Pakistan dionisiaco
Viaggio nella “terra dei puri”, dove l’estasi dei riti dionisiaci incontra l’asprezza delle montagne più alte del mondo.
Viaggio nella “terra dei puri”, dove l’estasi dei riti dionisiaci incontra l’asprezza delle montagne più alte del mondo.
È il 14 agosto, primo pomeriggio, il vento rovente è una pulsazione debole nell’ostello di Lahore. Calore e gravità ci schiacciano. Ma ci decidiamo a uscire: è il giorno dell’indipendenza e Malik, mentre apre il lucchetto, assicura che ci saranno festeggiamenti nelle strade. Poi richiude il portone.
Le strade sono deserte. Un asino e dei corvi si contendono un cumulo di rifiuti. La pressione delle nuvole è palpabile. Saliamo su un motorisciò che ci lascia di fronte alla porta della città vecchia. Ci incamminiamo tra i vicoli e le belle moschee addormentate, tra minareti d’oro, piastrelle cadenti, e vasche coperte di foglie galleggianti. Ecco i passanti, solo uomini in camicie lunghe o in t-shirt: capelli densi, tinte color carota. La pioggia cade di scatto, come per l’apertura di una cataratta. Ci rifugiamo in un negozio di scarpe, tra le risate generali. Quando spiove ci avviciniamo al carro di un fruttivendolo, che solleva un foglio di plastica bagnata e ci offre del melone verde già tagliato in fettine luccicanti. Le portiamo alla bocca sapendo che quel gesto ci costerà carissimo. È delizioso. Confluiamo verso il Forte, mentre gruppi di persone accelerano e s’ingorgano. Monta una tensione misteriosa, che poco prima non era immaginabile.
Forse è il nome del Pakistan, che secondo una possibile etimologia significa “paese dei puri”, e il confronto con l’India – gemello impuro da cui lo stato islamico si è distaccato –, comunque la prima impressione di Lahore, a pochi chilometri dalla frontiera, è di una città indiana in cui la legge pretenda (invano) di abolire il caos. Le moschee sono enormi spazi vuoti in cui l’individuo è ridotto a silenzio, pulizia, preghiera. Le mura del Forte sono distinzioni insormontabili tra il dentro e il fuori. Ovunque lo sguardo resta digiuno di immagini. Merci scadenti restano ignorate sulle bancarelle. Domina una purezza al tempo stesso infantile e militare. Colpisce – connaturata a tutto questo – la quasi totale assenza delle donne per le strade: maschi e femmine coesistono come liquidi immiscibili in un’emulsione. Le persone appaiono accigliate: conversano a bassa voce, sorridono con timidezza, sembrano accettare tutto come una necessità – anche noi, eredi di un mondo che una volta destava sospetto e deferenza, ormai niente più che vagabondi eccentrici, eccezioni, ricevuti con educazione e semplice curiosità.
Ma poi, arrivati al Forte, sentiamo questa energia ignara dei divieti. Decine di sandali oziosi pendono dalle feritoie delle mura, volano aquiloni, si sentono risate maliziose. Le grosse capre smettono di brucare l’erba e strillano con le lingue di fuori. Siamo spinti dal getto festoso, compressi, costretti a stringerci per mano per non perderci; un soldato irrompe col fucile per ripristinare l’ordine, ma è inghiottito nella strozzatura di corpi sudati: entriamo.
Passano un paio d’ore divertenti, in cui siamo l’attrazione del giorno per schiere di bambini e ragazzi con le facce dipinte di verde e bianco, i colori nazionali. Entriamo in un migliaio di foto di gruppo. Un uomo ha la pelle ricoperta di spille con la bandiera. Qualcuno tira fuori un pallone. Ci affacciamo nelle sale di epoca moghul, caleidoscopi di piastrelle, argento e pietre preziose mangiati dall’umidità, ma i gruppetti di curiosi ci inseguono.
Torniamo soli quando usciamo dal Forte strapieno e passiamo le arcate della Moschea Badhshahi, che da ore aspettava sullo sfondo. I mattoni e le cupole grigie già s’infiammano di arancio. Ogni particolare si dilata, risuona. Il cortile enorme è striato di tappeti sinuosi, il canto dei muezzin è lento, ipnotico. Un ragazzo seduto parla al telefono. Le famiglie vestite a festa sfilano verso le sale, nicchie di luce calda. Due bambine sono sole al centro del cortile: una in piedi che prega, l’altra stanca che si abbraccia il ginocchio. I pali infiniti dei minareti sorreggono una tenda cosmica. Ogni tensione è arginata.
Ma quando usciamo, nella notte si è liberata un’energia anarchica, in cui sensualità, nazionalismo e gioco si confondono. Sulla spianata intorno al Minar-i-Pakistan, l’obelisco illuminato di verde, la polizia carica la folla che si sparpaglia, ci investe come un’onda. Trascinati nella frenesia generale, cadiamo in un’enorme pozzanghera piena di infradito spaiate, e perdiamo qualcosa. Gli adolescenti illuminano l’acquitrino con i cellulari, tastano dov’è proibito, ridono, scompaiono nel buio.
Mentre cerchiamo di lasciare il centro città, bande di ragazzini sciamano nel traffico bloccato. Toccano le signore sedute sui motorisciò, che si difendono con lunghi bastoni. Diversi di loro mi invitano, mi mandano baci, si abbracciano amorosamente, si mettono in posa. La gente spara bengala e accende fuochi sui tetti delle auto. Schiere di motorini con famiglie intere arrancano, i figli sventolano le bandierine, la carne arrostisce, tutti i sensi sono eccitati al massimo. Dietro di noi c’è una violenta esplosione.
Il giorno dopo è tornata la normalità e andiamo al Museo di Lahore. Basta un’occhiata al cortile per innescare una commovente reminiscenza:
Era seduto, in barba alle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah che su un basamento di mattoni fronteggiava il vecchio Ajaib-gher, la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore. Chi detiene Zam-Zammah, il «drago sputafuoco», tiene il Punjab, e quel gran pezzo di bronzo verde è sempre stato la preda più ambita dal conquistatore.
Su quel cannone c’era Kim! Il “piccolo amico di tutto il mondo”, l’orfano europeo di Lahore che “non faceva niente, e con enorme successo”, eroe del libro in cui per la prima volta ho sentito parlare della città. Il protagonista di Kim (1901), che si travestiva da indiano e “aveva imparato a evitare i missionari e i bianchi dall’aria seriosa che gli chiedevano chi era e cosa faceva”, è un archetipo del viaggiatore che si muove senza interessi pratici, emigrante ozioso che desidera recidere il legame con la patria, mischiarsi con gente straniera, vivere avventure osservando tutto da una distanza segreta. Il bambino che gioca sul cannone, del resto, era un’immagine dell’infanzia perduta di Rudyard Kipling, nato a Bombay e profondamente anglo-indiano (raccontava di parlare inglese a tavola con i genitori e sognare nella lingua dei domestici portoghesi e indiani che gli raccontavano le favole). Dopo gli studi in Inghilterra, che lo avevano allontanato dall’amata India, Kipling era tornato a Lahore per lavorare al museo che era diretto da suo padre, e aveva vissuto qui per cinque anni. Di fronte all’edificio, tutti i giorni, vedeva il cannone.
Mentre varchiamo la soglia del Museo sento che mi ha spinto a venire qui anche la nostalgia per quel libro e per lo stato di felicità che evoca nel lettore: Kim racconta un mondo di divisioni – la rivalità anglo-russa del “Grande Gioco” e la molteplicità spirituale dell’India britannica – con lo sguardo di un bambino che non vi prende partito. Ammirando l’esposizione di sculture del Gandara e della Battriana, dipinti moghul, thangka tibetani, mi rendo conto di quanto la storia inventata da Kipling fosse anche un gioco di animazione degli oggetti qui collezionati. Quel che mi attira soprattutto è la visione della mescolanza greco-indiana che si concretizza nelle statue e nei bassorilievi: i simposi, i veli che scendono sulla schiena nuda, il Buddha apollineo, l’Atena indiana!
Convinto che si tratti di una mia ricercatezza, resto sbalordito quando si avvicinano due ragazzi locali che, vedendomi attento a leggere le didascalie, attaccano conversazione sulla preistoria buddhista del paese. “Sì, prima qui c’era Alessandro Magno, poi i buddhisti. È un’eredità… una nostra tradizione…”, mi dice Ammar. Senza formalità, offrono del succo di frutta in bric e mi parlano da vecchi amici. Reza, però, non è del tutto convinto della piega che sta prendendo la conversazione, con l’amico che insiste un po’ spiritato: “Sì! Siamo orgogliosi di queste radici… ci uniscono a voi, come fratelli”. Vorrebbe continuare, ma Reza lo guarda come a dire “cazzo stai dicendo?”, e lo strattona via. Saluti.
Mi è spesso capitato di essere avvicinato dal gruppetto di amici che vogliono raccontare qualcosa per fare colpo sul turista, ma non avevo mai assistito a una tale messa in scena della coscienza divisa di un paese. Sono due ragazzi di Lahore a presentarmi il Pakistan come luogo esemplare per riflettere sulla differenziazione delle civiltà e sulle loro affinità sotterranee, un’idea che io credevo tutta occidentale, e che ho portato con me nello zaino, in uno dei libri fondamentali di tutta la letteratura di viaggio.
Tristi tropici (1955) di Claude Lévi-Strauss è noto soprattutto come classico della riflessione etnologica e in effetti si basa, per lo più, sulle esperienze dell’autore in Brasile e i suoi incontri con i Caduvei, i Bororo, i Nambikwara. Ma gli interessi di Lévi-Strauss per le popolazioni sudamericane erano al tempo stesso più ristretti e più astratti, oltre al fatto che l’esperienza sul campo non era certamente una sua vocazione (è famoso l’esordio: “odio i viaggi e gli esploratori”). A Lévi-Strauss interessava l’indagine sui diversi modi in cui le società umane hanno organizzato l’esperienza e sulle analogie e differenze morfologiche che stanno alla base delle nostre strutture di pensiero, per trovarvi una matrice comune. Tornando su questo ambizioso progetto, nell’ultimo capitolo del libro, Lévi-Strauss racconta del sito archeologico di Taxila, nell’allora neonato Pakistan.
Dal V secolo a.C. Taxila era stata una città achemenide, poi conquistata da Alessandro Magno. I macedoni la persero in favore degli imperatori buddhisti della dinastia Maurya, tra cui il grande Ásoka, che vi fece costruire il grande stupa. Dopo la sua morte la città entrò a far parte del regno indo-greco di Battriana, e poi fu successivamente conquistata dagli Sciti, i Parti, i Kushan cinesi, e infine distrutta dagli Unni nel 455 d.C. Nel corso della sua lunga storia Taxila è stato uno dei centri di istruzione più importanti dell’antichità e ancora oggi, nella città moderna a 300 chilometri da Lahore, c’è un’università. Insieme ai monti del Karakorum, Taxila è il motivo principale per cui i turisti vengono – o meglio venivano – in Pakistan, e noi non facciamo eccezione. Ci andiamo con Wasi, un amico conosciuto in rete, che viene a prenderci alla stazione dei bus.
Aggirandoci lentamente tra le rovine scarne, mangiate dall’erba, cerchiamo di assorbire l’impatto inconcepibile dell’ucronia che qui si è fatta storia: a Sirkap, la zona del sito corrispondente alla città indo-greca, ci sono i resti di stupa buddhisti, un tempio jainista, un tempio indù, e, poco oltre, un tempio greco in stile ionico. Tra le statue rinvenute spiccano teste di Buddha e Dioniso. La base del cosiddetto “altare dell’aquila a due teste” è decorata in tre stili alternati: greco-romano, buddhista e induista, mentre il simbolo stesso è forse di origine babilonese.
Lévi-Strauss, venuto qui in pellegrinaggio, scriveva:
Sarebbe ancora sottovalutare Taxila il ridurla al luogo dove, per qualche secolo, tre delle più grandi tradizioni spirituali del Mondo Antico hanno vissuto vicine: ellenismo, induismo, buddhismo; perché anche la Persia di Zoroastro era presente e, con i Parti e gli Sciti, si venne a creare una civiltà delle steppe qui combinate con l’ispirazione greca, di cui ci rimangono i più bei gioielli che siano mai usciti dalle mani di un orafo; questi ricordi erano ancora vivi quando l’Islam invadeva il paese per non più lasciarlo. Ad eccezione di quella cristiana tutte le influenze di cui è penetrata la civiltà del Mondo Antico sono qui rappresentate. Lontane sorgenti hanno confuso le loro acque
A Lévi Strauss interessava tornare a monte del conflitto tra Cristianesimo e Islam, che aveva comportato, a suo avviso, la perdita di una vocazione “femminile” del Cristianesimo nell’irrigidimento virile contro il suo doppio islamico, e l’oblio di un’origine comune:
Qui a Taxila, in questi monasteri buddhisti che l’influenza greca ha fatto pullulare di statue, sono in presenza di quella fugace possibilità che il nostro Vecchio Mondo ebbe, di restare uno. La scissione non è ancora compiuta. Un altro destino è possibile, quello, precisamente, che l’Islam interdice, drizzando una barriera fra un Occidente e un Oriente che, senza di esso, non avrebbero forse mai perduto il loro attaccamento al suolo comune in cui affondano le loro radici.
Al di là dei giudizi qui espressi, Lévi-Strauss vede la storia come un’intricata ramificazione di differenze che a ben guardare, da lontano, si dissolvono. Questo risultato si raggiunge al termine di un processo filosofico di distruzione delle certezze:
la verità è in una dilatazione progressiva del senso, ma in ordine inverso, e spinta fino all’esplosione.
Non credo che il nostro amico Wasi abbia pensieri simili, mentre passeggia per i ruderi con l’aria leggermente annoiata. Di certo si rianima quando torniamo a Islamabad, dove tiene a mostrarci il Pakistan di oggi. La capitale è una griglia geometrica, con viali alberati e parchi. La moschea Shah Faisal, che sembra una colossale tenda beduina ricostruita su Marte, è un monumento al connubio di tradizione e slancio futuristico che definisce il giovane paese. Wasi ci tiene, soprattutto, che visitiamo il Centaurus Mall, tre torri metalliche il cui motto è “light years ahead…”. Qui il Pakistan fa a gara col modello americano, imitando senza timore di perdersi, così come per decenni è accaduto in Europa. È impossibile spiegare, al giovane pakistano che indica entusiasta questi nuovi edifici o parla del master internazionale che sta organizzando o della nuova automobile che vorrebbe comprare, il mio interesse per l’anziano musicista nel parco che strimpella il rabab, per i vestiti tradizionali della nonna, per l’ubicazione dell’antico caravanserraglio. Sento di apparire come un morboso antiquario, che ha in più la colpa di voler negare il salto in avanti delle nuove generazioni, tenendosi stretta la sua modernità. Sfuggo a questo equivoco solo quando, pochi giorni dopo, l’aereo decolla da Islamabad e s’infila, quasi precipitando, nella valle dell’Indo.
Skardu sorge a poco più di 2300 metri nei pressi della confluenza tra l’Indo e lo Shigar, tra monti tagliati da luce accecante, dune grigie, ruscelli e distese di pioppi. È uno dei posti in cui ti andresti a riparare se sorvolassi per la prima volta il pianeta Terra. Quest’area del Karakorum, il Baltistan, è popolata soprattutto da sciiti e ismailiti. La gente è straordinariamente ospitale, ha un aspetto mediterraneo, arcaico: è irresistibile la sensazione di visitare dei cugini perduti. Alessandro Magno arrivò da queste parti al termine estremo del suo viaggio di conquista. Nel Chitral, non lontano, vivono i pagani Kalash, e nell’Ottocento l’agente britannico Macnaghten sentì che gli afgani chiamavano quella gente “i vostri parenti”. La carnagione pallida, gli occhi chiari, i capelli biondi, gli usi occidentali come le sedie e le strette di mano – che si trovano anche tra i Balti di Skardu – alimentarono la credenza secondo cui queste popolazioni sarebbero discendenti di una tribù ellenica perduta. Marco Polo riferisce già che anche i locali davano credito alla storia, collegandola al matrimonio di Alessandro con Rossane. La leggenda è riemersa dopo l’annessione britannica, ispirando viaggi e racconti, da L’uomo che volle farsi re di Kipling agli Incontri con uomini straordinari di Gurdijev, da Gli ultimi pagani di Fosco Maraini a In Xanadu di William Dalrymple. Il principe di Hunza, qui vicino, continua a ritenersi discendente di Alessandro.
La verità è incerta, ma in ogni caso le comuni origini indoeuropee e le recenti prove di una mescolanza genica risalente all’epoca dei regni indo-greci valgono per me quanto i sorrisi fraterni che ci accolgono mentre andiamo in giro per la vallata. Ci imbattiamo in donne dai vestiti coloratissimi, signori in eleganti pakul bianchi e marroni, giocatori di calcio e cricket, e le immancabili bande di allegri ragazzini. Ci spingiamo fino alle rive dell’Indo. Un pastore spinge le capre giù per il pendio di sabbia. Diverse upupe camminano tra le dune e volano tra i rami degli alberelli. La sabbia è finissima, l’acqua è gelata. Quando torniamo verso il paese un ragazzino impaurito ci chiede aiuto per scendere da un ramo, i genitori escono di casa e ci salutano. Una bambina dagli occhi verdi, che incontriamo sul sentiero, si rintana dietro la porta di casa e mi osserva.
Nei giorni seguenti visitiamo i dintorni. Nei pressi di un’enorme stele buddhista penso al primo europeo che riferisce il nome di Skardu, presentandolo come parte del “piccolo Tibet”: François Bernier, il pensatore atomista e libertino, seguace di Gassendi, che passò da queste parti a metà del Seicento, prima di stabilirsi nell’India dei Moghul. A lui dobbiamo il primo confronto tra la filosofia moderna e quella indiana: un altro esperimento di sovrimpressione degli sguardi collegato a questo territorio di passaggio tra Europa e Asia. Intanto, qui i pioppi si piegano come archi, e dalle nuvole blu elettrico scende uno spettacolare temporale.
In paese Fida Ali, che gestisce l’Indus Motel, ci mostra l’ingresso di una galleria di negozi ed estetiste riservata alle donne. Anche qui la solidarietà di gruppo è tanto calorosa – sproporzionata anche rispetto alle abitudini mediterranee – quanto divisa tra i sessi. Ma l’atmosfera è rilassata, i codici di abbigliamento meno rigidi che nel Punjab. La domenica c’è una fiera vicino al campo di calcio. Andiamo a curiosare tra frutti, marmellate e granaglie. Tra gli stand ce n’è uno delle forze armate, dove si espongono stambecchi impagliati e mitraglie da guerra. Cannoni come giochi.
Nella sala dell’Indus Motel incontriamo un uomo alto e biondo che lavora al computer. È Hugh, un fotografo australiano, il primo e ultimo non asiatico che incontriamo in tutto il viaggio. È impegnato in un progetto sui minatori che lavorano in parete nelle vallate circostanti, ricche di pietre preziose. Mi mostra alcune foto. Gli ingressi delle miniere sono buchi scavati a strapiombo, e lui, per la prima volta, ha scattato appeso a delle corde: “ho fatto un corso di alpinismo, cerco di tenermi in forma, ma non si può mai dire quello che succederà: è la vita, amico”. Ha legato con i minatori e i montanari che lo accompagnano, che ammira profondamente: “Affrontano la fatica e i rischi senza problemi, da noi questo si è perso, è tutto vietato. È patologico”, dice, con gli occhi celesti sgranati. Conversiamo sulla vita, la coscienza e tutto quanto. Mi spiega che sta scrivendo a diversi contatti per aiutare un uomo con l’elefantiasi, ma teme che quello non voglia operarsi perché qualcuno fa i soldi con la sua elemosina: “È triste. È terribile. È il nostro mondo, merda. Questa roba è difficile da capire mentre a casa ci preoccupiamo dei colori dei nostri iPhone”. Tra qualche giorno deve scendere l’Indo verso l’Hunza, e ci accordiamo per fare il viaggio insieme. Prima, noi avvicineremo le vette a ottomila metri.
La vallata dell’Indo, verso sud-est, è una sinfonia di grigi: tra pareti sempre più verticali, sabbia bianca e sporadiche macchie di verde scompaiono i riferimenti oggettivi. A un check-point, senza interpellarci, sale in macchina un soldato con un mitra, che si mette a chiacchierare con Zakir, la nostra guida. Tengo d’occhio la canna del fucile mentre facciamo foto insieme, in un incongruo clima da gita scolastica.
Proseguendo lungo l’Indo si arriva all’Himalaya indiana, a Leh, ma ci fermiamo a Khapulu, un villaggio fantastico ai piedi del massiccio del Masherbrum. Nel palazzo del rajah c’è ancora la lettera con cui, nel 1939, questi offre aiuto militare al maharajah del Jammu-Kashmir nell’impresa bellica a sostegno dell’Impero britannico. La vista dai divani del salotto sui monti circostanti, attraverso finestre finemente intagliate, è una tentazione stanziale. Ma proseguiamo risalendo la stretta valle che si apre a nord fino al villaggio di Hushe, che ripaga il lungo viaggio: in fondo al maelstrom di vette brune e seghettate appare bianco e nitidissimo il Masherbrum, che ferma le correnti di roccia. Nell’anfiteatro della valle cresce rigoglioso il fieno. Tra la gente che si lega i covoni sulla schiena ci sono gli aiutanti delle spedizioni alpinistiche che, da qui, vanno ai ghiacciai – la cui concentrazione è massima al mondo dopo i Poli – e ai vari 8000.
L’indomani ci incamminiamo verso Humbrok, un pascolo arroccato a oltre 4000 metri, da cui saliremo su un picco per vedere meglio le cime più alte della terra. Oltre a Zakir ci accompagna Mohsin, un ragazzo di Islamabad incontrato al rifugio, che sta facendo ricerche per aprire un’agenzia di viaggi. La salita è ripidissima, lo scenario sempre più stereoscopico: l’aria si alleggerisce, la luce è cristallina, la roccia levita, nuove cime compaiono dietro le altre come divinità curiose. Dall’accampamento, come sempre in queste zone, il cammino è dritto sul pendio, quasi verticale. I nostri amici salgono saltando, Zakir (nato sull’altopiano Deosai) ha le scarpe da ginnastica lisce, mentre noi, con gli scarponi antiscivolo, abbracciamo i sassi e la terra per tirarci su e resistere al vento. In cima, aggrappati alla roccia, contempliamo una foresta di pinnacoli innevati, coni scheggiati in una luce gloriosa. Il Gasherbrum spicca nel gruppo. Oltre una nube distante, spaventosamente, si fa spazio il K-2.
Mentre scendiamo, la parete di fronte viene tagliata in due dal tramonto, l’ombra scende nella gola e fa piombare la temperatura. Nell’ultima luce azzurrina intravediamo le donne del campo, che rispondono timidamente ai saluti e ci fanno arrivare, in segno di accoglienza, delle torte locali. Ci mettiamo intorno al falò, e le vacche si stringono intorno a noi. La torta ha una base di pasta integrale che odora di letame, coperta da una spessa guarnizione di burro bianco. È disgustosa, ma la serata conviviale è indimenticabile, e le stesse vacche scalpitano eccitate mentre cominciamo a cantare nel buio.
Mentre risaliamo l’Indo verso Gilgit ripenso all’associazione tra Dioniso e queste montagne desolate. Lo storico Arriano, nel secolo II d.C., riferiva che Alessandro si era persuaso che in una città di questa zona si adorasse Dioniso, e doveva esservi un santuario. Andò sui monti con i suoi ufficiali a fare un sopralluogo e questi si esaltarono vedendo l’edera – attributo del dio – e “furono colti dall’ispirazione di Dioniso, emisero grida in suo onore, e fecero come un Baccanale”. Queste credenze rafforzavano l’immagine di Alessandro come il nuovo Dioniso vincitore dell’India, ma già lo stesso Arriano ne dubitava. Alcuni storici, per spiegare l’episodio, hanno ipotizzato una confusione tra Dioniso e Shiva, il cui culto aveva tratti simili. Ma Shiva non era venerato in queste zone. Robin Lane Fox, biografo di Alessandro, ha supposto che la fonte dell’equivoco fossero stati i Kalash, che oltre ad assomigliare ai Greci hanno rituali che coinvolgono capre e vino. In ogni caso, gli abbagli macedoni sul dio ebbro si aggiunsero a quelli sui capelli biondi dei Kalash, alimentando la leggenda delle radici dionisiache fino a oggi.
William Dalrymple è venuto da queste parti a ventidue anni insieme alla sua amica Louisa durante il viaggio narrato in In Xanadu (1989), il libro che lo ha consacrato come erede della grande narrativa di viaggio britannica. Anche se il loro piano era ricalcare il viaggio di Marco Polo, i due compagni, per la chiusura dell’Afghanistan, hanno dovuto risalire l’Indo: qui, una notte, Dalrymple si è convinto di trovarsi dove, secondo alcuni storici, sorgeva Aornos, la rocca dell’ultimo assedio di Alessandro. Si è arrampicato sul monte e, imbattendosi in un villaggio, ha interrotto una cerimonia intorno al fuoco, con tanto di donne danzanti, capretti arrostiti e uomini che scaricavano i fucili. Tornato a casa, e saputo delle leggende sui culti dionisiaci osservati dai Greci, ha ipotizzato di aver osservato il rituale animista che aveva dato luogo all’equivoco. Anche lui, però, sembra essersi fatto trascinare dall’entusiasmo: si è osservato che aveva interrotto un matrimonio, altro che rituale dionisiaco. Del resto sull’ubicazione di Aornos c’è totale incertezza. Insomma, sembrerebbero tutte fantasie. Eppure, se a distanza di millenni si continua a vedere Dioniso nascosto tra le capre al pascolo e nel vino proibito dei montanari, e se sentire che l’arrivo qui è un’anabasi con cui riviviamo un’antica esperienza estatica, non è la prova che Dioniso, qui, è passato davvero?
L’Indo diventa una vena marrone nella pietra che si gonfia impetuosa, prima di ricevere il fiume Hunza da Nord. Le pareti rocciose sono traforate di miniere. Lungo la strada un camion, dipinto come un carro carnevalesco, è parcheggiato sotto una cascata. Hugh scherza con Fida Ali, insinuando che il nostro amico si è innamorato di una volontaria francese. Ci racconta dei suoi viaggi in località pericolose, al punto che porta un kit di fuga e controlla l’altezza della finestra quando prende posto negli hotel. In Australia non si ferma: alterna spedizioni di lavoro con lunghe escursioni nelle terre selvagge. Ogni due anni prepara uno zainetto da 5 litri e, con un lenzuolo, va a camminare per due settimane nel Pilbara. Patisce freddo e fame, è facile preda di coccodrilli e serpenti, ma è un’esperienza che permette di sviluppare forza e concentrazione sulle cose essenziali.
Hugh è l’eroe di un film di Werner Herzog: il suo corpo a corpo con la paranoia e l’irrealtà della società occidentale ha qualcosa di cavalleresco, a tratti donchisciottesco. C’è in lui una purezza che lo distingue da tanti altri avventurieri che mi è capitato di incontrare – guide, documentaristi, naturalisti, animatori da crociera, corridori intorno al mondo – che sono sempre al centro dei racconti per esibire la proprie gesta e la propria eterna giovinezza. Il suo non è spettacolo, ma genuina condivisione della vita crudele che i minatori conducono per sopravvivere. Dall’altro lato, la scelta di penetrare nei cunicoli della terra, dove – come non smette di ricordare – un’esalazione gassosa o un passo falso possono essere fatali, ha a che fare con l’oscura necessità che spinge viaggiatori e sportivi estremi ad affrontare fatiche e rischi per ritrovare un sentimento perduto. “Per puro caso, loro sono nati qui e noi nell’opulenza, ma tutti sogniamo allo stesso modo”.
“Venivano molti italiani: Milano, Torino, Roma. Adesso è finita”, dice l’albergatore di Karimabad. Dopo l’11 settembre, e il sostegno alla campagna degli Stati Uniti, il Pakistan è stato sconvolto da tensioni e attentati, e i turisti occidentali sono spariti. Non resta che qualche gruppetto di asiatici. Mi guardo intorno nella vallata spettacolare: il tendaggio di pioppi e albicocchi, il forte appostato sulla collina, l’ansa morbida del fiume Hunza, l’onda di ghiaccio del Rakaposhi che incombe. È incredibile e triste che una vicenda così assurda abbia interrotto l’arrivo di persone in quest’area tanto pacifica e isolata dal resto del paese. Sul belvedere deserto, un vecchio soldato con i lunghi baffi arrotolati intorno alle orecchie dirige dei ragazzi in una coreografia di cornamuse.
Un altro giorno su tra le fenditure dei monti: la gioia di bambini su uno scivolo che finisce in una schiuma di nuvole. Ci accompagnano due ragazzi silenziosi, che così ingannano il tempo. La sera ci ritroviamo nell’atrio dell’Hotel con Hugh e il solo altro gruppo di ospiti, che ci invitano a condividere una cena tradizionale. Il capofamiglia, che viaggia col figlio e alcuni amici, è un signore anziano ed elegante, in turbante, tunica e scarpe da ginnastica. Solo quando ci sediamo lo guardo bene e avviene l’agnizione: sotto il travestimento c’è il mio professore dell’università, l’amato maestro, che è morto molti anni fa. Mi guarda con quell’espressione intelligente e ironica, come a dire che lo sa, che l’ho riconosciuto, e che, anche se deve dissimulare, beh, ci siamo capiti, come al solito. Ho le lacrime agli occhi. Akamuddin – così si chiama – viene da Peshawar. Fa il commerciante – se capisco bene, di pezzi per l’industria – e ha un ufficio in Ruanda. Tiene banco spiegandoci i cibi e le usanze locali: si condivide il cucchiaio della zuppa per fratellanza, ma, a suo avviso, anche per stimolare il sistema immunitario. Ci racconta della sua città, dove si trova una delle migliori università dell’Asia. Guarda con un po’ di rimpianto il figlio, e torna a raccontare. Una volta è stato rapito dai talebani. “Posso domandare com’è andata?”, dice Hugh. Certo. Volevano dei soldi e l’hanno liberato quando ne hanno avuti. I talebani, taglia corto, “sono del tutto ignoranti, primitivi: non sanno nulla della religione, che con le loro attività non c’entra nulla”. Per tutta la sera ascoltiamo quell’uomo affascinante.
Il giorno dopo Hugh deve partire. Quando ci salutiamo scambiamo due parole su Akamuddin. Dice che l’uomo sapeva il fatto suo, e che, si capisce, ha attirato troppa attenzione con la sua attività. Il mio maestro pakistano è un commerciante d’armi.
A Gilgit prendiamo un’auto per tornare a Islamabad. Il conducente, Sajjad, lo incontriamo davanti a una pensione decrepita dove si vende solo acqua e riso in brodo. È un afgano vestito di nero, con lunga barba nera, turbante nero, faccia cattiva e un paio di occhiali neri Police con l’asta rotta. Sappiamo che lungo la strada si attraversano zone che non sono controllate dal governo. “Non c’è problema”, taglia corto, e partiamo. Dopo un paio d’ore mi accorgo che è giunto il mio momento di subire le conseguenze dello squisito melone di Lahore. Mentre sale la febbre e affondo nel sedile, chiacchieriamo con Sajjad dei cinesi che vengono a costruire strade. Nei pressi dei cantieri-dormitorio, dice, spariscono tutti i cani. Si diverte a imitare il modo in cui quegli infedeli mescolano il loro calderone pieno di cani e gatti. Poi ci racconta di Kabul, dove vive il fratello, sostenendo che non è un problema andarci. Ci può portare, se vogliamo. Intanto saliamo verso un passo a 5000 metri e mi accorgo che, di fronte alla nostra auto, avanza una jeep con una mitragliatrice da guerra. “Sono decisioni del governo”, precisa Sajjad, “non c’è pericolo”. La jeep dopo un po’ sparisce. Più volte l’auto accosta e si affacciano uomini con enormi barbe, controllano la mia faccia, discutono con Sajjad troppo a lungo, come se contrattassero. Alla fine non succede niente, scendiamo dai monti, entriamo su una strada trafficata.
Ma fa buio, e Islamabad è a oltre 100 chilometri. Sajjad, contrariamente ai piani, ci propone di fermarci a dormire a casa sua: siamo sospettosi, ma stanchi, e alla fine accettiamo. Compare la cupola di una moschea, l’auto rallenta. Quando scendiamo di macchina la moglie e i figli scappano in casa, il padre porta regali per tutti. Veniamo divisi in due zone separate, e mi chiudo in camera ingoiando pillole. Verrò a sapere che l’ospitalità è stata eccezionale, e lui ha rotto l’etichetta cenando con le donne. Sua moglie, quando Sajjad è ritirato, si è confidata: lui è affettuoso, ma è stanca di stare in casa, vorrebbe fare l’università. Il giorno dopo, quando ci salutiamo, Sajjad rifiuta sdegnato la mancia. Però, accenna, se torno potrei portargli un paio di occhiali da sole nuovi, della stessa marca.
Sul pullman per Lahore controllo la mappa per localizzare dove abbiamo dormito: Abbottabad, che prende il nome da James Abbott, uno degli ufficiali britannici del Grande Gioco. Poi mi ricordo: in una casa, qui, una notte di pochi anni fa, i soldati americani hanno trovato Osama Bin Laden.
Lahore ha molte bellezze che in due giorni cancellano le asprezze dei monti: le architetture moghul nei giardini Shalimar, l’harmonium e i canti del kawwali, l’enorme museo di marionette di tutto il mondo. Ma ben presto siamo di nuovo in cerca dei lati impuri che la civiltà pakistana tiene nascosti. Nelle vie intasate del mercato scopriamo con fatica un antico tempio indù, che è stato incluso nella costruzione di un palazzo diroccato. Nell’antico spazio sacro, svuotato degli idoli, vivono delle famiglie. Questo accerchiamento architettonico è immagine dello sforzo di uniformare l’animo informe della storia. Ma la resistenza più viva all’ortodossia la si incontra nei santuari sufi.
In Nove vite. Alla ricerca del sacro nell’India moderna (2009), Dalrymple racconta della sua visita in un santuario nel Sind, scrivendo che gli “estatici e sfrenati festeggiamenti notturni” del sufismo pakistano sono
un compendio di tutto ciò che i puritani islamici [i wahabiti] biasimano più aspramente: in ogni cortile risuonavano canzoni, musica e poesie d’amore sufi, uomini e donne danzavano insieme, si fumava hashish, schiere di persone veneravano la tomba di un uomo morto e tutti rivolgevano le proprie richieste al santo invece che direttamente a Dio, nella moschea.
Il suo racconto del dhammal, la danza rituale dei dervisci, nel santuario di Lal Shahbaz a Sewhan mi ha impressionato, evocando l’immagine di un rito universale: la marea ritmica dei tamburi mette in movimento i danzatori, che sorridono beati, guardano al cielo, saltano, gridano lodi. Alcune donne – come nel tarantismo pugliese che Ernesto de Martino osservò ancora negli anni ’60, o nell’umbanda brasiliana studiata da Victor Turner – entrano in una trance terapeutica:
Mentre le loro madri e sorelle le rincuoravano, le donne possedute sedevano a gambe incrociate oscillando e dimenando la parte superiore del corpo, dondolando freneticamente la testa al ritmo delle percussioni, ruotando gli occhi e sventolando i capelli. Sempre assistite dai loro familiari, alcune si alzarono e presero a ruotare come trottole.
“L’estasi del dhammal – spiega Dalrymple – è una valvola di sfogo per tensioni che altrimenti non troverebbero altra forma di espressione in questa società profondamente conservatrice”, e si ritiene che abbiano un profondo valore terapeutico, perché le malattie che affliggono il corpo affondano in realtà in afflizioni dello spirito, ansia, tristezza, che la musica, le percussioni, la trance possono lenire.
Di tutto questo ci basterebbe una frase – uomini e donne danzavano insieme – per affrontare l’azzardo. Ma la dirompente importanza culturale di questi santuari va ben oltre. Alcuni rituali sufi, ricorda Dalrymple, sembrano imparentati con le danze sacre a Shiva, che celebrano la distruzione e ricreazione del mondo: il sufismo, storicamente, ha gettato le basi di una comprensione reciproca tra induismo e islam. Del resto, per i sufi, tutte le religioni sono manifestazioni di una medesima realtà divina. Per questa apertura verso le altre fedi e per questo sincretismo i sufi sono odiati dai talebani, e sono negli ultimi anni un bersaglio tipico dei loro attacchi terroristici. Nel 2010, qui a Lahore, due uomini si fecero saltare in aria nel santuario di Data Durbar, uccidendo 50 persone. Nel febbraio 2017 è stato colpito proprio il santuario descritto da Dalrymple, in uno dei più gravi attentati di sempre in Pakistan: sono morte 88 persone e centinaia sono rimaste ferite. Questi e altri attacchi hanno sollevato critiche al governo, che non sarebbe in grado di proteggere la popolazione: è la prima notizia di una protesta politica di cui veniamo a sapere.
Ci avviciniamo con circospezione al santuario del mistico Data Ganj Bakhsh Hajveri, che ogni anno attrae centinaia di migliaia di pellegrini. Intorno alle mura ci sono barriere di filo spinato. L’entrata è divisa per sessi, non si possono portare apparecchi fotografici. Veniamo perquisiti e passiamo sotto un metal detector, che per la verità non sembra funzionare. I curiosi ci circondano, dopo pochi minuti in tanti ci giurano eterna amicizia (e mesi dopo continuano a scriverci: “I miss you”). Quando finalmente entriamo nei cortili gemelli siamo delusi: non soltanto siamo separati – uomini di qua, donne di là – ma oggi non ci sono musiche. Qualcuno cerca raccoglimento e recita versi vicino alla tomba marmorea del mistico, coperta di ghirlande. Ma la calca è tremenda, e presto ce ne andiamo.
L’ultimo giorno facciamo un altro tentativo al santuario di Baba Shah Jamal. Un tizio all’hotel ci ha detto che dovrebbe esserci musica, ma bisogna andare quando fa buio. Così usciamo di notte: fa caldo e microscopiche particelle di pioggia circolano nell’aria. Prendiamo un taxi che si ferma di fronte a un cordone di persone in una stradina secondaria. Scendiamo senza sapere dove andare, ma in pochi secondi si avvicina uno studente, Habib, che si offre di accompagnarci. Lasciamo i sandali su una montagna di calzature e saliamo una scalinata. In basso compaiono i primi cortili del santuario, affollatissimi, si sentono percussioni, entriamo in una bolla di sudore e hashish. Sembra un rave, ma il suono è moderato. Habib ci fa segno di salire ancora, e accediamo a un cortile piastrellato con padiglioni coperti e centinaia di persone, uomini, donne, bambini, seduti per terra in attesa della performance. Tutti vestono in maniera semplice, qualcuno indossa amuleti, si sente profumo di rosa e olio che brucia nelle lampade. Cerchiamo un angolo libero, e da una finestra traforata a motivi floreali vedo i musicisti. Siamo fortunati: i famosi fratelli Gonga e Mithu Saeen, con il dhol a tracolla e in brillanti camicie verdi, cominciano a suonare. Gli altri spettatori ci passano piatti di riso. Mithu dà il ritmo, e Gonga, altissimo e enorme, gli va dietro. La tecnica dei due è impressionante: con la mano sinistra e il piccolo bastone nella destra producono grappoli di note sulle due pelli ai lati opposti del tamburo, con timbri e ritmi in continua evoluzione. Suonano in perfetto unisono, con un’intesa tanto più notevole se si pensa che Gonga è sordo dalla nascita, e segue la musica grazie alle vibrazioni delle pelli e del legno.
La gente si fa da parte e compaiono i dervisci. Indossano semplici camicie lunghe, ognuna di un colore molto carico. Alcuni hanno i capelli intrecciati. Sembrano semplicemente camminare in circolo, in attesa concentrata, assorbendo il ritmo. Gradualmente cominciano a oscillare la testa di lato, facendo sbattere i capelli sul viso, sempre più rapidamente. Il pubblico segue con entusiasmo, qualcuno si unisce alla danza, o semplicemente entra nello spazio della musica cercando di captare qualcosa, lasciandosi cadere, saltellando sul posto, abbandonandosi all’ecolalia. Seguire il ritmo con attenzione è un modo di tenermi aggrappato a qualcosa di razionale, di noto, mentre l’energia cresce a dismisura, perdo il conto dei colpi, scompaiono le mani iperveloci, i danzatori sono scie colorate, le espressioni si perdono, l’individualità è sospesa. Guardo una ragazza vicino a me, che ha un’espressione di serenità lucida e infinita. Mi guarda, evidentemente felice che io, straniero, apprezzi la scena. È il primo sguardo di una donna locale che sostiene il mio – se si eccettuano le bambine – e mi colpisce l’intensa bellezza che, per forza di cose, qui si sprigiona dagli occhi. La gioia liberatoria collettiva entra in risonanza con l’ordine rituale. Per un momento non manca nulla, ogni distanza è abolita: la deflagrazione dei sensi di cui parlava Lévi-Strauss è forse in questa esperienza, che lava via le ferite della storia e lascia un vuoto aurorale.
La musica defluisce, s’interrompe. I danzatori si stendono, i musicisti si siedono per riposare, arriva del cibo, la gente parla rilassata. Habib si fa avanti dicendo qualcosa, a quanto pare avverte Mithu Saeen che due Europei sono venuti a assistere al dhamaal. I due ci fanno cenno di avanzare, sederci vicino a loro e mangiare qualcosa. Non parlo urdu, e Gonga mi mette soggezione, ha un’aria malinconica, si riempie la coppa di riso, tace. Mithu ha un’espressione severa e carismatica. Parla un po’ d’inglese.
“Di dove sei, amico mio?”
“Italia”.
“Siamo stati in Francia una volta, per suonare”, dice, con voce stanca. “L’Europa è molto lontana”.
“In realtà, non molto”.