S e guardiamo al profluvio di padri che ha inondato il nostro paese negli ultimi mesi, sembrano lontanissimi i tempi in cui lo psicanalista Massimo Recalcati, riprendendo Lacan, parlava di “evaporazione” della figura paterna. Sempre più spesso infatti, nelle dichiarazioni pubbliche, i politici dichiarano di parlare e di agire da padri di famiglia.
L’esempio più noto e recente è il commento con cui il Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha replicato alla procedura d’infrazione proposta dalla Commissione europea per il debito del triennio 2018-2020 : “Se mio figlio ha fame e mi chiede di dargli da mangiare secondo voi io rispetto le regole di Bruxelles o gli do da mangiare? Secondo me viene prima mio figlio, i miei figli sono 60 milioni di italiani”. Ma già sul libro dei visitatori del Memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme si era espresso così: “Da papà, da uomo, solo dopo da ministro, il mio impegno, il mio cuore, la mia vita xché (sic) questo non accada mai più”.
Gli esempi sono numerosi, e non si limitano a Salvini: anche il Ministro Toninelli ci ha tenuto a precisare riguardo al respingimento delle ONG che “Da ministro e da padre di famiglia posso dire che sono immagini terribili ma appunto ci devono convincere ad andare avanti” e ancora “Da padre ve lo garantisco: salveremo le vite umane”.
La retorica del padre ha contagiato anche Renzi che durante la discussione sulla fiducia al Governo Conte si è rivolto a Salvini “da padre a padre”, così come Di Battista, che è arrivato a scrivere un libro sulla paternità ancor prima della nascita del figlio, fino all’attuale Presidente del Consiglio che a luglio scorso ha dichiarato: “Come in ogni famiglia il pater familias ha il dovere di tenere i conti in ordine e io mi sento molto pater familias”.
Il codice civile italiano usa l’espressione “diligenza del buon padre di famiglia”, arrivata fino a noi dal diritto romano, come modello per la valutazione della responsabilità.
Qualsiasi azione di governo dunque è mossa e giustificata dal “buonsenso del padre di famiglia”, che si rifà apertamente a quella “diligenza del buon padre di famiglia” di stampo giuridico. Ma qual è il significato specifico di questa formula? E soprattutto, può essere ancora valida oggi? Il codice civile italiano usa questa espressione, arrivata fino a noi dal diritto romano, come modello per la valutazione della responsabilità, ossia il criterio di diligenza cui è tenuto a conformarsi chi adempie a un obbligo che si è assunto. La figura a cui s’ispira è il bonus, prudens o diligens pater familias.
Scrive Eva Cantarella, storica dell’antichità e del diritto antico: “Per i giuristi romani il modello di comportamento non poteva che essere un pater familias: allora solo il pater era titolare di diritti privati, nell’ambito della famiglia. I suoi discendenti (figli e nipoti), quale che fosse la loro età, erano sottoposti alla di lui patria potestas fino alla sua morte”. E poi aggiunge:
La famiglia romana, diciamoci la verità, era un gruppo all’interno del quale si commettevano soprusi e violenze non da poco: il padre poteva sottoporre i discendenti (per non parlare della moglie) a punizioni fisiche, in casi estremi poteva metterli a morte, decideva chi poteva sposarsi e con chi, poteva diseredare i figli senza doverlo motivare… Il padre di famiglia alla romana, insomma, è una figura grazie al cielo scomparsa.
È evidente che nessun padre degli anni dieci del Duemila sottoporrebbe a tali violenze i membri della propria famiglia ma è bene avere chiaro, quanto meno storicamente, a quale sistema di valori quell’espressione fa riferimento. Puntualizzazione, quella di Cantarella, che lascia trasparire anche le fondamenta scricchiolanti della formula.
Nel saggio Considerazioni sul “buon padre di famiglia” (Rivista critica del diritto privato, numero XX), Lucia Morra e Carla Bazzanella, docenti del dipartimento di filosofia dell’Università di Torino, analizzano linguisticamente l’espressione ed evidenziano che, già in ambito giuridico, questa formula porta con sé una buona dose di ambiguità tra senso deontologico e senso descrittivo. Ambiguità alimentata dal carattere “aperto” dell’espressione che il legislatore ha coscientemente consegnato ai giuristi perché potessero adattarla a ogni singolo caso. Il codice infatti non rimanda a nessuna delle caratteristiche precipue di questo padre, se non a quella della responsabilità. Quindi, nel momento in cui è chiamato a utilizzare questa formula, il giudice deve immaginare un “buon padre di famiglia” partendo, per forza di cose, dal suo bagaglio valoriale e culturale, col rischio (in linea teorica) che la metafora si trasformi in stereotipo.
Per fare in modo che questo non accadesse, la Francia – che come l’Italia e gli altri sistemi “continentali” ricorre alla figura del “buon padre di famiglia” – nel 2014 ha eliminato quell’espressione “obsoleta e sessista” (come l’ha definita Najat Vallaud-Belkacem, Ministra dei Diritti delle Donne) per sostituirla con “persona ragionevole”. Numerose sono state le critiche, simili a quelle piovute addosso a Laura Boldrini quando ha proposto l’uso dei femminili per i ruoli professionali.
Si capisce bene dunque come venga naturale a ogni società riempire questa espressione “aperta” con i valori e le sfumature che ritiene fondamentali. È curioso per esempio notare che per esprimere il concetto di “buon padre di famiglia” gli inglesi si riferiscano all’“uomo sull’autobus per Clapham” (distretto d’estrazione medio-borghese nel sud ovest di Londra) e gli americani a quello “che porta i giornali a casa e la sera spinge il tagliaerba in maniche di camicia”, mentre il modello dell’ex URSS era, nemmeno a dirlo, il “lavoratore dell’industria sovietica”. A questo punto viene spontaneo chiedersi quale sia il modello di padre di famiglia a cui si riferiscono i politici odierni e quale spettro di valori costituisca il buonsenso che guida le azioni del pater italiano.
Viene spontaneo chiedersi quale sia il modello di padre di famiglia a cui si riferiscono i politici odierni e quale spettro di valori costituisca il buonsenso che guida le azioni del pater italiano.
Un primo dato su tutti spicca con evidenza: i maschi di questa nuova era politica hanno scelto d’identificarsi pubblicamente con il proprio ruolo genitoriale e dichiarato di farsi guidare da esso nelle decisioni politiche, in netta contrapposizione con decenni di lotte femministe attraverso cui le donne hanno cercato e cercano di diffondere un approccio nuovo alla maternità, non più vista né come un obbligo morale, né come biglietto da visita all’esterno.
La realtà fotografata dall’ultimo report Istat su natalità e fecondità della popolazione residente in Italia attesta che nel 2017 sono nati un 21% di bambini in meno rispetto al 2008; di questi un +25% nasce fuori dal matrimonio (anche perché dal 2006 al 2016 i matrimoni sono diminuiti del 17,4%,), mentre sempre meno (-25%) vengono alla luce da genitori italiani. Ma in barba ai dati offerti dal “paese reale”, la narrazione dei nostri governanti prosegue per una strada completamente opposta: il buon padre italiano al governo è cristiano (gira con la medaglietta di Padre Pio in tasca o sgrana il rosario mentre giura sulla Bibbia); crede nella famiglia tradizionale (“Via Genitore 1 e Genitore 2 dai moduli per la carta d’identità”, “Le famiglie arcobaleno non esistono”); intende limitare l’autodeterminazione della donna mettendo in discussione la Legge 194; è bianco, quindi “chiude i porti” per salvaguardare il suo nido a qualunque prezzo, anche a costo di lasciare morire altre persone in mare.
E da quest’ultima caratteristica emerge una seconda criticità: è giusto che un buon padre di famiglia lasci morire i figli che altri padri di famiglia stanno cercando di proteggere? Già Hannah Arendt nel 1945 in Colpa organizzata e responsabilità universale, rifletteva sul paradosso e a proposito del braccio destro di Hitler scriveva: “Heinrich Himmler […] è un bourgeois, con tutte le caratteristiche esteriori della rispettabilità, tutte le abitudini di un buon pater familias che non tradisce la moglie e che si preoccupa di assicurare ai figli un futuro dignitoso; eppure ha consapevolmente creato un’organizzazione terroristica senza precedenti. […] Il padre di famiglia […] è stato […] il grande criminale del secolo”.
Al netto di queste considerazioni la formula comincia ad apparire in tutta la sua vuotezza retorica e a configurarsi come una mera strategia di comunicazione volta a rappresentare il politico di governo come una persona comune, uno del popolo. I media aiutano a diffondere la narrazione di questo modello di padre pubblico regalandoci servizi fotografici di politici al mare, al ristorante, per negozi, in Guatemala – rigorosamente coi pargoli al seguito. Narrazione diventata convincente a tal punto che, qualche tempo fa, un’acciaieria di Sestri Levante alla ricerca di personale ha inserito l’essere padre di famiglia come requisito preferenziale ai fini dell’assunzione. Quasi a voler dire che essere padre sia di per sé un valore, una competenza.
La formula comincia a configurarsi come una strategia di comunicazione volta a rappresentare il politico di governo come una persona comune, uno del popolo.
Ed eccoci al terzo punto cruciale: è paradossale pensare che mettere al mondo dei figli renda automaticamente esperti di finanza o geopolitica. La paternità (e anche la maternità, ovviamente) non può essere l’unica lente attraverso cui leggere la realtà, soprattutto per un politico al Governo, perché altrimenti verrebbe da pensare che un politico single o sposato senza figli, sia meno capace di governare. Agire e parlare solo partendo dall’esperienza diretta è limitante e improduttivo.
Nell’uso stereotipato e retorico della metafora le donne sono completamente escluse, siano esse single, sposate o madri di famiglia. Quasi a suggerire che una donna non sia in grado d’incarnare il modello della ragionevolezza, della prudenza, della diligenza. E allora viene da chiedersi: se non si riesce a sostituire, nel linguaggio comune così come in quello giuridico, questa metafora “convenzionale” con un’altra sessualmente neutra perché si è convinti che solo il rimando specifico al “buon padre di famiglia” è in grado di preservare il significato specifico voluto dal legislatore, appare evidente che viviamo in una Paese che “non riesce a concepire l’ideale del comportamento diligente prescindendo dalle caratteristiche maschili, in altre parole una società in cui necessariamente solo un padre, e quindi un uomo, può incarnare il modello dell’agire diligente”, come scrivono ancora Morra e Bazzanella.
Secondo l’ultimo rapporto Istat l’educazione e la cura dei figli in Italia è ancora a carico delle donne (97% contro il 73% degli uomini), per non parlare dello svolgimento delle attività domestiche (81% delle donne contro il 20% degli uomini). Sembrerebbe quindi che i padri di famiglia siano poco interessati a sobbarcarsi le cure della famiglia. Ma c’è di più: “In Italia si stima che 427.000 minori, in soli cinque anni, abbiano vissuto la violenza tra le mura domestiche nei confronti delle loro mamme, nella quasi totalità dei casi compiute per mano dell’uomo” denuncia Save the Children a partire dai dati diffusi dall’Istat nel 2015. Padri di famiglia nemmeno particolarmente buoni, quindi.
A questo punto comincia a sorgere il dubbio che lo specifico vettore metaforico del buon padre di famiglia sia anacronistico rispetto ai nostri tempi, così come ci si deve domandare se il modello di padre giallo-verde con tutto il suo bagaglio valoriale possa davvero esistere o sia mai esistito. Questione che non può non suscitare un sorriso di fronte alle tribolate relazioni padre-figlio di numerosi politici nostrani, emerse negli ultimi mesi. A partire dal signor Antonio Di Maio che ha contraddetto le battaglie per l’onestà di suo figlio con vecchie storie di dipendenti non in regola e di case non dichiarate (e poi ha provato a scagionarlo con un video pubblico di scuse in cui afferma “come ogni padre ho provato a non far mancare nulla alla mia famiglia”, rieccoci). Affaire questo di Di Maio che ha riesumato le vicende mai davvero sopite dei babbi Boschi e Renzi. Di Battista junior, a sua volta, si è molto arrabbiato quando è venuto fuori che nell’azienda di famiglia il suo pater fa e ha fatto lavorare dipendenti senza regolare contratto.
È arrivato il momento di iniziare un dibattito serio sulla paternità. Al contrario di quello sulla maternità, quello suo ruolo dei padri non sembra aver avuto mai davvero luogo in Italia.
Cercando di tirare le fila, questo turbinio di padri di famiglia forse una cosa ce la sta dicendo: è arrivato il momento di iniziare un dibattito serio sulla paternità. Al contrario di quello sulla maternità, che lungi dall’essere concluso ha alle spalle un lungo percorso, quello sul ruolo dei padri non sembra aver avuto mai davvero luogo in Italia. È arrivata l’ora di dimenticarsi di formule vuote, retoriche e anacronistiche e cominciare a ragionare su un nuovo tipo di genitorialità, slegata dalle pressioni sociali e finalmente in grado di incarnare la parità di genere.
Qualche mese fa il fumettista Sio ha annunciato con un post sulla sua pagina Facebook di essere diventato padre e ha aggiunto che sarebbe sparito per i successivi tre mesi per poter stare unicamente con suo figlio. Congedo parentale, questo sconosciuto. Il post è rimbalzato su tutti i giornali, a dimostrazione che se questa scelta la fa un padre diventa una notizia, una prassi se la fa la madre.
In Italia solo un padre su cinque sceglie di occuparsi per un dato periodo esclusivamente dei propri figli. E quando quell’uno decide di partecipare più attivamente alla cura e all’educazione dei figli, nonché di dare un supporto alla neomamma, deve fare i conti con un pregiudizio a parti invertite. Come ha scritto Matteo Bussola, fumettista, scrittore e conduttore radiofonico, nonché padre che cerca di essere presente il più possibile nella vita dei suoi figli:
Il problema è sempre lì: l’affettività, l’amorevolezza, la presenza, la cura, vengono considerate ‘cose da donne e da madri’. E nel momento in cui un uomo, un padre, prova ad avvicinarsi a questo territorio, pare che l’unica maniera nella quale riusciamo a consentirglielo sia quella di far diventare una donna anche lui. Un ‘mammo’ fino a ieri. Da oggi: un ‘papà pancino’.
Vuoto culturale che scaturisce da un vuoto normativo, com’è facile immaginare. Attualmente la legge italiana con l’istituto del congedo parentale prevede un periodo facoltativo di astensione dal lavoro nei primi anni di vita dei figli non superiore ai 10 mesi (11 in alcuni casi) complessivamente per entrambi i genitori, frazionabili in ore, giorni, settimane o mesi e retribuiti al 30%. Se lavoratori dipendenti, s’intende. Le lavoratrici autonome possono astenersi dal lavoro per 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino, mentre per i lavoratori autonomi il congedo parentale non è previsto.
Per quanto riguarda invece il congedo di paternità (obbligatorio), con la nuova Legge di bilancio, si stabilisce che entro il quinto mese del neonato il padre (lavoratore dipendente) ha diritto a 5 giorni retribuiti al 100% per stare a casa con suo figlio. Più un giorno, a cui però deve rinunciare la madre. Quest’ultima, dal 2019, può scegliere se lavorare fino al nono mese e prendersi il congedo di maternità di 5 mesi tutto dopo il parto, o diluirlo tra prima e dopo.
Seppur negli ultimi anni qualche passo in avanti è stato fatto, è ancora troppo poco. L’Europa pare aver trovato una mezza soluzione che gli stati membri saranno tenuti ad adottare nel giro di tre anni dall’approvazione: 10 giorni di congedo di paternità dopo la nascita del figlio e fino a 2 mesi di congedo parentale non trasferibile, cioè quello riservato solo per la madre o solo per il padre, pagato almeno come il congedo per malattia.
A estendere il congedo di paternità obbligatorio a 4 mesi retribuiti per tutti i tipi di papà (anche lavoratori autonomi, anche adottivi o gay) punta la proposta di Legge firmata dalla deputata Giuditta Pini, utilizzabile subito dopo il parto o dopo la fine del congedo della madre. Piccoli passi verso una società fatta di genitori che possono provare a essere buoni entrambi, a modo loro, senza ricorrere a formule vuote e fuori dal tempo.