C on l’inizio degli anni Ottanta migliaia di giovani e giovanissimi, operai, impiegati e studenti, accusati di partecipazione a banda armata e terrorismo, finiscono rinchiusi in strutture isolate o nel circuito delle carceri di massima sicurezza, costruite fra distese incolte o nella estrema periferia: Asinara, Cuneo, Trani, Badu e’ Carros, Fossombrone, Termini Imerese, Ascoli Piceno; le donne vengono mandate a Latina, Voghera e Messina. Nel 1979 inaugura in provincia di Reggio Calabria il supercarcere di Palmi, voluto dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. A Palmi vengono trasferiti circa duecento prigionieri politici, comprese alcune figure di spicco della lotta armata. Le acque viola descritte nel IV secolo a.C. da Platone e lo scoglio dell’Ulivo detto Luvareddhra, che affiora aspro davanti alla spiaggia della Tonnara, distano pochi chilometri dai cubicoli e dai camerotti dove sono alloggiati i detenuti.
A Palmi qualcosa finisce e qualcos’altro inizia: “[…] mi perdo nelle Calabrie: che si fanno sempre più Calabrie, sempre più Calabrie, finchè a Mileto, a Palmi, comincia la Sicilia”, scrive Pasolini in La lunga strada di sabbia, col cuore stretto da un sentimento d’ineluttabilità confessato nella tesi di quel “sempre più” e poi, in vista della Sicilia, confutato dal presagio di un nuovo inizio. Il carcere di Palmi è un luogo concreto e chimerico. Ricorrerà spesso nella letteratura e nella memorialistica sugli anni del terrorismo. Sarà sempre accompagnato da una certa fama; verrà ricordato come una sorta di agorà e di catino dove le vicende del decennio rivoluzionario si andavano depositando, gli anni Ottanta erano alle porte e sulla brandina, per alcuni, cominciava un periodo di metamorfosi. Palmi è uno spazio in cui si disfa e cambia di stato un pezzo di storia italiana.
“Ogni metamorfosi è, da una parte, canto del cigno, dall’altra ouverture di un nuovo grande poema che in colori brillanti, ma ancora confusi, cerca di acquistare consistenza”: è una citazione di Karl Marx usata in apertura di un documento prodotto da un collettivo di prigionieri di Palmi, pubblicato alla fine del 1982 sul periodico Controinformazione. Il brigatista Enrico Fenzi nel libro di memorie Armi e bagagli scrive:
Nella testa dei leader delle Brigate Rosse aveva preso forma un’idea: che quel carcere potesse diventare qualcosa che stava tra l’Università e il quartier generale della lotta armata. “A Palmi si studia, non si lotta!”, hanno detto per anni gli altri detenuti delle altre carceri speciali.
A Palmi viene spostato il nucleo storico delle Brigate Rosse: Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e, tra gli altri, Paolo Maurizio Ferrari, il primo BR catturato, nel 1974, che da Palmi scrive per la prima volta alla madre. Gallinari definisce Palmi “una brigatopoli a due passi dallo Stretto di Messina”. Nelle celle e all’aria si riflette, si discute, ci si spacca tra le mozioni Partito Guerriglia e Partito Comunista Combattente, si tirano le somme e poi si scrive.
Sulla rivista Frigidaire, Vincino disegna la cella di un carcere speciale: ci mette due lettini avvolti da affettuose copertine verdi e intorno schizza otto figurine di detenuti, barbuti e in maglioncini dai colori vivaci, ritratti nel mezzo di una tormentata discussione che sembra appena piombata in un silenzio pensoso; al centro un prigioniero, dall’aria mite, serba sulle ginocchia un foglio tutto scribacchiato, mentre dalla giacca di un altro, seduto su una seggiolina, spunta il bordo di un foglio bianco. Insomma si ragiona, vengono redatti documenti e si prendono appunti, anche se sotto l’occhio di una telecamera, che Vincino non dimentica d’inserire per mostrare il carattere antiumano dei nuovi dispositivi di sorveglianza.
Da Palmi escono i documenti Per una discussione su soggettivismo e militarismo, Forzare l’orizzonte, Non è che l’inizio e l’autointervista Domande-Risposte-Domande. Oppure si replica con una feroce lettera pubblica, firmata “Il collettivo dei prigionieri comunisti delle Brigate Rosse”, alla lettera di un dissociato uscita sulle pagine del settimanale L’Espresso. La missiva è disseminata di passaggi in cui il collettivo si rivolge per nome al destinatario, come a sottintendere le conseguenze che possono derivare dalla rottura di un legame indissolubile.
Sei uno schiavo, Alfredo, uno schiavo metropolitano con le catene ai piedi e i lucchetti nella coscienza. Povero Alfredo, così ridotto a significante senza significato.
Curcio e Franceschini nel 1982 scrivono un pamphlet di quasi trecento pagine, dal titolo insolitamente evocativo: Gocce di sole nella città degli spettri. Si tratta di un tentativo di aggiornamento teorico che passa per l’osservazione della realtà metropolitana. Lo stralcio sembra nutrito da studi sulla cibernetica e sulla teoria dell’informazione:
la metropoli informatizzata appare come un grande ergastolo (…) reso trasparente dalle reti informatiche e telematiche che lo sorvegliano incessantemente. In questo modello lo spazio-tempo sociale metropolitano si ricalca sullo schema di un universo assolutamente prevedibile (…) regolato da dispositivi di retroazione selettivi e adibiti alla neutralizzazione di ogni perturbazione del sistema di programmi deciso dall’esecutivo.
Per Franceschini il carcere calabrese sarà più tardi il teatro di una trasmutazione e della scoperta di altre antropologie. Lo racconta nel volume autobiografico Mara, Renato e io: “cominciai a leggere libri che l’ortodossia brigatista aveva da sempre messo all’indice. Lessi degli indiani d’America e mi appassionò il loro modo assolutamente individuale di porsi di fronte alla vita e la loro capacità di accettare qualunque esperienza. La mia lettura preferita divenne Hanta Yo o”. A un certo punto, tra il serio e il faceto, dice di voler essere chiamato con un nomignolo che si è autoassegnato: “‘Zampa di quaglia’, uno stregone indiano. E dalla tasca tiravo fuori una zampa di quaglia vera, che avevo fatto essiccare sul termosifone della cella”. Franceschini cambia pelle. È come un affondo di pedale sulla ruota del karma. La ruota gira e per un tempo determinato il mondo e l’identico appaiono in una luce diversa. Qualcuno ricorderà una canzone, scritta da Mango e ispirata al tema del mutamento e della reincarnazione, che Scialpi cantava proprio in quegli anni, L’io e l’es, e il verso “O vita, ma quante facce hai”.
Tra i detenuti di Palmi c’è anche un autonomo calabrese, Francesco Cirillo, autore di diversi libri, tra cui l’introvabile Sotto il cielo di Palmi e poi i recenti Il bibliotecario delle Brigate Rosse e Sud e Ribellione, dove Cirillo ripercorre da una parte la sua avventura umana, politica e carceraria, con tanto di breve fuga a Parigi, dall’altra il ciclo di lotte contadine, operaie e studentesche, spesso in opposizione alle mafie locali e alla speculazione edilizia, che ebbero luogo in diverse aree del meridione, compresi minuscoli e talvolta remoti paesini della Calabria: Verbicaro, Grisolia, Africo Nuovo. Cirillo esce dal carcere per recarsi a processo nel giugno dell’81, dopo aver scontato, tra Palmi e altri istituti di pena, 424 di giorni di prigionia. L’8 giugno arriva la sentenza di condanna a un anno e due mesi. Il reato è quello di cospirazione politica e non di partecipazione a banda armata, come sostenuto dall’accusa. “Un escamotage per non riconoscere l’assoluzione piena”, sostiene Francesco. Ci siamo sentiti più volte per email e telefono.
La voce di Francesco Cirillo
All’inizio degli anni Settanta eri uno studente di architettura a Napoli. Come racconteresti, da questo punto di vista, gli spazi di quella struttura?
Qual era il clima tra i detenuti?
A Palmi si studiava marxismo, perciò si era creata questa fama di università. Le teste pensanti delle BR erano tutte lì. Si studiavano l’economia, la politica delle multinazionali e quel che succedeva a livello globale. Basta rileggere pubblicazioni come Corrispondenza Internazionale e Controinformazione per farsi un’idea. C’erano Renato Curcio, Lauro Azzolini, Prospero Gallinari (che a Palmi si sposò con rito civile insieme ad Anna Laura Braghetti, Ndr), Franco Bonisoli, Angelo Basone, ma pure figure provenienti da altri percorsi, come Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Oreste Scalzone e altri finiti a Palmi dopo l’inchiesta 7 aprile. Ricordo che un giorno su un muro del corridoio scrissi: “Chi vi credete che noi siam per i capelli che portiam\noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre”. Il giorno dopo Prospero Gallinari mi chiese se la frase fosse di Che Guevara, io gli risposi “No, Prospero, è di Franco Battiato.”
E di Spalmy, cosa potresti raccontare?
Che letture si facevano, tra i detenuti di Palmi?
E a Palmi c’era una biblioteca…
Cosa ricordi, di quelle notti trascorse in carcere?
Sognare i sogni di Palmi
Ho pensato di domandare a Francesco a proposito delle notti in carcere, per gettare il filo di un gomitolo che porta fino a un libro pubblicato nel 2011: I sogni di Palmi. Ne I sogni di Palmi l’ex BR Nicola Valentino – fondatore con Renato Curcio e Stefano Petrelli della casa editrice Sensibili alle foglie – ricostruisce la storia di una sorta di laboratorio basato sul sogno, nato a Palmi nella primavera del 1984 e proseguito fino all’estate su iniziativa di un gruppo di sedici reclusi, detenuti per aver militato nelle Brigate Rosse o in altre formazioni armate. Il gruppo cominciò a trascrivere i propri sogni. I foglietti con le trascrizioni circolavano di cella in cella, grazie alla complicità di un scopino, fino a formare una sorta di faldone, di manoscritto vero e proprio, oggi conservato presso l’”archivio di scritture e arte irritata” di Sensibili alle Foglie. Alla fine vennero raccolti 97 sogni. “L’esperienza di lotta armata si andava esaurendo e con essa il ciclo di lotte sociali e politiche che l’avevano suscitata”, scrive Valentino nell’introduzione, “Un’esperienza di ‘fine del mondo’, l’avrebbe definita l’antropologo Ernesto De Martino”.
Nei sogni precipitano le fantasie più disparate: l’evasione dal carcere; un mostruoso carro armato che emette un “infernale rumore di ferraglia”; una donna che si trasforma in un poster di Cicciolina; il sesso con la moglie del direttore del penitenziario (come nell’articoletto apparso su Spalmy): “Mi introduco di soppiatto in un’abitazione dove c’è una signora sui cinquant’anni, ancora piacente, che dev’essere la moglie del direttore (o roba del genere) con cui ho un rapporto di ‘dominanza’”.
I sogni non vengono sottoposti a un lavoro di analisi e interpretazione, perché si ritengono più importanti il mero racconto e la condivisione. Così accade anche presso un popolo di costumi egualitari, che vive di agricoltura “taglia e brucia” nella giungla della Malesia: i Senoi. “Le giornate di questa tribù seminomade”, scrive Valentino, “iniziano con la comunicazione collettiva dei sogni della notte”. È ai Senoi e al rito mattutino di condivisione dei sogni – reso noto grazie a un articolo dell’antropologo Kilten Stewart, pubblicato nel 1951: Dream Theory in Malaya– che s’ispira il laboratorio onirico nel supercarcere calabrese.
Come in ogni galera, anche a Palmi il corpo scalcia e grida. Nel 1984 Giorgio Panizzari, delinquente comune politicizzatosi in cella negli anni Settanta e di nuovo detenuto a Palmi, si cimenta in un gesto che ricorda una performance di body art: con del filo per suture chirurgiche, si cuce bocca e genitali.
Mi ero cucito bocca e uccello per sperimentare e verificare una cosa della quale ero convinto: che sarebbe stata la stessa cosa! Che non avrei apprezzato alcuna differenza tra corpo cucito e corpo non cucito… Che la bocca l’avevo cucita in quanto fonte e organo principale della comunicazione linguistica, logico-razionale, e il cazzo quale fonte principe (ma non certo la sola) di una comunicazione del corpo, dei suoi sentire, dei suoi desideri… Questo sostenevo. E certo non solo (e non principalmente) per via della condizione carceraria di Palmi.
Nel 1990 la stagione della lotta armata è finita da un pezzo. Alle spalle resta un paesaggio di macerie, lutti e famiglie spezzate. A Rebibbia nasce la cooperativa editoriale Sensibili alle foglie, fondata dai prigionieri Renato Curcio, Nicola Valentino e Stefano Petrella. Il primo libro pubblicato è Nel bosco di Bistorco e raccoglie le voci anonime di detenuti finiti in carcere per disparate ragioni: un corposo montaggio di minute testimonianze, di frammenti poetici e filosofici, dove l’esperienza del corpo recluso è analizzata con lucidità e restituita al lettore con trasparenza. In carcere il corpo è soggetto a una violenta amputazione e secondo i tre autori è solo grazie a uno stato modificato di coscienza che il prigioniero riesce a sopravvivere: ”Senza la valvola degli stati modificati di coscienza – delle transe spontanee – nessun recluso si manterrebbe a lungo in vita”.
In una pagina di Nel bosco di Bistorco viene trascritto un elenco parziale di trecento nomi di attrici, cantanti e soubrette, che un carcerato, con calligrafia minuta, aveva appuntato sul muro accanto alla branda: Sylvia Kristell, Whitney Houston, Mara Venier, Brooke Shields, Paola Turci, Raquel Welch, Moana Pozzi, Pamela Prati, etc.: “tanti cadaveri di lettere nere spiaccicati sul muro come altrettante zanzare”. Eppure, grazie all’appiglio di un ricordo, serbato e coltivato ogni giorno come una rosa, grazie alla scrittura di un diario, ai sogni a occhi aperti, a un profumo insinuato tra le grate e trattenuto con ostinazione fra le narici, il detenuto può trasformarsi in quel Vagabondo delle stelle raccontato da Jack London, capace di sfuggire al carcere, attraversando altre esistenze e altri universi, per mezzo dell’immaginazione. Questa sorta di corpo astrale così ottenuto, si offre come surrogato a chi passeggia avanti e indietro nel cortile di un carcere, ma forse anche a chi oggi, nella pandemia, sperimenta una nuova condizione di isolamento e di inibizione al contatto.
Palmi è stato il luogo di un mutamento, di un oscuro lavorio, di una transizione tra un prima e un post. Nei cubicoli e camerotti di Palmi sono rifluite correnti profonde della storia italiana e occidentale, esposte tanto al rischio della disgregazione quanto a quello della stagnazione. Osservando al crepuscolo il tratto di costa calabrese, allora magnogreca, che va da Palmi a Seminara, Platone parlò di un colore viola, che tingeva le acque cangianti, creando “una visione sempre nuova”.