Paesi in macerie
Ricostruire la storia politica attraverso la storia psicologica: Turchia e Russia nei libri di Temelkuran e Gessen.
Ricostruire la storia politica attraverso la storia psicologica: Turchia e Russia nei libri di Temelkuran e Gessen.
L eggere insieme il libro sulla Turchia di Ece Temelkuran, Come sfasciare un paese in sette mosse, e quello sulla Russia di Masha Gessen, Il futuro è storia, provoca un senso ansiogeno di immedesimazione e di straniamento. I due romanzi-saggi arrivano in Italia insieme: il primo è del 2019, il secondo del 2017, ed è impossibile studiarli senza scivolare nel gioco del confronto con quello che accade qui o in altre parti di Europa o del mondo: santo cielo, questo ce l’ho! Questo per fortuna mi manca!
Temelkuran e Gessen usano due metodi simili per fare storia del presente: integrano l’approccio cronachistico con quello giornalistico d’inchiesta con quello sociologico con quello storico con quello letterario-biografico. Disegnare il ritratto di un intero paese non è facile, soprattutto quando quell’immagine è in frantumi come è accaduto alla Turchia di Erdoğan (dalla fine degli anni Novanta) e all’Unione Sovetica (dagli anni Ottanta), e tenendo conto al tempo stesso del fatto che l’epilogo di entrambe le storie coincide quasi letteralmente con un esteso elenco di persone che oggi sono esuli, in galera o sotto terra.
Per valorizzare questi libri come strumenti bisognerebbe farne dei buoni riassunti. Quest’ambizione non è facile da esaudire, perché la quantità di informazioni e di intuizioni che contengono è copiosissima e spesso quelle più utili non sono nemmeno le più esposte al nostro sguardo di lettori anche attenti. Si potrebbe dire che l’analisi di Temelkuran è più concentrata sulla sovrastruttura e quella di Gessen più sulla struttura; entrambe hanno però ben presente come forse solo un tentativo di diagnosi psicosociale possa rendere conto di processi di trasformazione – di mutazione antropologica – che hanno riguardato centinaia di milioni di persone.
Disegnare il ritratto di un intero paese non è facile, soprattutto quando quell’immagine è in frantumi come è accaduto alla Turchia di Erdoğan e all’Unione Sovetica.
Le sette mosse per sfasciare un paese (la Turchia è il modello e la sineddoche insieme) sono, nell’indice di Temelkuran, 1) Crea un movimento, 2) Disgrega la logica, spargi il terrore nella comunicazione, 3) Abolisci la vergogna: essere immorali è “figo” nel mondo post-verità, 4) Smantella i meccanismi giudiziari e politici, 5) Progetta i tuoi cittadini e le tue cittadine ideali 6) Lascia che ridano dell’orrore 7) Costruisci il tuo paese.
Gessen invece, con un’impressionante intelligenza marxista, verrebbe da dire, per cui riporta come le nostre scelte siano determinate dalle condizioni sociali e economiche, segue la scansione temporale quasi anno per anno delle vite di sette testimoni-intellettuali-attivisti nell’arco della lunghissima crisi che parte dalla implosione dell’Unione sovietica e arriva a oggi. Ci sono ideologi cardinali del partito che si trovano spaesati nella persino grottesca débâcle dell’Unione sovietica; altri figuri come Alexsandr Dugin che sarebbero potuti essere attraenti solo per un romanziere in cerca di indifendibili da eroizzare (come è accaduto a Limonov e Carrere) e riescono a invece a diventare autorevoli, fare carriera nel discorso pubblico, fino a far credere oggi di essere la longa manus del potere putiniano.
La narrazione di Gessen risponde meno all’impianto di una profezia che si autoavvera. Il senso di sbalordimento e di confusione ermeneutica per quello che è accaduto resta, nelle conclusioni, in parte quello delle premesse: “Dai trenta ai cinquant’anni, mi trovai a documentare la morte di una democrazia che non era mai veramente nata”, scrive. “Era da cent’anni che la Russia e i russi stavano morendo – per le guerre, per i gulag e, soprattutto, per il quotidiano disprezzo nei confronti della vita umana. Aveva sempre pensato a quel disprezzo più come a una noncuranza, ma forse bisognava considerarlo una volontà attiva. Questo paese voleva uccidersi. Tutto ciò che c’era di vivo – la gente, le loro parole, le loro proteste, i loro amori – attirava l’aggressione perché l’energia vitale era diventata insostenibile per questa società. Voleva morire; la vita era un’entità straniera”, scrive in un explicit che chiaramente chiama chi legge a un supplemento d’indagine, nonostante la ricostruzione impressionante di cui è stata capace Gessen.
Di fatto entrambi i libri sono anche una lente proiettata su sé stessi, cioè su quanto rimane – cosa resiste – della capacità di analizzare una società nel momento in cui tutti i luoghi dello studio, dell’intelligenza, della comprensione prima ancora che quelli della politica vengono devastati. Il fatto che siano così avvincenti non è dovuto soltanto alla narrazione delle singole storie individuali, che spesso sono storie di umiliazione, dolore e lotta; ma quanto dalla potenza hegeliana di un conflitto tra ideologie opposte, di cui la seconda – quella che alla fine trionfa – è la spettrale, tanatofila ideologia della fine delle ideologie.
Entrambi i libri sono anche una lente proiettata su quanto rimane della capacità di analizzare una società nel momento in cui tutti i luoghi della comprensione vengono devastati.
Se Come sfasciare un paese in sette mosse è un testo drammatico, shakesperiano, perché nel resoconto di questa battaglia almeno ventennale Temelkuran parla anche molto di sé, e quindi noi lettori abbiamo almeno un’eroina con cui empatizzare, Il futuro è storia è invece un testo agghiacciante come un referto: la dimostrazione beckettiana di come un universo totalitario capace di edificare una mentalità – quella dell’Homo sovieticus (la definizione è del sociologo Jurij Levada, uno dei protagonisti di Gessen) – permanga anche quando i muri sono caduti e il grande sogno comunista si è dissolto con tutto il partito.
Lo svelamento di Gessen è straordinario. I processi di lunga durata applicati alla storia del presente possono essere delle generalizzazioni molto scivolose: ma la quantità di evidenze che Gessen porta alla sua tesi non soltanto convince il lettore, lo sgomenta. Le pagine più tragiche sono proprio quelle infatti che riguardano la perestrojka: lì l’ipotesi di una riforma politica epocale viene polverizzata in una manciata di mesi dalla mancata trasformazione sociale e antropologica. Così, come un’elaborazione del lutto che è solo una coazione a ripetere, nel giro di qualche anno, la possibilità che si rompa l’incantesimo che intrappola la Russia nella sua involuzione democratica viene affidata a generazioni sempre più giovani, nella speranza debolissima che la persistenza della maledizione dell’Homo sovieticus non abbia già contagiato i ragazzini.
La prima generazione di persone che non serbavano alcun ricordo del terrore staliniano non era riuscita a superare il retaggio del totalitarismo; la prima generazione post- sovietica – coloro che erano nati durante la perestrojka e cresciuti negli anni Novanta – era stata protagonista delle proteste del 2011-2012, ma non incarnava più la speranza; ora era la volta della generazione nata sotto Putin.
Il sistema totalitario è diventato un sistema di condizionamento psichico, introiettato.
La ricchezza, di cui va fatto davvero tesoro, di questi due libri è nell’inventare categorie politiche trasversali, che usano linguaggi di diverse discipline, e che spazzano via quel riduzionismo del dibattito pubblico per cui non sappiamo come cavarcela con termini vaghi e sempre più essenzialisti come “sovranismo” o “populismo”. Lo stile di entrambe, straordinariamente opposto, è simile nell’obiettivo: ragionare sulla politica attraverso i sentimenti, in un tentativo di rialfabetizzazione emotiva, che è la vera premessa per ragionare di politica oggi. Il che vuol dire anche come impegnarsi in politica.
L’obiettivo è ragionare sulla politica attraverso i sentimenti, in un tentativo di rialfabetizzazione emotiva, che è la vera premessa per ragionare di politica oggi.
Per questo quel senso di immedesimazione e straniamento, ma soprattutto l’amarezza e la paura che proviamo davanti a queste mille pagine sono preziosi. Occorre citare diversi episodi che – anche se letti con la distanza geografica e storica – non possono lasciare altro che un’amarezza indicibile. Quando Temelkuran ricorda l’euforia del disastro che segue i giorni di mobilitazione a Gezi Park nel 2013, come una sorta di difesa psicologica di massa per esorcizzare la repressione che sarebbe arrivata. O quando Gessen riallinea alcuni precedenti seminali nella filiera dell’autoritarismo non solo europeo: il racconto del primo congresso delle famiglie a Praga nel 1997 nel suo libro è fondamentale per comprendere la repressione delle minoranze sessuali oggi.
Ma uno sguardo ancora più acuto Gessen e Temelkuran riescono ad aprirlo quando ci aiutano a riconoscere alcuni dei meccanismi basilari in cui si forma quella cultura del risentimento che è stata funzionale alle affermazioni di Erdoğan e Putin. Ci sono due tratti forse ancora più interessanti di altri: quello che riguarda la risata e quello che riguarda l’umiliazione. Una mossa non enumerata da Temelkuran ma descritta con precisione è la nascita del cinismo di massa, attraverso un’analisi dell’industria della risata nei confronti dei deboli: vengono raccontati i canali tv e web dedicati a un palinsesto di osservazione del dolore degli altri in forme sempre più distaccate, la risata che diventa il meccanismo massificato di depoliticizzazione dello spazio pubblico.
Mentre l’impudenza dell’essere distaccati è gradualmente diventata la cultura dominante, coloro che trovavano difficile vivere in un simile Zeitgeist, circondati da una maggioranza predominante che considerava la vergogna e la compassione come sintomi di ingenuità, cominciavano ora a esitare ogni volta che sentivano l’urgenza di gridare: ‘Vergognatevi!’ Lo so, perché anch’io mi sono sentita in imbarazzo a vergognarmi..
Dall’altra parte non si può capire la crisi sociale che ha attraversato la Russia e la Turchia soltanto ricordando le fasi più drammatiche del depauperamento su larga scala. La guerra tra poveri non spiega nulla. La Gessen certo parla degli aiuti umanitari americani, Temelkuran dell’elemosina di stato nelle zone rurali. Ma non smettono di ricordarci che la profondità della crisi è psicologica, ha a che fare con l’umiliazione di un popolo. È molto difficile analizzare, nella storia delle idee, in cosa consiste il senso di umiliazione, ma è molto chiaro quanto questo sia determinante come motore di una soggettivazione politica che non c’entra più con la rivolta o il riscatto, ma semplicemente con la vendetta, la resa, o la cupio dissolvi.
Ma la politica – sembrano urlare tra le righe Gessen e Temelkarum – è la nostra protezione contro la morte. La secolarizzazione che è avvenuta con la retorica della fine delle ideologie e dell’antipolitica ha fatto sì che di fronte alla morte noi ci sentiamo nudi come bambini fragili o folli come degli amleti in miniatura. A questo punto, però, soltanto afferrando in mano il teschio di nostro padre, potremmo allora forse avere coscienza di quale è la posta della sfida.