M aggio 1945, l’Armata Rossa entra a Berlino. Marta Hillers è una giornalista tedesca di 33 anni, non è riuscita a fuggire dalla città. Viene brutalmente violentata da un gruppo di soldati russi. Nei mesi successivi, lo stesso accadrà ad altre centomila donne berlinesi. In migliaia moriranno a causa delle violenze. In quell’inferno, però, Marta Hillers decide di sopravvivere a ogni costo e sceglie di diventare l’amante di un ufficiale russo, per assicurarsi del cibo e farsi proteggere dalle aggressioni.
Nove anni dopo la fine della guerra, nel 1954, Marta Hillers pubblica anonimamente un libro in inglese, intitolato Una donna a Berlino, in cui racconta tutta la sua storia. Nel 1959 il volume viene stampato anche in Germania. Il libro è prima ignorato e poi aspramente criticato. L’anonima autrice viene accusata di infangare l’onore delle donne tedesche. Ma, soprattutto, la colpa della Germania è ancora troppo potente e insostenibile perché si possa riconoscere la tragedia di tante donne del Terzo Reich. I terribili crimini della svastica sono ancora ovunque, a insanguinare la memoria dell’Europa.
Si calcola che tra il 1941 e il 1945, durante il tentativo di assalto tedesco all’Unione Sovietica (e la successiva ritirata), la Wehrmacht e le SS abbiano ucciso in combattimento o durante la prigionia tra gli otto e i dieci milioni di soldati dell’Armata Rossa. Il numero di civili uccisi in Unione Sovietica tramite operazioni militari, massacri, rappresaglie, lavori forzati e carestie indotte è stato invece stimato tra i dieci e i sedici milioni. Cifre impressionanti, che tracciano l’orripilante dimensione della strategia di sterminio razziale portata avanti dal nazionalsocialismo. Una strategia in cui l’annichilimento delle popolazioni slave dell’Unione Sovietica, così come di “ebrei e bolscevichi”, era un obiettivo centrale, fondamentale, strutturale.
Così, di fronte alle reazioni al libro, Marta Hillers decide che la sua storia non debba essere più pubblicata finché lei sarà in vita. La donna abbandona l’attività giornalistica e lascia la Germania. Nel 2001, all’età di 90 anni, muore in Svizzera, senza avere mai più scritto una parola.
Due anni dopo, nel 2003, viene però presentata una nuova edizione di Una donna a Berlino. Questa volta il libro diventa un best-seller in tutta la Germania: il paese è pronto, da tempo. Anche la vera identità dell’autrice è presto svelata. Nel 2008, l’attrice Nina Hoss interpreta il personaggio di Marta nel film Anonyma – Eine Frau in Berlin, rendendo quelle violenze definitivamente parte dell’immaginario pubblico tedesco di oggi.
Mille chilometri di ferro e cemento
Esiste un monumento che rappresenta in profondità gli attuali rapporti tra Germania e Russia. Sul fondo del Mar Baltico scorrono dal 2011 due pipeline gemelle. Sono le più lunghe al mondo nel loro genere. Due sequenze di centomila tubi di acciaio ricoperti in cemento. Ciascun tubo pesa 25 tonnellate ed è lungo 13 metri, per un percorso totale di 1224 chilometri. Un gasdotto in grado di portare dalla Russia alla Germania 55 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno. Il nome di questa interminabile opera tecnologica è Nord Stream. La linea parte dalla città di Vyborg, nella provincia di Leningrado, attraversa le acque territoriali e le zone economiche esclusive di Finlandia, Svezia e Danimarca, poi riemerge sulle coste ventose di Greifswald, nel Mecklenburg-Vorpommern tedesco. Al momento, Nord Stream viene utilizzato solo parzialmente, perché le sanzioni tedesche contro la Russia per la guerra in Ucraina colpiscono anche Gazprom, la public company russa che detiene il 51% del consorzio Nord Stream AG. Le sanzioni, però, non sembrano oggettivamente in grado di bloccare la convenienza strutturale e i risultati di un progetto in cui sono direttamente coinvolte anche compagnie tedesche di peso mondiale come E.ON e BASF (oltre alla multinazionale francese Engie).
Nord Stream è il rapporto russo-tedesco fattosi infrastruttura, il simbolo più imponente del legame materiale e strategico tra Germania e Russia. Con un passato di orribili ferite e un presente di costante tensione, quello tra le due nazioni può essere un odio vero, autentico, giustificato, eppure, si tratta al momento di un odio strategicamente impossibile.
A capo del board di Nord Stream AG siede nientemeno che Gerard Schröder, amico personale di Vladimir Putin ed ex Cancelliere tedesco che firmò l’inizio dei lavori delle pipeline nel 2005, a poche settimane dalla scadenza del proprio mandato. CEO di Nord Stream è invece Matthias Warnig, ex funzionario della Stasi e oggi manager di successo, insignito nel 2012 con il prestigioso Ordine d’onore della Federazione Russa. Da qualche tempo si parla addirittura di un Nord Stream 2, un raddoppio della (già doppia) linea esistente di gasdotti, che porterebbe il potenziale di trasporto di gas naturale a 110 miliardi di metri cubi annui.
Non tutto, però, è così semplice, anzi. Attorno al monumentale Nord Stream ruota l’intera complessità della politica estera tedesca nell’Est europeo. Già nel 2006, Radosław Sikorski, che sarebbe di lì a poco diventato Ministro della Difesa della Polonia, paragonò la creazione di Nord Stream al patto nazi-sovietico Molotov-Ribbentrop del 1939. Ora, contro un progetto di Nord Stream 2 si sono espressi molti altri paesi europei, incluso il Governo italiano, che ha sottolineato come si sia trascurata l’idea di un primo South Stream che porti il gas russo sulle coste pugliesi. Nel marzo 2016, con una lettera collettiva indirizzata alla Commissione Europea, i governi di Rep. Ceca, Estonia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia e Romania hanno collegato la comparsa di un Nord Stream 2 a “conseguenze geopolitiche potenzialmente destabilizzanti”. I paesi dell’ex blocco socialista non sono solo preoccupati dalla progressiva perdita dei proventi dovuta a una riduzione dell’importanza dei gasdotti via terra (che dalla Russia raggiungono la Vecchia Europa passando per Ucraina, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia e Bielorussia), ma soprattutto dalla possibilità di trovarsi in una posizione di pesante ricattabilità geo-energetica. Grazie a una continua espansione del Nord Stream, infatti, la Russia potrebbe facilmente tagliare i rifornimenti energetici all’Europa dell’est e del centro-est, senza coinvolgere direttamente l’Europa occidentale.
Euro, zloty, corone, fiorini e rubli
Con una dipendenza energetica del 55% dall’import di gas e petrolio, di cui più di un terzo provenienti dalla Russia, per la Germania è difficile districarsi tra i propri interessi energetici e l’egemonia economica che da anni persegue sugli stati dell’Europa centro-orientale. Un dilemma che i tedeschi vogliono superare, visto che sono sempre meno concentrati sull’Europa mediterranea e sempre più rivolti verso est, con uno sguardo lungo, lunghissimo, al cui orizzonte compare la superpotenza cinese.
Sul piano dell’egemonia commerciale, i paesi dell’Europa centro-orientale sono partner irrinunciabili per la Germania. Se in Russia ci sono al momento oltre 5200 aziende tedesche, ce ne sono già più di 6000 nella sola e ben più piccola Polonia. Con la Russia la Germania ha avuto nel 2016 un volume di 21,5 miliardi di esportazioni e 26,5 miliardi di importazioni, per 48 miliardi complessivi. Anche se i numeri sono stati sostanzialmente dimezzati dalle sanzioni, si tratta comunque di un volume di scambi commerciali ancora fortemente influenzato dall’arretratezza strutturale dell’economia russa.
I paesi della Mitteleuropa danubiana e centro-orientale sono un’altra cosa. Secondi i dati ufficiali della DIHK (l’Associazione tedesca delle Camere di industria e commercio) nel 2016 la Germania ha esportato in Polonia per 54,8 miliardi di euro e importato per 46,4, per un totale di 101,2 (un incremento del 100% rispetto a dieci anni fa). Nel 2016 la Polonia è stata il settimo partner commerciale della Germania, subito alle spalle dell’Italia. Dieci anni fa, l’Italia era al quinto posto, la Polonia al dodicesimo. In Repubblica Ceca l’economia tedesca ha viaggiato nel 2016 su un export di 38,2 miliardi e un import di 42,3, per un totale di 80,5 miliardi (erano 44,36 nel 2006). Nelle repubbliche baltiche il volume d’affari è di 9,4 miliardi di euro, era di 6,4 nel 2006. Se a questi cinque mercati si aggiungono le altre nazioni dell’area: Romania, Bulgaria, Ungheria, Moldova e Repubblica Slovacca, il volume d’affari nel 2016 ha superato i 300 miliardi. Per comprendere ancora più a fondo l’importanza del centro-est europeo per la Germania basta considerare che nel 2016 il volume di scambi con i suoi primi due partner commerciali è stato di 164 miliardi con gli USA e di 169 miliardi con la Cina.
Russophobie o Russophilie?
Amburgo, luglio 2017. Vladimir Putin e Angela Merkel conversano brevemente in un momento di passaggio del summit G20. Putin spiega qualcosa muovendo il palmo della mano e, per un attimo, Angela Merkel alza gli occhi al cielo. L’immagine viene catturata dalle telecamere e il momento di impazienza della Cancelliera diventa subito una gif: “Ecco cosa pensa davvero Merkel di Putin” si legge in un tweet che diventa virale. Altri meme, al contrario, sfruttano la stessa o altre immagini per celebrare l’affermazione strategica di Putin in casa della Cancelliera, ad esempio grazie al prolungato dialogo con il Presidente USA Donald Trump.
In antitesi con quella che fu la bromance tra Putin e Schröder, l’algida e protestante Angela Merkel non stravede per la ruvidità e il machismo di Vladimir Putin. Pare che tra i due ci sia una spiccata antipatia personale: mentre Putin cerca in continuazione un trattamento tra pari in cui la Russia venga riconosciuta come temibile superpotenza, Merkel si muove con una diplomazia passivo-aggressiva che tradisce talvolta un tradizionale complesso di superiorità tedesco nei confronti dei russi. Dall’altro lato, i due si conoscono ormai da più di un decennio e probabilmente si capiscono fin troppo bene, considerando che Angela Merkel, ex ragazza della DDR, comprende il russo, mentre Vladimir Putin, ex spia del KGB nella Germania socialista, parla fluentemente tedesco.
L’ambivalenza verso la Russia non riguarda solo il Governo tedesco, ma tutta la scena politica nazionale. Tendenzialmente, la CDU di Merkel è sempre stata anti-russa e anti-sovietica fin dai tempi di Konrad Adenauer, padre fondatore della RFT. I socialdemocratici, al contrario, hanno sempre cercato una terza via di posizionamento strategico più indipendente all’interno del bipolarismo russo-americano. Al tempo stesso, oggi, la SPD non è sempre a suo agio con le pulsioni anti-europeiste del Governo russo, mentre alcuni settori, o alleati, della CDU, come la CSU bavarese, si sono mostrati negli ultimi anni particolarmente aperti verso Mosca. A ben guardare, i soli punti fermi della politica tedesca di fronte alla Russia sono, da un lato, la sinistra radicale Linke, in cui le posizioni filo-Mosca sono strutturalmente legate alla tradizione dell’anti-atlantismo, e, dall’altro lato, il partito dei Verdi, che si sono sempre di più affermati con un profilo liberal e ultra-europeista, molto attento alle violazioni della libertà d’espressione, dei diritti umani e delle libertà civili nella Federazione Russa. Un caso particolare, inoltre, è la nuova destra populista AfD, che si è naturalmente allineata alle dottrine anti-UE e anti-immigrazione incoraggiate dal nuovo soft power russo d’impronta identitario-tradizionalista. Le posizioni di Linke e AfD, inoltre, sono fortemente legate al loro radicamento territoriale nei Länder della Germania orientale, dove le sanzioni economiche contro Mosca hanno creato i danni maggiori.
Russofobia e russofilia sono anche rintracciabili in alcuni apparati fondamentali dello Stato tedesco: si dice per esempio che i servizi d’intelligence tedesca siano fortemente filo-atlantisti (perché in seno all’atlantismo sono nati e si sono sviluppati), mentre tra i generali della Bundeswehr, malgrado la dipendenza assoluta dalla NATO, non mancherebbero simpatie per la Russia o per formule di pace euroasiatica. La crociata della BND, l’intelligence tedesca, contro le possibili manipolazioni russe del voto in Germania, da un lato, e la presenza tra i leader di AfD di un Colonnello della Bundeswehr come Georg Pazderski, dall’altro, possono confermare alcuni aspetti di queste tendenze.
Per districarsi in una ragnatela sempre più complessa, tipica della geopolitica contemporanea, in Germania l’intellighenzia politica si è messa freneticamente al lavoro, sublimando l’inquietudine dei tempi in una tedeschissima volontà di sapere. Nell’ottobre 2016, ad esempio, è stato aperto nel cuore del quartiere Mitte di Berlino lo ZOIS, un nuovo Centro studi sull’Europa dell’Est. Realtà indipendente, il centro di ricerca è tuttavia finanziato direttamente dal Ministero degli Esteri con un budget di 2,5 milioni l’anno. Lo ZOIS è solo una delle molteplici espressioni della crescente importanza della questione dell’Europa centrale e orientale. La domanda sempre più ricorrente è: quale dev’essere, oggi, l’Ostpolitik della Germania?
Il mito dell’Ostpolitik
Nella parola “Ostpolitik” (politica dell’est o “per” l’est) si sono condensati nel corso dei decenni più sfumature e significati. Nell’immaginario collettivo europeo, l’Ostpolitik ricorda soprattutto il Cancelliere Willy Brandt inginocchiato di fronte al memoriale del Ghetto di Varsavia distrutto dalle armate hitleriane. Anche per quel gesto, un anno dopo, Brandt fu insignito del Premio Nobel per la Pace. Il meccanismo strategico fondamentale dell’Ostpolitik tedesca, però, è stato soprattutto un altro.
La Germania occidentale del dopoguerra, guidata dall’egemonia cristiano-democratica di Adenauer, aveva creduto fermamente nella dottrina Hallstein, che riteneva qualsiasi riconoscimento o rapporto diplomatico con la DDR comunista e gli stati del blocco sovietico come una rinuncia alla rivendicazione a una nazione tedesca unica e indipendente. A partire dal 1966, prima da ministro degli Esteri e poi da Cancelliere, Brandt e il suo braccio destro Egon Bahr capovolsero quasi segretamente l’assunto centrale della dottrina Hallstein, vedendo invece in un avvicinamento verso est un complesso percorso di “piccoli passi” verso il ritorno di una Germania unica e indivisibile. In questo senso contribuì anche l’ideologia socialdemocratica di un possibile incontro tra capitalismo e socialismo. Anche se contraddistinta da valori fondamentali e universali come la distensione diplomatica, il dialogo e il disarmo, il vero nucleo dell’Ostpolitik fu quindi un’ostinata volontà tedesca di ritornare una nazione autonoma e libera. Un inoffensivo pacifismo e le collaborazioni diplomatico-commerciali, del resto, erano la sola arma a disposizione di uno Stato, quello tedesco, senza alcun potere militare.
Tra i diversi trattati che sancirono il progredire dell’Ostpolitik ci fu quello delle Quattro potenze su Berlino, nel 1971: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica si riunirono nella città divisa per stabilirne l’evoluzione amministrativa. L’intento era di mantenersi fedeli al caposaldo dell’equilibrio di Yalta: la Germania doveva restare spaccata in due. Proprio in quell’occasione il diplomatico russo Pëtr Abrasimov riaffermò: “Voi controllate i vostri tedeschi, che noi controlliamo i nostri”.
Diciotto anni dopo, le parole di Abrasimov verranno seppellite dalle macerie del Muro. A portare a compimento la riunificazione e una nuova affermazione europea della Germania sarà il Cancelliere cristiano democratico Helmut Kohl, che per l’unità tedesca si batterà contro un’infuriata Margaret Thatcher, convincerà François Mitterand e, anche, si affermerà abilmente sugli ultimi “niet” dell’Unione Sovietica in caduta libera.
Kohl, il Cancelliere della riunificazione, in modo tragicamente storico, si presenterà all’appuntamento con la Storia portando in sé tutti i tragici segni della Germania del Novecento: cresciuto all’ombra della svastica, inquadrato come tutti i suoi coetanei nella Hitlerjugend, sposò dopo la guerra Hannelore Kohl, energica futura first lady, ma anche donna segnata dalla brutale violenza sessuale subita da parte dei soldati russi nel 1945, alla sola età di dodici anni.
Prove tecniche di Eurasia
Cosa vuol dire, quindi, parlare di Ostpolitik, oggi che il suo reale obiettivo originale, la riunificazione tedesca, è stato raggiunto? Il nuovo obiettivo sono l’espansione e l’egemonia commerciale in quanto tali. Una nuova Ostpolitik ha e avrebbe però alcuni principali aspetti in comune con quella di Bahr e Brandt. Ora come allora, infatti, la Germania deve contare sulla presunzione dell’annullamento del deterrente militare come elemento di strategia geopolitica. La Germania ha sviluppato una teoria fatta su misura per un paese molto potente economicamente ma ancora limitato militarmente. Si tratta del sogno di affermarsi come “potenza di pace” e di applicare un concetto di “Führung aus der Mitte”, “guida dal centro”. Questa strategia ha in qualche modo funzionato negli anni Novanta e Duemila, in cui Berlino è riuscita a muoversi verso est senza creare irrimediabili contrasti con il grande Orso russo.
L’idea di accordarsi e coesistere con la Russia, del resto, è sempre stato un “eterno ritorno” della politica tedesca. Già il Cancelliere di Ferro Otto von Bismarck fece tutto il possibile per creare un asse con lo Zar, giungendo all’Alleanza dei Tre Imperatori. Non durerà a lungo, ma dopo la Prima Guerra Mondiale la Germania ritornerà a sancire un’amicizia con la nuova Russia comunista, firmando il Trattato di Rapallo nel 1922. La stessa scuola geopolitica di Monaco degli anni Trenta fu una delle principali ispiratrici dell’espansionismo nazista, ma sosteneva ugualmente che la Germania dovesse espandersi a est coabitando pacificamente con l’Unione Sovietica, in modo da creare un asse euroasiatico contro quello che veniva identificato come il potere anglo-americano.
Nel nuovo millennio, con una Germania di nuovo forte, le vecchie dottrine sono state aggiornate. La Cancelleria di Gerard Schröder, come si è visto, è il momento di svolta di una nuova Ostpolitik che punti all’egemonia economica continentale. A un certo punto, nel 2004, la stessa espansione dell’UE verso est viene accolta positivamente da settori della società russa, che la intendono come la creazione di un ponte per la modernità. Proprio in quegli anni diversi analisti geopolitici iniziano a parlare di GeRussia, un termine coniato inizialmente negli ambienti della Duma. Da parte sua, Vladimir Putin resta per anni convinto che gli interessi economici ed energetici tedeschi non possano essere più deboli delle urgenze ideologiche in materia di diritti civili e diritti umani.
Nel 2010, un anno prima dell’apertura del Nord Stream e due anni prima dell’ingresso della Russia nel WTO, Putin pubblica un contributo editoriale direttamente sul rinomato quotidiano liberal tedesco Süddeutsche Zeitung. Nell’articolo, il Presidente russo propone la “creazione di una comunità economica armoniosa che vada da Lisbona a Vladivostok”. “Il risultato”, continua Putin, “sarebbe un mercato continentale unificato dal valore di bilioni di euro”.
Un pugile per Kiev
Poi, però, arriva la crisi in Ucraina. Dopo il 2012 i piani di espansione commerciale dei tedeschi giungono concretamente a un classico modello di doppia espansione sul Mar Baltico e sul Mar Nero. Germania e Unione Europea cercano una via economica non immediatamente conflittuale all’assorbimento dell’Ucraina, semplicemente sostenendo le diffuse e pressanti speranze di un’ampia parte della popolazione, da anni alla ricerca di uno smarcamento dall’orbita post-sovietica della Russia.
Quello che Germania e UE non saranno però in grado di gestire è l’evoluzione della crisi ucraina in una questione militare. Fin dall’inizio delle proteste pro-europeiste a Kiev, la Russia considera subito l’Ucraina una questione di politica interna, non solo per la rivendicazione dei territori della Crimea, ma anche e soprattutto per l’estrema importanza strategica della base navale di Sebastopoli, cruciale sbocco militare e commerciale sul Mediterraneo.
Tra i diversi attori internazionali sullo scacchiere ucraino, la specifica posizione della Germania può essere ricostruita tramite la vicenda politica di Vitali Volodymyrovych Klitschko, ex pugile tre volte campione del mondo dei pesi massimi: 47 incontri, 2 sconfitte, 45 vittorie, 41 per KO.
Dal 2006 Klitschko inizia la carriera politica, nel 2010 fonda il partito pro-europeista UDAR, arrivando al ruolo di parlamentare ucraino nel 2012. Già nel 2011 l’UDAR diventa un partner della CDU di Angela Merkel e si aprono ampie collaborazioni tra UDAR e la Konrad Adenauer Stiftung, fondazione ufficiale dei cristiano-democratici tedeschi. Nel 2013 il settimanale tedesco Der Spiegel racconta dell’appoggio pubblico di Merkel per l’ex pugile e dei piani tedeschi di sostenerlo nella scalata alla presidenza in patria. Nel 2014 Klitschko è uno dei protagonisti delle proteste di Euromaidan. Le proteste, però, si trasformano in scontri sempre più violenti e, così, Klitschko diventa anche l’uomo scelto dal governo tedesco per tentare una mediazione in extremis. Il 21 febbraio, quando il centro di Kiev è già lo scenario di una guerra civile, Klitschko e gli altri leader dell’opposizione incontrano il Presidente filo-russo Yanukovich, firmando un compromesso sotto la supervisione dei ministri degli esteri polacco, francese e del tedesco Frank-Walter Steinmeier, oggi Presidente della Repubblica di Germania e da sempre su posizioni di dialogo con la Russia. Il compromesso tra presidente e opposizione, poche ore dopo, viene rifiutato dalla piazza sempre più intransigente e infuocata, che giudica Yanukovich il diretto responsabile dei morti durante le proteste. Davanti alla folla di Maidan, sotto un mare di fischi, Klitschko deve scusarsi per aver stretto la mano a Yanukovich. La situazione precipita e alla centralità del confronto tra UE e Russia si sostituisce una più classica escalation Nato-Russia. A marzo le truppe russe già di stanza in Crimea, prendono il controllo della penisola russofona. Nei mesi successivi Klitschko, che aveva fino ad allora dichiarato di volersi candidare alla Presidenza dell’Ucraina, cambia idea e si propone unicamente come Sindaco di Kiev, carica per cui viene eletto nel giugno 2014.
Con la crisi dell’Ucraina e della Crimea è stata sancita la fine dell’illusione tedesca di poter garantire una pax europea tramite i soli accordi commerciali bilaterali, le politiche energetiche e l’egemonia economica da “potenza di pace”. Le sanzioni economiche contro la Russia sono stati uno dei cavalli di battaglia di Angela Merkel, che ha portato dalla sua parte anche settori economici tedeschi inizialmente molto riluttanti a mutilare i propri interessi. Ma i legami energetici tra i due paesi, come si è ampiamente visto, continuano a essere troppo vitali e profondi per essere completamente ignorati. Gli incontri del cosiddetto “Quartetto di Normandia”, che coinvolge i governi di Germania, Francia, Russia e Ucraina, hanno confermato la necessità di Berlino di appoggiarsi all’importanza militare francese per perseguire una certa efficacia diplomatica.
Questo e altri scenari inaspettati, come Brexit e la vittoria di Donald Trump negli USA, hanno così accelerato un nuovo dibattito interno alla leadership tedesca: quello sull’inadeguatezza militare della Germania.
Sei panzer tedeschi in Lituania
Gennaio 2017. 500 soldati della Bundeswehr, 20 mezzi da fanteria Marder e 6 panzer Leopard 2A6 entrano in Lituania. Sono passati 76 anni da quando la Wehrmacht iniziò proprio da lì la sanguinosa Operazione Barbarossa.
Questa volta i tedeschi, però, sono arrivati come alleati, a capo del NATO Battlegroup Lituania, andandosi a insediare nella città di Rukla, a meno di 100 km dal confine con la Bielorussia e a circa quattro ore dal territorio russo di Kaliningrad. L’operazione è tanto strategica quanto simbolica, così come simboliche sono le prime reazioni. Pochi giorni dopo l’arrivo dell’esercito tedesco, una veloce campagna di disinformazione diffonde la notizia che un gruppo di soldati tedeschi avrebbero rapito e violentato un’adolescente lituana. Il governo baltico si affretta a smentire la notizia, mentre diversi media tedeschi accusano immediatamente la Russia di orchestrare un attacco di “fake news” contro la Bundeswehr, senza trovare però prove dirette a supporto dell’ipotesi.
Dopo le prime scaramucce mediatiche, la Bundeswehr è ora presente sul territorio lituano da sei mesi. Il futuro sviluppo del potenziale militare tedesco, però, resta una questione ambigua. Se da un lato sono gli Stati Uniti a chiedere un maggiore investimento tedesco nella NATO, dall’altro l’incertezza estrema degli equilibri internazionali rende difficile vincolare eccessivamente un’eventuale futuro riarmo tedesco al patto atlantico. L’ambiguità degli scenari, così come l’incertezza dell’attuale posizionamento geopolitico della Germania di fronte alla Russia, sono attualmente esacerbate dalla spaccatura istituzionale all’interno della geostrategia degli Stati Uniti.
Nel febbraio 2017, alla conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, il ministro degli esteri russo Sergei Lawrow ha salutato l’arrivo di un’era “post-occidentale”. Qualunque cosa significhi, una cosa è certa: per i tedeschi è finalmente finito il dopoguerra, con tutto quello che ne consegue.