L a prima impressione della Patagonia cilena, per me come per molti altri, non è provenuta dall’assalto di vento e scaglie di luce dello Stretto di Magellano, ma dalla lettura di In Patagonia di Bruce Chatwin. Questa precedenza della pagina sull’esperienza è comune. Nello stesso periodo in cui Chatwin si aggirava da queste parti un altro viaggiatore compulsivo, Giorgio Manganelli – inviato dalla rivista “Il Mondo” in India – osservava come la dimensione letteraria modifichi e espanda l’interazione sensoriale rendendo possibile stabilire l’identità di un luogo:
“Nelle guide mancano gli odori e i colori – come nelle fotografie. Ma soprattutto manca la letteratura: e direi che il “luogo”, la “città”, la “campagna”, non esistono se non come figure retoriche, come generi letterari”.
Raramente questa funzione della letteratura per l’esperienza di viaggio è più evidente e specifica come nel caso della Patagonia, la cui identità pubblica è quasi interamente una costruzione mitica. Viaggiare qui, perciò, comporterà prima di tutto incontrare i fantasmi di altre narrazioni che hanno riempito il paesaggio vuoto, narrazioni che a loro volta sono nate dalla proiezione di sogni e miraggi cartografici: da Magellano a Darwin, da Shackleton ai primi narratori della regione come Lucas Bridges, a Chatwin e ai suoi critici e epigoni, fino alle narrazioni normalizzate delle guide turistiche, che spesso riprendono Chatwin.
Il quale, a sua volta, sceneggiava. A quarant’anni da In Patagonia, basato su un viaggio di quattro mesi nell’inverno del 1974 e pubblicato nel 1977, è tempo di una resa dei conti con l’accusa, che è stata fatta all’autore, di inventare. Accusa tecnicamente corretta. Quasi tutto il libro è un collage di interni, dialoghi surreali con emigrati per lo più europei, con l’autoproclamato sovrano (francese) del regno di Patagonia, con il padre gesuita convinto che il primo uomo sia nato qui (monoteista), e poi intermezzi affabulatori su Magellano, Fitzroy, Butch Cassidy e il Sundance Kid, e altri personaggi pittoreschi approdati in questa estremità del Sud America. Le indagini puntuali sulle storie raccontate nel libro, come quella di Adrián Giménez Hutton che è andato a cercare sul campo gli interlocutori di Chatwin, confermano che i fatti sono trasfigurati. Molti si sono riconosciuti nel libro, diversi hanno affermato che i resoconti contengono esagerazioni, se non vere e proprie manipolazioni. Cambiano volti, colori di capelli, nomi, caratteri, idee. Per esempio, secondo lo storico argentino Osvaldo Bayer i moti anarco-sindacalisti del 1921 sono del tutto fraintesi da Chatwin (che pure si basa sul suo libro La Patagonia rebelde): presentando gli scioperi come “una rivoluzione in miniatura” alza la tensione narrativa, ma finisce con l’abbracciare il punto di vista dei latifondisti che parlavano di un complotto cileno, e ottennero la fucilazione di centinaia di lavoratori. Insomma, Chatwin ha lavorato come un romanziere che si interessa fino a un certo punto della verità per trovare – o ricavare – storie bizzarre o sensazionali.
Eppure, piaccia o no, questo lavoro definisce un aspetto essenziale dell’esperienza che si può fare attraversando la Patagonia, e non per niente ha segnato un modello per il travelogue di fine Novecento, quando l’idea di descrivere un mondo ignoto e inesplorato aveva ormai perso di significato. Chatwin abolisce la continuità storica e geografica che è stata prodotta dal progresso industriale e la sostituisce con una successione intermittente di quadri narrativi: invece che spazio e tempo, troviamo luoghi ed episodi. Così facendo – un po’ come farà il suo amico Werner Herzog al cinema – mistifica la storia ma tocca un’altra verità.
Per capirlo bisogna sottrarsi all’illusione della carta geografica, che ci presenta la Patagonia come un’entità omogenea, un sipario bordato di isole che cala sul Polo Sud. Si scopre che il solo senso di questo territorio in quanto unità storico-geografica e componente di un mondo che la oltrepassa è dato dalle sue colonizzazioni: l’arrivo dei primi uomini intorno a 12000 anni fa; i passaggi occasionali degli esploratori bianchi da Magellano in poi; nella seconda metà del XIX secolo, l’arrivo di masse di avventurieri attratti dalla scoperta dell’oro, che porta alle lotte sindacali e al genocidio dei nativi; poi, dopo la dittatura, i turisti. Tutti questi fatti hanno lasciato contrassegni simbolici sul territorio deserto, a indicare approdi, naufragi, investimenti, sparizioni. Miraggi e nostalgia hanno infine il sopravvento sugli effimeri tentativi di importare una Storia occidentale. I personaggi fuggono o periscono, manca l’unità d’azione. Il libro adatto a raccontare un viaggio in Patagonia non poteva essere un itinerario lineare nello spazio e nel tempo, ma doveva descrivere il collassare di storia e leggenda. Doveva essere simile al Milione.
Tutto questo spiega il senso di equivoco che provo ad arrivare a Punta Arenas squadernando una mappa, che si aggiunge a un’incertezza più grave. L’urgenza fortissima di venire qui, nonostante mille difficoltà, non corrisponde alla scusa ufficiale che m’interessa visitare la regione e ne ho approfittato trovandomi non troppo lontano. Resta una sensazione oscura che non si chiarisce, mentre mi accontento di perlustrare ogni angolo del paese. Il reticolo di strade, la cui simmetria è mangiata dalla riva annerita, ricorda il piano regolatore frettolosamente sbozzato dai britannici sbattuti qui dalle onde per approfittare del facile approdo (originariamente il sito si chiamava Sandy point). Non c’è un centro ma c’è una piazza centrale con un monumento a Magellano, ai cui piedi è seduto un indio in posa da Galata morente.
La casa di famiglia dei latifondisti Braun-Menéndez giganteggia tra gli edifici bassi, come il vicino palazzo di Sara Braun. Oggi è un museo, come quasi tutti gli edifici della città che rimandano alla storia di un secolo fa. Al suo interno lunghi tavoli di rappresentanza, sala da biliardo, statue neobarocche, dipinti di paesaggio tardoromantici, un enorme apparecchio telefonico. Tutte riproduzioni di modelli europei, a loro volta ripresi nelle città nordamericane e sudamericane, secondo una gradazione imitativa che espone lo sforzo ostinato di negare la distesa di steppa che s’intravede dalle finestre più alte. Nelle sale sul retro sono allestiti pannelli sull’esplorazione e la colonizzazione della regione. Foto di signori in frac seduti al tavolo con incauti capi indigeni. Un europeo con i capelli lunghi, vestito di stracci e circondato dai figli meticci, guarda verso la camera con occhi allucinati: qualcuno si è imbarcato fin qui per dismettere le abitudini borghesi, lasciare il nome, non tornare.
L’impressione di osservare il Titanic affondato è rafforzata quando si visita il cimitero municipale. Tra i cipressi levigati dalla forma bombata sfilano mausolei monumentali e lapidi sbrigative, a immortalare le distinzioni sociali. Tra i molti nomi di Italiani, Russi, Croati, Spagnoli, Tedeschi, spicca la singola statua dedicata all’Indio desconocido, circondata di ex voto.
Vicino al santuario di Santa Maria Auxiliadora visitiamo anche il Museo salesiano, dove si trovano animali impagliati, utensili e filmati sugli Yaghan (o Yamana) e sui Selk’nam, gli indigeni fuegini scomparsi, e gli scarponi del padre salesiano Alberto De Agostini, alpinista e esploratore della regione.
In una stradina, il Museo naval y marítimo ospita pannelli sulle spedizioni di Ernest Shackleton al Polo Sud, partite da qui un secolo fa. La Endurance incagliata nei ghiacci, il rifugio dei naufraghi sull’Isola degli elefanti, l’avventuroso ritorno del capitano per tre settimane in barca fino a una stazione di balenieri, infine le missioni di soccorso, ultima quella condotta – ci informa orgoglioso un ufficiale di marina – dal cileno pilota Pardo, raramente menzionato nella storia.
Musei, edifici, musei, e poi sul fondo dei rettilinei compare il mare, a mostrare l’inganno di queste quinte coloniali. Qui semplicemente si passava, senza volersi fermare. Da qui si va alle estancias, alla Terra del Fuoco, al Polo Sud. Oggi, per lo più, si sosta per andare a camminare nei parchi che si trovano a Nord, che saranno la prossima tappa.
Bruce Chatwin si era messo in viaggio con un atteggiamento perfettamente proustiano, inseguendo un ricordo confuso: il frammento di pelliccia del preistorico Milodonte, spedito dall’esploratore Charles Milward alla cugina, nonna di Bruce, il quale l’aveva visto da bambino e scambiato per un pezzo di Brontosauro. Chatwin concluderà il suo viaggio in Cile, dove prima, a Punta Arenas, trafugherà, fotocopierà e pubblicherà in anteprima pagine dei diari di Milward (altro episodio per cui lo inseguiranno le proteste), per poi spingersi fino alla grotta del Milodonte, nei pressi di Puerto Natales, dove furono scoperti molti resti dell’animale. La coazione a venire qui nasce dunque da un cimelio familiare, da una fantasia d’infanzia di cui disvelare il senso. Il moto esplorativo è retrogrado. E del resto Chatwin non voleva che l’editore includesse il libro nel genere “viaggio”, presentandolo come una storia sulla terra più remota raggiunta dall’uomo, “simbolo dell’irrequietezza”, il racconto della “caccia a uno strano animale”, e ancora, una raccolta di storie destinate a “illustrare alcuni aspetti del vagabondaggio e dell’esilio”.
Questo segna la distanza tra questa nuova forma di letteratura di viaggio, che si destruttura fino a perdere contatto col terreno, e quella della tradizione che risale al mondo coloniale. Prendiamo uno dei feticci di Chatwin, Robert Byron. Il suo La via per l’Oxiana, che racconta un viaggio tra Persia e Afghanistan nel 1933, deve ancora fare da guida turistica. Byron è un viaggiatore vittoriano esemplare, erede del Gran Tour fattosi planetario, che si lamenta della servitù mentre imburra il pane nelle tende, e si sofferma sugli strani costumi della gente per farne caricature. Riserva tutta la sua serietà calligrafica alla descrizione dell’architettura islamica e a tirate di erudizione storica, a beneficio del lettore che vuole imparare ciò che non potrà mai vedere. Che Chatwin non descriva quasi nulla di pittoresco non dipende soltanto dal maggiore sviluppo del mezzo fotografico (oggi le guide sono poco più che istruzioni per riprodurre foto già scattate). Il punto è che quel compito descrittivo non ha più senso. Dell’esploratore vittoriano gli resta semmai una certa aria di superiorità. Ma la consapevolezza nuova e importante è che non c’è un lettore da istruire: sta per arrivare anche qui il turismo di massa, e prevedendo che i sopralluoghi e gli scatti fotografici annulleranno l’aura esclusiva dell’esploratore, Chatwin sfodera la letteratura e tesse la sua rete di racconti. Da cui, adesso, è difficile districarsi.
La Patagonia, come ogni destinazione d’interesse paesaggistico, è un gigante addormentato la cui corazza è coperta dalle bandierine dei siti d’attrazione, che portano i nomi dei lillipuziani. I monti e i parchi si chiamano come famosi bianchi – Fitzroy, De Agostini, O’Higgins, Darwin, Coloane… – come se gli ultimi centocinquant’anni di storia bastassero a stabilire l’identità di un processo geologico. Mentre ci dirigiamo a Puerto Natales, continuo a sfogliare gli strati narrativi su diversi libri che caricano lo zaino. Il nome “Patagonia”, che rimanda a giganti dai grandi piedi, fu forse ispirato non soltanto dall’altezza degli indigeni incontrati da Magellano nel 1520, ma anche da precedenti fantasie letterarie sulla Terra australe. A loro volta le descrizioni dei fuegini incontrati da Magellano avrebbero ispirato Shakespeare ne La tempesta, Swift ne I viaggi di Gulliver, Poe nel Gordon Pym, e così via. Tutto questo mi allontana, però, dalla mia sensazione oscura. Quello che sto cercando non è l’equivoco alla base di una rielaborazione occidentale. C’è del resto poco di esaltante in questa filologia: leggere, nel resoconto di Pigafetta, di come Magellano imprigionò i fuegini con l’inganno mi rattrista e strappa qualsiasi aura eroica alla parola “esploratore”. Dopo aver “offerto” due grossi ceppi di metallo, il capitano propose di aiutarli a portarsi via i regali:
“Vedendo che li rincresciva lassare quelli ferri, li fece segno li metterebbe a li piedi e che li porterebeno via. Essi risposero con la testa de sì subito. Ad uno medesimo tempo li fece metere a tucti dui e, quando l’inchiavavano con lo fero che traversa, dubitavano; ma sigurandoli il capitanio, pur steteno fermi. Avedendose poi de l’ingano, sbufavano come tori”.
Ma non tutte le impressioni sulla natura della Patagonia sembrano riducibili al razzismo sui “selvaggi” o agli slogan dei depliant sulla terra “incontaminata”. Francisco Coloane, autentico cantore omerico di queste terre, ha espresso in modo memorabile il senso di durezza che l’attraversa e ne determina gli abitanti:
“Uomini rudi che avevano il cuore chiuso e stretto come i loro pugni. Alcuni sono rimasti incatenati a quelle isole per tutta la vita. Altri, spinti dalla frusta della fame che sembra farli vagare da oriente a occidente, arrivano ogni tanto in quelle terre inospitali, dove ben presto il vento e la neve scolpiscono la loro anima a colpi d’ascia, lasciandola dura e affilata come una stalattite di ghiaccio”.
Sono parole del racconto Capo Horn, in cui un evaso dal carcere di Ushuaia raggiunge l’isola dove vivono due gringos cacciatori di foche e chiede loro rifugio, offrendo in cambio di portarli in una caverna segreta dove le foche allevano i piccoli. I tre si avventurano tra gli scogli e trovano la caverna. I cacciatori ammazzano a bastonate decine di piccoli appena nati, sotto gli occhi impotenti delle madri, li caricano sul cutter, poi abbandonano l’evaso tra le rocce. Alla fine si saprà che sono morti nel naufragio. Altri racconti riaffermano un simile destino: un cavallo intelligente si vendica del suo padrone arrogante, un fuggitivo muore congelato e riappare come un fantasma alla deriva nel suo blocco di ghiaccio. Il ciclo tragico delle storie si conclude con la morte impartita dalla natura non umana: poiché non ci sono un uomo o un dio che possano incaricarsene.
Mi accodo con gli altri escursionisti all’ingresso del Torres del Paine. Il numero chiuso seleziona la tipologia di turisti: gruppi di sportivi ben equipaggiati, famiglie, coppie, fotografi con treppiede. Gli spazi aperti sono invitanti, naturalmente dipinti ad acquarello. Ma come non m’interessa ritrovare l’origine delle proiezioni letterarie, non m’interessa neanche ritrovare il punto di vista da cui sono state scattate le fotografie delle Torri del Paine, del ghiacciaio Perito Moreno, del monte Fitzroy, del Cerro Torre (Herzog!). Le fotografie sono appese ovunque accanto all’imperativo “Disfrute!”, in cui sento mio malgrado una sfumatura di abuso. Sarà nondimeno fantastico camminare sui sentieri montuosi, tra ghiacciai azzurri, rocce aguzze, e alberi piegati dal vento. Il parco è un concentrato di bellezza naturale e tumulto atmosferico che non può lasciare insoddisfatto l’escursionista. Di notte, continuo a pensare al gigante che dorme qua sotto.
Intorno a Puerto Natales ci sono prati di camomilla, distese di prateria con case isolate dai tetti spioventi, cavalli che pascolano, auto e barche arenate sugli sterrati. Seguendo a piedi per un giorno intero la Ruta fin del mundo non si arriva da nessuna parte. Dall’alto il fiordo Última Esperanza sembra una colata di metallo che sta per spazzare via il paese. Mi chiedo se ci sia ironia o superstizione nei toponimi estremi scelti per indicare questi posti. Sul lungomare c’è una statua di padre De Agostini che stringe la mano all’indio. Degli skaters in t-shirt si scatenano nella pista sotto al Monumento al viento.
Prendiamo un autobus verso nordest e entriamo in Argentina. Il numero di turisti aumenta: El Calafate è un piccolo agglomerato di ristoranti e negozi di abbigliamento, che solo percorrendo tre isolati verso fuori comincia a tornare simile alla norma locale, con costruzioni di legno e cani che dormono da secoli. Qui si viene in pellegrinaggio al ghiacciaio Perito Moreno, che si frantuma a vista perdendo da settanta metri di altezza blocchi celesti che tuonano in acqua e poi vanno alla deriva. El Chaltén, più a Nord, è una distesa di affittacamere ai piedi del Cerro Torre e del Fitzroy. Il meglio dei giorni passa camminando, quando siamo tutt’uno con sassi, licheni, tronchi ricurvi, rigagnoli che bagnano la roccia, cascate di nubi sui ghiacciai, strapiombi, noi chini a puntare gli scarponi nel suolo, tutti fiato e baricentro. L’arrivo ai laghi arroccati tra i ghiacciai è euforico, sembra di condividere con gli altri escursionisti una sfavillante amaca stellata, un luogo di meditazione, una pista di lancio per il cielo. Sarà possibile trovare il silenzio assoluto soltanto proseguendo sulle morene più impervie. Un ragazzo si tuffa nell’acqua turchese della laguna. Una coppia mi chiede la foto.
A parte i camminatori che affollano i parchi della Patagonia meridionale, qui i turisti vengono per affittare una macchina e perdersi nella Terra del Fuoco. Un assaggio di questa esperienza lo otteniamo al parco Pali Aike, una steppa vulcanica che non visita quasi nessuno, e dove in effetti non è facile dire che ci sia qualcosa da vedere. All’ingresso del parco ci sono due ranger e Bob, un geologo del Michigan, con cui si parla di uno dei temi più discussi dai turisti che vengono da queste parti, il cambiamento climatico. – Alcuni cambiamenti nei ghiacciai sono periodici, ma in generale tutto si sta rapidamente sciogliendo, solo un idiota può negarlo. – Diamo un’occhiata alla mappa e prendiamo una pista.
Nella lingua dei tehuelche Pali Aike significa “luogo desolato di spiriti maligni”. Cammino su rocce laviche appuntite, dalle cui spaccature spunta qualche arbusto rosso sangue, e cerco all’orizzonte gli orli spinosi dei crateri – ed ecco subito un altro puntello letterario per nominare questo vuoto: Mordor. Il territorio è preistorico: la sola traccia di attività umana recente sono alcuni pannelli didattici piantati di fronte alla grotta, nascosta da un anfiteatro naturale di scogli, dove sono stati reperiti resti di uomo, milodonte, e di un equino estinto. Lungo le distese sconfinate pascolano i guanacos e qualche nandù (piccoli struzzi). Diversi gruppetti di ossa perfettamente pulite segnalano i pasti dei puma. Troviamo animali morti, crateri rossi richiusi dai detriti, un lago semiarido. Non è facile scacciare le immagini cinematografiche che si affollano, ma lentamente, camminando contro il vento assordante viene gradualmente inibita ogni verbalizzazione, i riflessi dell’immaginazione diventano gradualmente insignificanti, resta un’attenzione muta, un puro scandaglio sensoriale in cui è abolita ogni rilevazione estetica.
Le piste interne al parco sono di un fango scivolosissimo punteggiato di funghi neri. L’auto pattina e va continuamente fuori controllo. Su un rettilineo incontriamo un camper impantanato. È Bob. Resta immobile nell’abitacolo, non vuole aiuto, ci chiede solo di avvertire i ranger che pernotterà nel parco in attesa che il fango si asciughi, e ci prega di protestare perché la pista è inadatta al suo veicolo. È una scena vista molte volte: uomini abituati alle comodità, di solito maschi, che sfidano un territorio estraneo, s’innamorano di un fiore o di una lucertola, tirano fuori un teleobiettivo con aria maniacale, e quando cominciano a soccombere danno qualche lamento sconclusionato, per poi arrendersi silenziosamente, pacificamente, si chiudono nella tenda monoposto o nell’auto e restano là, come se fossero venuti qui per questo. Salutiamo Bob, chiedendoci quanto ci metteranno a trovarlo e quanto abbia voglia di tornare a casa.
Comunque Bob non ha tutti i torti sui ranger, che ci danno un’indicazione confusa su una serie di svolte da prendere oltre l’uscita: così al ritorno per Punta Arenas ci perdiamo. Solo nella vera e propria Terra del Fuoco, pochi chilometri più a Sud, inizia la riconversione delle estancias in agriturismi a alto costo, mentre qui, al confine tra Argentina e Cile, le tenute sembrano abbandonate. Le piste piene di pozzanghere grandi come vasche si diramano all’infinito, si cerca di orientarsi con la posizione del Sole. È pieno di animali, molto più che nel parco. Decine di guanacos, nandù, e pecore scappano ovunque all’arrivo dell’entità impazzita. La pace del paesaggio è un inganno di cartolina, il disorientamento è sconfinato, e si capisce bene l’aspro alternarsi di silenzi e raptus dei pastori raccontati da Coloane. Il Sole si abbassa come un pugile testardo, lentamente abbattuto dai colpi. Gli ostacoli non si vedono, la benzina sta finendo. La prima strada, se non sbaglio, è da quella parte. Tutt’intorno campi minati, eredità di una vecchia disputa territoriale. Accelero, schivando le buche e le lepri. Il minimo rischio, ed eccola spuntare, la violenza.
Anche in Terra del Fuoco s’incontrano più che altro segni di transito. La costa di Bahia Inútil è una distesa sassosa interrotta dai relitti di navi. La Amadeo apparteneva ai proprietari della estancia qui vicino, che ne hanno lasciato arrugginire i resti invece che spendere soldi per rimuoverli. L’economia del commercio sta venendo sostituita da quella del turismo, che capitalizza i resti. Il museo di Porvenìr custodisce i reperti della vita ottocentesca di questa comunità di emigranti cileni e croati: il banco di uno spaccio, l’automobile, l’apparecchiatura di un pioniere del cinema. E le foto: colazioni sull’erba (poca), corse di cavalli sul bagnasciuga, il minatore che incrocia una falce e un martello con aria di sfida, nell’anno 1938. Correda il tutto l’ennesima collezione di frecce, canoe e utensili dei Selk’nam. All’esterno dell’edificio un mural ricorda alcuni dettagli del genocidio. L’indio è in piedi con le braccia aperte come Cristo, in un fiume di sangue in cui è disteso il suo popolo, mentre ai lati avviene lo scambio di orecchie e teste, che permetteva ai cacciatori di indiani di dimostrare le proprie imprese e di farsi pagare dagli allevatori.
Sul lungomare è immobile una processione di Selk’nam di bronzo, a grandezza naturale. Oggetti, foto, dipinti, statue: questa abbondanza di sostituti iconici non fa che aggravare il senso della scomparsa. L’ultima Selk’nam purosangue è morta nel 1974. I discendenti degli Yamana, che vivevano più a sud intorno all’Isola Navarino, sono ormai poche persone, e con poche intendo dire poche unità isolate, non famiglie o comunità. Vivono a Nord, lontano da qui, si fanno ancora scattare qualche foto. Sono gli ultimi parlanti di una lingua che non possono più usare per comunicare.
Nella Bahia Inútil si trova da qualche anno la colonia più settentrionale di pinguini reali, quelli alti circa un metro con le sfumature arancio sotto il collo e sulla testa. Osserviamo con i binocoli il far niente degli animali, in piedi o stesi sulla pancia, nei pressi di una laguna vicino al mare mai calmo. Da quanto ho visto in diversi documentari, la vita dei pinguini è un’alternanza di caccia e immobilità. La caccia avviene in condizioni proibitive. Sul terreno gli animali arrancano, saltellano malfermi, ogni pendenza li obbliga a graffiare la pietra con le unghie in cerca di equilibrio. Quando finalmente riescono a tuffarsi in acqua, dove diventano agilissimi, comincia l’assalto dei leoni marini. I sopravvissuti sono gratificati dal vento gelido che soffia per tutta la notte. Per una strana proiezione immagino che questa immobilità, interrotta da brevi spostamenti senza costrutto, sia la loro vacanza. La colonia è in effetti un carnaio. Le interazioni sembrano ridotte al minimo. Prendono il sole. Del resto le condizioni climatiche sono meno impervie che a Sud, da dove questo gruppo proviene, e nessuno mi toglierà l’idea che qualcuno, forse i proprietari delle estancias nei dintorni, abbia in qualche modo deportato i pinguini sulla spiaggia per poter attirare i turisti.
I geologi ed esploratori amatoriali che incontriamo non confermano, né negano, affermando che ovviamente per vedere pinguini, balene e altri animali marini nel loro habitat più autentico bisogna andare più lontano, nei pressi di stazioni di ricerca dove si recheranno presto, mentre a noi tocca l’anticamera turistica. Così ci ha detto Stewart, un australiano incontrato a Punta Arenas: lunga barba da capitano Achab, scarpe tecniche indossate anche in città, un maglione da marinaio per sdrammatizzare. E lo stesso ribadisce Delphine, giovane dottoranda francese che fa mille lavori e ci annuncia – sul pullman turistico strapieno – che forse andrà a lavorare in un centro climatologico in Antartide.
Non c’è incontro in cui le distinzioni di classe tra i turisti e il deprezzamento simbolico dell’esperienza ormai accessibile – secondo il meccanismo recentemente analizzato da Marco D’Eramo – non debbano essere almeno implicitamente rimarcate. Mentre nessuno si confessa visitatore una tantum, incontriamo diversi turisti-giornalisti, turisti-scienziati-amatoriali, turisti-collezionisti (che “l’anno scorso ho fatto l’Amazzonia e il Delta dell’Okavango”, mentre le foto, flap flap, scorrono sullo smartphone), e infine gli immancabili trentenni nordamericani e nordeuropei che si sono licenziati e non sanno se e quando torneranno. Nessuno, comunque, disdegna il faccia a faccia con il pinguino, che a differenza di quello dei libri per bambini non parla, nega ogni incarico di senso da parte dell’osservatore umano, resta inespressivo: è al di là del bene e del male.
Fuori dai parchi le esperienze sono più interessanti, mancano due giorni al volo di ritorno, e decidiamo di visitare il Faro San Isidro, sull’estrema punta del continente sudamericano. Il posto si raggiunge con una combinazione di mezzi a motore e una lunga camminata. Dopo giorni di vagabondaggio e divertimento avverrà qui, inaspettatamente, l’incontro che libera l’intera tensione del viaggio e delle narrazioni che lo hanno accompagnato, trattenuta finora nella mia sensazione oscura.
Scendendo verso l’insediamento britannico di Puerto Hambre (“Porto Fame”) si superano diversi relitti, qualche villaggio di pescatori, poi compare l’insegna del Parque étnico Keu Ken, un parco a tema sugli indigeni. Nel nulla, ecco un simulacro degli zoo umani che andavano di moda un secolo fa, come il “villaggio negro” ricostruito all’Expo di Parigi del 1899 o alla fiera mondiale di Bruxelles ancora nel 1958. Qui però la mancanza di reperti viventi è compensata da ricostruzioni in plastica. Supero la biforcazione in un silenzio di tomba.
Anche il sito di Puerto Hambre e dell’annesso Fuerte Bulnes, fondato dai cileni nel 1843, si presenta come un parco a tema. Ci dicono che gli edifici sono ricostruiti, ma ci sono molti video e pannelli, e sentieri nel bosco lastricati di legno, fino a un belvedere… Tiriamo avanti senza entrare. La foresta s’infittisce per prepararsi all’impatto delle onde e arriviamo all’inizio del sentiero che segue la costa sassosa. Poco dopo l’inizio della camminata compare a sud-est la sagoma di Isla Dawson. Qui sorgeva il campo di concentramento dove furono deportati quasi tutti i Selk’nam durante il loro genocidio. Dal 1890 il governo concesse la gestione dell’isola ai Salesiani, che si occuparono di assimilare la cultura dei fuggiaschi indigeni. Imprigionati, questi si estinsero presto per le malattie e la tristezza.
L’isola tornò alle sue funzioni di carcere sotto Pinochet, che vi deportò ministri di Allende e altre centinaia di prigionieri politici. I due casi sono accostati da Patricio Guzmán nel suo documentario El botón de nácar (2015), che insiste sull’immagine dell’acqua come luogo della rimozione cilena per eccellenza (il titolo della versione italiana è La memoria dell’acqua). È un’associazione di idee un po’ impressionistica, ma il film mi ha commosso. Descrive il Cile come un territorio chiuso da deserti e monti, un’isola che punta sullo sviluppo dell’allevamento e nega il suo rapporto con il mare, ambiente in cui invece vivevano i popoli nomadi della Terra del Fuoco, capaci di viaggiare per migliaia di chilometri in canoa. Il mare è servito piuttosto a recintare le prigioni e ad accogliere i corpi degli assassinati.
Mentre cammino sugli scogli coperti di cozze e lunghi rami di alghe, continuo a pensare che nelle narrazioni sulla Patagonia ricorre una scissione della coscienza, per cui il soggetto vicino al potere dominante si contrappone a un altro che è il suo doppio negato, la sua ombra, e costituisce una presenza destabilizzante che va allontanata o cancellata. Questa spaccatura a volte attraversa lo stesso individuo. Un esempio è la storia dell’uomo che fu chiamato Jemmy Button. Si trattava di uno Yamana che il capitano Fitzroy imbarcò insieme a altri tre durante la sua prima missione con il Beagle. Jemmy Button e gli altri (uno dei quali morì di vaiolo) vissero due anni in Inghilterra, studiando a spese di Fitzroy, e incontrarono il re e la regina. Tornarono in Patagonia con la successiva missione del Beagle, e furono sbarcati insieme a dei missionari. Alcuni mesi dopo, nel 1834, lo Yamana che era stato chiamato Jemmy Button fu ritrovato, magro e irriconoscibile, salì a bordo, chiese dei vestiti per coprirsi, ma rifiutò di tornare in Inghilterra. Il suo ultimo avvistamento risale al 1855, quando una goletta della Patagonia Missionary Society tornò nella baia di Wulaia. Nella stessa zona, poco tempo dopo, dei missionari furono massacrati con sassi e bastoni nel corso di una funzione religiosa. Jemmy Button fu sospettato di aver organizzato la strage.
Nel corso del secondo viaggio del Beagle c’era a bordo Charles Darwin, che in quella lunga spedizione avrebbe raccolto prove per la sua teoria della selezione naturale e contestato la separazione della specie umana dalle altre. Darwin si trovò bene con Jemmy Button, trovandolo simpatico e apprezzandone la cura nel vestire. Ma lo stesso Darwin, affacciandosi dal Beagle, osservò i fuegini non anglicizzati e annotò sul diario: “Erano le creature più abiette e miserevoli che mai avessi veduto”, dotate di un linguaggio “che si può appena chiamare articolato”. “Vedendo questi uomini difficilmente si può credere che siano nostri simili e abitanti del nostro mondo”.
Questa cecità selettiva, con la violenza incensurata che nasconde, la si incontra subito nei salotti di Punta Arenas con le foto dei fuegini, la si trova in tutte le narrazioni sui fatti cruenti avvenuti in Patagonia, e ora, mentre costeggio la sagoma scura di Isla Dawson, mi ricordo di averla trovata in Notturno cileno di Bolaño, che allarga il discorso e mette a processo la stessa letteratura. Il narratore – un gesuita – racconta dei ricevimenti di scrittori e poeti che si tenevano in una casa di Santiago, nei cui sotterranei, come verrà a sapere dopo la caduta della dittatura, c’era una stanza con un letto di metallo dove venivano torturati i prigionieri politici. La padrona di casa María Canales, pur sapendo delle torture organizzate dal marito, invitava gli scrittori, offriva rinfreschi, concepiva un romanzo. “È così che si fa letteratura in Cile”, scrive Bolaño, “ma non solo in Cile, anche in Argentina e in Messico, in Guatemala e in Uruguay, e in Spagna e in Francia e in Germania e nella verde Inghilterra e nell’allegra Italia”.
Parlando di Isla Dawson, Chatwin non dice nulla di Pinochet e delle deportazioni, ma riporta un’altra storia di prigionia. Un gruppo di indigeni, non potendo sopportare la reclusione, architettò la fuga costruendo un’enorme barca nascosta nel bosco. I salesiani si accorsero del piano e non dissero nulla, finché la barca non fu pronta. La notte concordata i Selk’nam lasciarono la missione e s’incamminarono verso l’approdo. La barca giaceva spezzata in due. Ritornarono silenziosi, arresi: non avrebbero più provato a scappare.
Mentre rivivo queste storie come un rimorso, gli alberi si aprono, arriviamo. Il Faro San Isidro sorge su un promontorio che sovrasta lo stretto, oltre due baie coperte di foresta schiacciata dal vento. A Sud si vedono i monti innevati della Cordillera Darwin. Passa una nave che riporta pescatori o turisti che sono andati a vedere balene. Dal cielo color piombo comincia a scendere una pioggia costante. Le lenti degli occhiali si appannano, l’aria diventa satura d’umidità, le rocce diventano ancora più scivolose, il vento sbatte, e comincia a bruciarmi la pancia.
Sulla via del ritorno ci dividiamo, ognuno chiuso nel suo involucro cerato sgocciolante, incapace di fermare l’acqua, che è ovunque. Continuo a lanciare occhiate al mare, e mi accorgo di un puntino che sale e scende dalla superficie grigia. È un leone marino, che s’interessa a me durante la pesca nella foresta di alghe. Immediatamente mi viene in mente il racconto di Coloane, le foche massacrate, le vittime che osservano, capiscono, ma non reagiscono. Comincia un dialogo di sguardi. L’animale risale la corrente, mi segue, si ferma a osservarmi.
Mentre lo sorveglio con lo sguardo annebbiato, continuo a camminare per arginare l’invasione del freddo, e improvvisamente ripenso alle foto dei Selk’nam dipinti di bianco, rosso e nero. Nudi nel vento gelato, con maschere inquietanti, mentre impersonano i loro demoni. Per molti anni non ho smesso di pensare a questa popolazione scomparsa, studiata e raccontata per la prima volta dal gesuita tedesco Martin Gusinde, che visse qui e scattò le foto che ho in mente. Sicuramente erano stati messi in posa, ma questo non indebolisce il sentimento, a metà tra tenerezza e terrore cosmico, che provo riguardando l’uomo che danza di fronte all’apparecchio fotografico. L’antropologo Ernesto de Martino, attingendo a Gusinde in una pagina de Il mondo magico, scelse proprio i Selk’nam come esempio dell’uomo che ancora lotta per affermare il proprio sé contro la natura, non avendo ancora stabilito con certezza la propria individualità, quella che lui chiamava la presenza. Per quanto de Martino fosse animato dall’ideale di un riscatto politico e culturale di tutti, che applicava allo studio del meridione italiano nel Dopoguerra, provo disagio per come la sua difesa della soggettività individuale lo porti a categorizzare la vita dei Selk’nam come una forma di insufficiente opposizione alla natura. Nei miti Selk’nam il mare, i boschi e le stelle sono tutto, e tra questi luoghi lo spirito continua a muoversi dopo la morte. Non esiste una parola per dire dio. La possibilità che l’individuo si distacchi dalla natura è inconcepibile. Questa prospettiva continua ad apparire estranea al mio pensiero, ma è proprio questo che, comincio a capire, mi attrae verso questi uomini scomparsi, e che invece mi respinge dal Cile che, seguendo un modello ormai globale, m’invita a godere della natura addomesticata e delle sue statue.
Devo trasformare il ricordo di quelle foto che mi ossessiona, che fa di loro un feticcio esotico, un’immagine onirica, che spersonalizza gli uomini ritratti, li riduce a un riflesso ideologico. Devo capire meglio perché mi attirano, senza fraintendimenti. Provo a spostarmi su altre modalità sensoriali. In una installazione della Biennale di Venezia, due anni fa, si potevano ascoltare le voci registrate di nativi che parlano le loro lingue ormai scomparse, e c’erano anche quelle dei Selk’nam e degli Yamana. Ma quelle voci di fantasmi non sono intelligibili, soccombono alla proiezione, come il mio vedere una risposta nel leone marino che continua a spuntare per localizzarmi con gli occhi bagnati. Ogni comunicazione rischia di essere un equivoco.
Finché non trovo la chiave. Nella Biblioteca del British Museum è custodito il dizionario di lingua yamana preparato da Thomas Bridges, ricordato anche da Chatwin. Non sorprende che il lessico svolga complesse funzioni di orientamento. Dai verbi riemergono frammenti di vita. Wejna significa:
‘essere libero e facilmente spostabile come un osso rotto o una lama di coltello’, ‘andare alla ventura, vagare qua e là come un bambino senza casa o sperduto’, ‘essere attaccato ma nello stesso tempo libero, come un occhio nella sua orbita o un osso nella sua cavità’, ‘dondolarsi, muoversi o viaggiare’, o semplicemente ‘esistere’ o ‘essere’.
Insomma mi sto lasciando andare al pianto per una persona che non distingueva esistere, muoversi e viaggiare, un uomo o una donna per cui il modello di vita imposto a Isla Dawson, nonostante le buone intenzioni dei Salesiani, era insopportabile. Per un attimo penso con riluttanza all’aereo che mi porterà indietro. C’è un momento di vicinanza, prossimo all’identificazione, che non si realizza in un’immagine o in un suono, ma soltanto nella propriocezione a cui sono ridotto dopo ore di cammino, la stessa di cui dev’essere stata sostanziata la vita degli Yamana occupati a sopravvivere in queste terre. Nella loro lingua, che continua a parlarmi, uno stesso nome vuol dire ‘ghiaccio che si scioglie’, ‘cicatrice’, ‘insegnamento’. Una traccia che tende a scomparire. Quel che mi resterà, quando il sole di Punta Arenas lascerà asciugare i vestiti e sfumare le passioni del corpo, è un diverso sapere.