N ella sua forma patologica, quindi di malattia mentale inquadrata da strumenti diagnostici come il manuale DSM, il narcisismo è un grave disturbo della personalità caratterizzato da pochi elementi chiave: mania di grandezza, assenza di empatia verso gli altri, smodato bisogno di ricevere conferme. Solo sette anni fa una parte della comunità psichiatrica americana voleva retrocederlo da disturbo autonomo a “tratto” che complicava altri disturbi. Nella sua manifestazione esterna, nelle cose che un vero narcisista dice e fa, la situazione diventa sfumata. Alcuni esagerano per darsi importanza; altri – i tipici soggetti da film per la televisione sulle storie d’amore che iniziano bene ma poi prendono una piega inquietante – sembrano fabbricarsi una nuova versione di sé ogni volta che desiderano qualcosa. E si può parlare di tratti narcisisti quando un individuo sano adotta comportamenti che spostano l’ago della bilancia in quella direzione.
Se restiamo ai dati, non è chiaro a nessuno quanto il narcisismo sia il sintomo reale di una grande frattura psichica nella razza umana, qui e ora, oppure una sagoma utile in cui calare tutto quanto venga percepito come storto, brutto, non giusto o viziato da eccessiva vanità (in cui l’eccesso è di norma definito dalla generazione precedente quella in corso). Di sicuro, a differenza di altri malesseri del decennio, il disturbo d’ansia generalizzato o la depressione maggiore, il narcisismo avrebbe un impatto profondo più dannoso perché solo di rado sarebbe il diretto interessato a presentare richiesta d’aiuto: le caratteristiche del disturbo sono ostili alla cura, il malato pensa di stare benissimo, quello ad alto funzionamento riesce serenamente a tenersi il lavoro e a mandare avanti un matrimonio. Non desta allarmi.
Alcuni divulgatori volonterosi hanno sottovalutato il fenomeno, forse, oppure ne hanno esacerbato gli aspetti superficiali. Il primo articolo di giornale che crea un legame tra “narcisismo” e “troppa attenzione all’aspetto fisico, radersi le sopracciglia” è apparso sul Telegraph del 2008: sono passati dieci anni, l’equazione si può considerare smontata? I selfie non c’entrano nulla: nel momento in cui esiste un dispositivo tecnico che produce immagini esistono in automatico le maniere di abusarne. Non c’è stata una simile ondata di sdegno quando sul mercato mondiale arrivarono le videocamere nei primi anni ’80, nonostante il tasso immane di filmini familiari da loro generato, non esistevano giudizi cripto-medici espressi su Cindy Sherman, l’artista specializzata nell’autoritratto. Questo nonostante l’attenzione intorno a Sherman fosse enorme, la sua fortuna commerciale gigantesca, e il suo lavoro assumesse forma sempre più pubblica nell’epoca ribattezzata “the Me Decade”, il decennio dell’io. Va detto, Sherman viveva negli Stati Uniti, e lì c’erano già regole nettissime su quanto si poteva affermare a mezzo stampa.
La Goldwater rule prevede che gli psichiatri americani non possano esprimere opinioni sul conto di un personaggio pubblico: le diagnosi si fanno soltanto ai pazienti, sulla base di osservazioni dirette, siano esse test clinici, sedute di terapia, produzione di materiali. Una regola formulata dalla American Psychiatric Association nel 1973, e sottoscritta, poi, da altre società di professionisti, che obbedisce a un generico buon senso: nessun medico dovrebbe parlare di cantanti e attori come se li conoscesse (per capirci: se Ben Affleck divorzia, la comunità scientifica giustamente tace). Eppure nasce da un episodio urgente, per cui è stato stimato che un numero monografico della rivista Fact tutto dedicato al senatore repubblicano Barry Goldwater abbia compromesso il suo percorso politico, con la sconfitta nelle elezioni presidenziali del 1964. Quel numero è interamente disponibile su Scribd. Il taglio della rivista in effetti fu catastrofico: la copertina strillava, “1.189 psichiatri dicono che Barry Goldwater è psicologicamente inadatto alla presidenza!” e il contenuto attaccava con metodo il personaggio facendo riferimento a eventi della sua infanzia o ai programmi TV che era noto guardare. Una linea andava tirata, insomma.
A differenza di altri malesseri del decennio, il narcisismo avrebbe un impatto profondo più dannoso perché solo di rado è il diretto interessato a presentare richiesta d’aiuto.
La Goldwater rule è stata applicata senza forti scosse – poca accademia, nessuna contesa – almeno fino al 2016, quando Donald Trump ha vinto la candidatura Repubblicana e ha partecipato alla corsa per la presidenza, e il codice di condotta è diventato oggetto di una discussione accanita. Per alcuni professionisti l’argomento è stato: la percezione di una personalità pubblica è stata alterata dalla rapidità e meccanicità con cui si comunica oggi; al centesimo tweet fuori misura, buttare lì una diagnosi è non solo possibile ma auspicabile. Perciò è in atto uno scisma tra medici/attivisti, quelli che ritengono Trump rappresenti un pericolo sociale da fermare a ogni costo, come i 2.000 terapeuti firmatari di un manifesto contro il Trumpismo, e medici che invitano alla cautela bipartisan quando non collaborano a saggi intitolati Il narcisismo nell’era del presidente Trump.
Non esiste un equivalente formale della Goldwater rule in campo italiano, ma il protocollo non ufficiale consiglia ai terapeuti di adottare il silenzio per quanto concerne la sfera pubblica. Ci sono state, però, eccezioni significative.
Nel 2002 il neurofisiatra e psicanalista freudiano Mauro Mancia andò ospite al programma televisivo L’infedele, condotto da Gad Lerner, e si espresse liberamente sul conto di Silvio Berlusconi, attribuendogli un complesso d’inferiorità, parlando di “dimensioni megalomaniche e patologiche”. Le reazioni feroci di esponenti politici vicini a Berlusconi furono prevedibili: l’episodio non ebbe conseguenze rapide sulla carriera di Mancia, allora docente di Neurofisiologia all’Università Statale di Milano, ma fece partire un dibattito accanito (e purtroppo limitato alla tradizione orale) all’interno della comunità. Sul narcisismo il professore aveva già scritto e avrebbe continuato a svolgere ricerca. Non aveva usato quel termine esatto per parlare di Berlusconi. Però lo studiava sulla base del comportamento pubblico – le scelte di abbigliamento, il linguaggio del corpo, l’atteggiamento – e individuava il suo ascendente nelle proiezioni di successo da parte dei suoi estimatori. Per certi colleghi, Mancia non avrebbe dovuto dire nulla, non in TV, non a un giornalista che lo definiva “un luminare”. Aveva abusato del suo ruolo.
Quest’estate, di fronte alle uscite di Matteo Salvini sulla necessità di riaprire i manicomi, c’è stata una risposta compatta da parte della Società Italiana di Psichiatria, seguita dalle principali società analitiche freudiane e junghiane (AIPA, ARPA, CIPA, SPI), che si sono mosse al completo tramite i loro canali ufficiali: stateci attenti, le singole dichiarazioni si sarebbero prestate alle stesse accuse di personalizzazione, e chi sta esprimendo giudizi in via individuale rischia di cadere nel vuoto. I criteri solidi premiano l’azione concreta di gruppo. Ma se un esperto non può parlare di politica o di società, a collocarsi saldamente in primo piano arriva, fatalmente, il ripiegamento sul privato.
In Italia e nel resto del mondo stiamo assistendo a un’ondata di divulgazione sui pericoli dell’infilarsi in una relazione sentimentale con un narcisista e sui metodi per tirarsene fuori; si ridefiniscono all’infinito le stesse pratiche, vedi il love bombing – quella per cui in una prima fase il narcisista coprirebbe la preda di complimenti e regali materiali; lo stesso termine si usa per delineare il periodo di grazia di chi entra in una setta religiosa – e l’unica risposta predicata, il no contact, per cui si troncano le comunicazioni, dalle telefonate alle e-mail alla sbirciata delle immagini caricate sui social (di nuovo, molto simile alla dinamica tra un de-plagiatore e il soggetto di una rieducazione). È probabile che questa intensa messa a fuoco del malato come peggior compagno del mondo nella sfera privata risponda al desiderio di produrre contenuti masticabili con voluttà, divertenti da citare al bar: pensiamo ai video “I dieci segni che state con un narcisista”, spesso assemblati a partire dalla medesima pagina della rivista Psychology Today, unica vera fonte di una vaga stima sul sesso di nascita, cioè che “tra il 50% e il 75% dei narcisisti sono maschi”. Ed è probabile che l’offerta si sia verticalizzata per andare incontro al mercato, presente o futuro. Chi è tormentato da un narcisista sul lavoro opera una scelta tra stringere i denti e licenziarsi; non va quasi mai dall’analista, non è così che funziona. Mentre i professionisti “esperti di narcisismo patologico” promettono di aiutare a liberarsi da un partner mostruoso, meno spesso garantiscono fortuna se c’è in ballo un genitore, condividono storie personali quale dimostrazione di conoscenza della materia.
Ci troviamo a vivere in un periodo dove ad affermarsi è stata l’auto-narrazione elevata a sigillo di genuinità e autorevolezza: un momento di narcisismo sociale che poggia su un fortissimo disimpegno collettivo.
Sulle comunità online aleggia la presenza dell’australiana Melanie Tonia Evans, che ha costruito il suo regno intorno a una lunga vicenda individuale e vende un metodo brevettato per purificarsi (quanta healing). Buona popolarità l’ha raggiunta la coach americana Kim Saeed, che tramite il sito Let Me Reach ha raccontato un matrimonio piagato, a suo dire, dal crescendo di abusi emotivi, esistenziali ed economici a opera dell’ex marito (ma c’è il lieto fine, perché Saeed sarebbe riuscita a emanciparsi, a riprendere gli studi e a rimettersi al mondo con una nuova veste, tenendosi il cognome di lui.) La personalizzazione non deve spaventare più di tanto – nei paesi di lingua inglese definirsi il primo successo del proprio sistema è quasi una regola per chi si affaccia ai mestieri in ambito terapeutico dopo i quarant’anni, ed è un approccio diffuso nel settore dell’auto-aiuto, dal disordine alimentare alla tossicodipendenza – ma è pur sempre un indizio che il conflitto diventa un elemento spendibile. Io ne so; ci sono passato.
Intanto, però, alcuni tratti del disturbo rimangono fuori dalla conversazione accessibile a tutti. Il narcisista è capace di mentire sui titoli di studio o sull’esperienza professionale, vuoi per avere accesso a un posto di lavoro che altrimenti non otterrebbe, vuoi per convincere il prossimo a dargli fiducia; il narcisista desidera non soltanto affermarsi – quella si chiama ambizione – ma sabotare ogni concorrente diretto o indiretto in vista del suo traguardo. Ce ne rendiamo conto quando il disturbo sfocia nella cronaca nera (un classico del filone Italia, scivolato in secondo piano per l’insorgere di altre emergenze, è stato il falso laureato che si uccide se la bugia viene scoperta dai genitori) o quando un artista prende spunto dalla realtà per un’opera che diventa rilevante. Jean-Claude Romand sterminò la famiglia nel 1993 dopo vent’anni in cui si era finto medico e poi ricercatore presso l’OMS: in tribunale sfilarono tre psichiatri, uno parlò di “furia narcisista”; Emmanuel Carrère ci ha scritto L’avversario, Laurent Cantet e Robin Campillo hanno adombrato la vicenda con A tempo pieno. Non ne parliamo mai. Sono libri, sono film, sono storie terribili. Nel mondo reale, meglio puntare sui singoli uomini malati, pessimi mariti. L’insistenza con cui la divulgazione spinge sul lato romantico è un elemento che resta sospetto, in assenza di studi quantificabili sul narcisismo come variabile sottoposta a sbalzi di genere. Ci sono voci più caute – la terapeuta Terri Cole, una tra i tanti, è stata attenta a non lanciare messaggi sul sesso di nascita – ma finché non ci saranno i numeri resteremo confinati a un immaginario da Settimana Enigmistica, che fa comodo, non impegna, non chiede di allargare la visuale a nessuno.
Esiste un’etica di base quanto esiste una violazione quotidiana di essa, no? Ci troviamo a vivere in un periodo dove ad affermarsi è stata l’auto-narrazione elevata a sigillo di genuinità e autorevolezza; io forse ne so e forse non ne so, quindi sono la persona adatta a prendere le decisioni, tutte. Io non provo empatia verso nessuno, quindi posso tempestare di messaggi Radio 3 chiedendo ai conduttori se per identificare i cadaveri ripescati dopo un naufragio sarà necessario fare il test del DNA a tutta l’Africa (è successo due estati fa). È un momento di narcisismo sociale che poggia su un fortissimo disimpegno collettivo. A saltare sono state le forme di contenimento elementare della mitomania – da più di due anni parliamo di fake news per l’impatto che hanno sulla nostra capacità di prendere decisioni lucide: la falsa notizia sui vaccini si può costruire ad arte, ma se circola è per l’affanno della condivisione da parte degli utenti convinti di sapere già tutto, e se rimbalza su un giornale è per il bisogno/desiderio di arrivare primi nel commentare la viralità di una menzogna; allo stesso modo, un narcisista può gonfiare il suo curriculum quanto gli pare, ma se poi ottiene davvero il lavoro è anche a causa di un periodo di prova che non c’è stato per mancanza di tempo, di un addetto alle risorse umane che non ha verificato nulla per noia, per fretta, per disaffezione verso il mestiere o l’ambiente.
Allora cominciamo a parlare di narcisismo, con calma, come un tratto patologico che squarcia il tessuto sociale se a ottenere incarichi di responsabilità sono persone non competenti, sferra un danno economico al lavoro se un dipendente rallenta o blocca gli altri, porta interi gruppi a implodere se a essere fuori posto è il capo, il leader.