesi più poveri hanno flussi migratori molto bassi e pian piano che aumenta il reddito crescono anche le migrazioni”. Una tendenza che si inverte quando si raggiungono circa i 5.000 dollari pro capite, soglia oltre la quale i flussi ricominciano a diminuire.
Per Matteo Villa, però, nella teoria esistono due importanti caveat: “il primo è che ciascun Paese ha una storia molto diversa dall’altro e non segue davvero la dinamica raccontata da questa curva, che è una media pesata dei 200 stati al mondo e non una realtà di fatto. Ragione per la quale, è difficile capire se davvero uno spostamento da una parte o dall’altra – crescita o recessione economica – genererà minore o maggiore emigrazione”. Il secondo, invece, consiste nel fatto che “per l’Africa subsahariana questa curva è molto più piatta, con migrazioni nette che tra il 2011 e il 2015 non assomigliano per nulla a una gobba, ma più a una linea retta.” In sostanza, lo sviluppo economico non fa aumentare i flussi ma nemmeno riesce a farli calare, almeno fino a quando non si arriva a un certo livello di reddito.
In generale, è appurato che i più poveri non “possono permettersi” di lasciare il Paese proprio perché nel lungo periodo “emigra solo chi ha le risorse a disposizione, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze, istruzione, salute e capacità di iniziativa.” Non a caso, secondo il ricercatore Ispi, le comunità più numerose presenti in Italia provengono da paesi con un PIL annuo pro capite superiore di 5.000 dollari e meno del 2 per cento degli immigrati presenti nel nostro Paese proviene da Stati caratterizzati da condizioni di grave e diffusa povertà (sotto ai 1.500 dollari annui pro capite).
In generale, è appurato che i più poveri non possono permettersi di lasciare il Paese: nel lungo periodo emigra solo chi ha risorse a disposizione, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze.
Questi elementi emergono principalmente in un’analisi di lungo periodo nella quale gli investimenti possono contribuire a raggiungere i risultati sperati solo dopo diversi decenni. Un ostacolo temporale che spesso impedisce una pianificazione efficace: “aiuti seri e puntuali sarebbero fonte di stabilità per molti dei Paesi africani, ma mi rendo conto – ammette Villa – che a nessun politico conviene dire: ‘ho prevenuto un conflitto’ perché quasi mai lo puoi dimostrare. Politicamente l’intervento ex ante non funziona, non porta voti”.
L’Italia negli ultimi anni sta cercando di assumersi questo “rischio” politico, anche se l’obiettivo di destinare lo 0,7 per cento del Prodotto nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo è ancora lontano (l’Unione Europea nel suo complesso si è impegnata a raggiungere l’obiettivo entro il 2030). Nel 2016 il nostro Paese, infatti, ha raggiunto “solo” lo 0,26 per cento nel rapporto con il prodotto nazionale Lordo. Eppure, come spiega al Tascabile il viceministro degli Affari esteri e cooperazione internazionale Mario Giro, gli investimenti in Africa provenienti dal nostro Paese non sono mai stati così alti. “Secondo la rivista Forbes – sottolinea Giro – nel 2016 l’Italia è stata il terzo investitore in assoluto nel continente e il primo europeo, con oltre 11 miliardi”. Un “balzo” che va riconosciuto ai privati e che “non è solo merito dell’Eni.”
Per sfruttare a pieno questa spinta, l’Italia negli scorsi mesi si è fatta promotrice in Europa di un’iniziativa di External Investment Plan per l’Africa. Approvato lo scorso settembre, questo provvedimento ha l’obiettivo di mobilitare investimenti privati verso Stati “fragili”. Nello specifico, offre una combinazione di sovvenzioni, prestiti e garanzie finanziarie pubbliche, che ripropongono nel continente africano il modello del ‘Piano Juncker‘, il pacchetto che ha consentito di attivare circa 209 miliardi di euro in nuovi investimenti nei Paesi dell’Unione europea. Lo scopo, spiega il viceministro, che appartiene alla Comunità di Sant’Egidio e che per molti anni si è occupato di cooperazione allo sviluppo e di pace in Africa, è quello di “incoraggiare crescita e stabilità creando lavoro, affrontando così alla radice le cause profonde delle migrazioni”.
Nello specifico, le aziende che beneficeranno del Piano d’investimento esterno dovranno rispettare gli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e le norme internazionali sull’investimento responsabile. Per attrarre i privati, l’Unione europea metterà a disposizione 4,1 miliardi di euro, che verranno utilizzati come una leva per raggiungere investimenti complessivi pari a 44 miliardi.
La chiave di volta di questa situazione è la crescita congiunta, realizzabile solo attraverso investimenti considerevoli che tendano a creare lavoro in terra africana facendo al contempo lavorare le imprese europee.
Il piano, spiega Giro, parte dal presupposto che “una vera crescita economica si può ottenere solo se il settore privato è coinvolto” e l’unico modo per attrarre le aziende dove non andrebbero spontaneamente è avere una garanzia pubblica sulle eventuali perdite. In sede di presentazione dell’External Investment Plan, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini, ha ricordato che: “Meno del 10 per cento degli investimenti esteri diretti in Africa va alle regioni fragili, quelle che ne hanno più bisogno.”
“Noi europei – sostiene il vice ministro – ci siamo sempre relazionati all’Africa in maniera paternalistica, mentre è giunto il momento di cominciare a trattarla come un vero e proprio partner alla pari, anche perché il continente in questi ultimi decenni è cambiato e c’è una giovane generazione che vuole emergere”. Per fare in modo che questo sviluppo diventi realtà, Giro è convinto che sia necessario “espandere il know-how imprenditoriale perché l’Africa deve produrre. Solo così potrà crescere.”
La speranza, sottolinea il vice ministro, è che possa rivelarsi una strategia vincente: “in un momento in cui la politica internazionale sta diventando sempre più autarchica, noi stiamo cercando di mescolare soldi pubblici e privati per avere una leva maggiore e fare investimenti insieme.”
La chiave di volta di questa situazione è proprio la crescita congiunta che, secondo Giro, è realizzabile solo attraverso investimenti considerevoli che tendano a creare lavoro in terra africana facendo al contempo lavorare le imprese europee. Un nuovo corso che, però, deve essere svincolato “dall’ossessione della minaccia migratoria, che porta a reagire solo sull’onda dell’emergenza e che ci impedisce di vedere quella che in realtà si può rivelare una comune opportunità.”