N ell’Apocalisse di Giovanni si legge: “ho aperto davanti a voi una porta che nessuno può chiudere”. La fine del tempo, l’apocalisse, è proprio l’inizio di ogni discontinuità storica. Etimologicamente, infatti, apocalisse è qualcosa che stravolge l’orizzonte conosciuto, una rivelazione, che il nostro tempo sembra forse per la prima volta abbastanza maturo per non rifuggire.
Gli eroi dei disaster movies anni Novanta riuscivano sistematicamente a riunire lo spirito dell’umanità intera e a scongiurare l’armageddon. Uno dei film più discussi degli ultimi mesi, Don’t Look Up, abbandona invece la redenzione dei celebri blockbuster per registrare la follia di un mondo condannato. Gli antieroi di questo film sono due astronomi (Di Caprio e Lawrence) che cercano invano di avvisare politici e popolazione dell’imminente impatto di una grande cometa che potrebbe colpire la Terra. Combattono invano l’anestesia di un mondo che rifiuta di alzare gli occhi al cielo. L’intelligenza e l’affettività umane sono imbrigliate dagli algoritmi del profitto e dello spettacolo; le deviazioni dalla regola sono derise, represse o silenziate con lo xanax. Paradossalmente proprio Netflix produce una sceneggiatura in cui l’umanità impotente e schiava di una plutocrazia digitale attraversa e vive tutto, fino alla morte. Nulla possono nemmeno le testate nucleari contro l’ombra dell’estinzione che si avvicina e la totale delegittimazione di ogni istituzione pubblica e scientifica. La società rimane indifferente davanti alla propria fine imminente.
Il successo di Don’t Look Up ci racconta di un sentimento più diffuso. L’immagine apocalittica della fine del genere umano è ormai un costante leitmotiv nelle subculture e nei discorsi delle nuove generazioni del mondo occidentale. Tanti giovani e adolescenti sono ossessionati dall’estinzione, il più delle volte apatici rispetto alle sorti nefaste di un mondo che non ci sarà più, talvolta rassegnati, altrimenti arrabbiati o comunque pienamente consapevoli che “la nostra casa sta bruciando”, prendendo a prestito l’eloquente immagine di Greta Thunberg. Quel che è certo è che hanno un’idea a riguardo, la contemplano, la pensano, la vivono, la prendono sul serio, sono pronti. Nell’autunno 2021 decine di migliaia di adolescenti a Vienna, Praga e Varsavia si sdraiano a terra per simulare la fine del mondo. È lo stesso gesto delle giovani coscienze millenariste che durante le pestilenze trecentesche cantavano “giro, giro tondo” e “tutti giù per terra!”.
A Milano, a settembre, fuori dalla pre-COP6 sul clima, i presidianti di Extinction Rebellion hanno fatto suonare per tutta la giornata, ogni ora, una sirena per ricordare che “il tempo sta finendo”. E se è vero che l’estinzione probabile non mobilita tutti, è possibile che essa sia presente universalmente “nell’inconscio politico” come lo chiama Hillmann, soprattutto in quel 30% in più (rispetto al dato di 10 anni fa) di giovani dai 10 ai 17 anni che finiscono in pronto soccorso per urgenza psichiatrica, come denuncia la società torinese di neuropsichiatria infantile. Infatti, secondo un recente studio che ha intervistato gruppi di ragazzi in tutto il mondo, più della metà dei giovani intervistati ha dichiarato di temere per la sicurezza della loro famiglia e che l’ansia influenza la loro capacità di dormire, studiare, mangiare o giocare. Tre quarti di loro dichiarano di percepire il futuro come “terrificante”. Quattro su dieci hanno dichiarato che la crisi climatica li rende incerti sulla decisione di diventare genitori, e oltre la metà ritiene che l’umanità sia “spacciata”. Il dato si impenna a 9 su 10 in paesi particolarmente colpiti dai danni ambientali dell’Antropocene, come il Brasile deforestato e le Filippine colpite da cicloni sempre più gravi. Ma non è solo clima l’aria che si respira, e i ragazzi sembrano altrettanto preoccupati per le catastrofi sanitarie. Una recente indagine Ipsos (2021) rivela che solo un giovane su quattro ritiene che la sua vita potrà tornare alla fase che ha preceduto la pandemia di COVID.
Detto ciò, l’ecopsicologia sembra diventata quasi una moda ormai. Ci sono esperti si rincorrono per definire nuove diagnosi – dall’“ansia climatica” alla “solastalgia” fino alla “ecofobia” – che descrivono il contatto con la minaccia di una catastrofe climatica e sociale. Ma al di là della natura dei contenuti ansiogeni, legati o meno al clima e all’ambiente, ciò che qui ci interessa è il tipo di soggettività che viene a crearsi nell’ombra di un futuro estremamente minaccioso a cui sembra inesorabilmente destinata, futuro che non dà più ossigeno ma che toglie il respiro. Non tanto la ricerca di una causalità forzata tra vissuti ansiogeni e crisi climatica, ma piuttosto il domandarsi cosa c’è sotto a entrambi i fenomeni. Quali difficoltà incontreranno le ultime generazioni, specie nell’incontro/scontro con altre che sono cresciute proiettandosi in futuri diversi? Come sfuggire all’impotenza e all’ansia del domani, sempre che sia possibile? Come vivere oggi senza la promessa che il domani sarà meglio? Ci vorrà il tempo giusto, forse decenni per capirlo.
Tanti giovani e adolescenti sono ossessionati dall’estinzione.
Doomer (dall’inglese doom: catastrofe) è un’appellativo ironico sempre più utilizzato per etichettare quella tipologia di ventenni preoccupati per le condizioni climatiche che credono in una probabile estinzione umana. Vengono definiti “sgonfiati”, privi di speranza. Se i giovani doomer hanno un rapporto familiare con un futuro non lineare, incerto, per la generazione precedente di palloni gonfiati, i boomer, invece è semplicemente impensabile che l’umanità possa scontrarsi con il suo fallimento finale. Lo spettro della fine rimane per le soggettività moderne (nati prima degli anni Novanta, per intenderci) ad un livello inconsapevole e preverbale. Infesta la mente più che informarla, e quest’ultima si difende sperando, cioè illudendosi di rincontrare la sicurezza smarrita, o disperandosi.
Una mente sociale in preda a queste convulsioni produce notevoli aberrazioni come le fantasie di Bezos e Musk per cui l’umanità sopravviverà alla fine del pianeta Terra per vivere su Marte, oppure l’ottimismo di Al Gore, miope rispetto alle difficoltà della conversione ecologica. “Tuttavia i fatti sono ostinati e la realtà resiste” come scrive Serge Latouche. Un dato rilevante che non possiamo ignorare se vogliamo comprendere la fenomenologia contemporanea è quindi che la nostra è la prima generazione per la quale il futuro della specie si approssima ad un vicolo cieco. Scrive ancora Latouche nel suo libro Limite:
Le generazioni attuali sono le prime a veder sorgere lo spettro di limiti invalicabili. In questo senso “il tempo del mondo finito” ci si impone senza scampo […] La negazione dei limiti e lo spregio della misura oggi fanno si che limiti e misura risorgano nella forma di catastrofi.
Qualunque tendenza del mondo odierno (dallo scioglimento dei ghiacci all’antibiotico resistenza, dallo spillover al riscaldamento globale e passando per le catastrofi naturali che farciscono i giornali degli ultimi anni) sembra destinata a portare con sé una probabile estinzione di fronte alla quale siamo del tutto impotenti. Siamo in qualche modo anche noi prigionieri della Storia. La tecnica e i suoi automatismi finanziari, bio-medici e info-digitali, hanno preso il sopravvento. L’umano è antiquato, per dirla con Gunther Anders, non è più la misura di tutte le cose. L’uomo vitruviano si è seduto, invecchiato, su qualche vagone pilotato automaticamente su binari morti. Questo tunnel temporale dall’esito scontato è ben descritto dal Comitato Invisibile:
Il vicolo cieco del presente, percepibile ovunque, è ovunque negato […] Da qualsiasi angolazione lo si prenda, il presente è senza uscita. Esso non ha più nemmeno la minore, tra le sue virtù. A coloro che vorrebbero assolutamente sperare, esso toglie ogni appiglio. Coloro che pretendono di avere delle soluzioni, sono smentiti nell’arco di un’ora. È cosa risaputa che tutto non può che andare che di male in peggio. “Il futuro non ha più un avvenire”.
La posizione da inerme passeggero della storia se non incorporata consapevolmente, se non elaborata e attraversata collettivamente, produce una forma di negazione del reale (come i dontlookupper del film), umiliazione sistemica e strutturale depressione (disperazione), aggressività nazionalistica e identitaria (difesa di speranze antiquate, vedi slogan elettorali come “Make America Great Again”). E però bagnarci nelle acque dell’impotenza umana davanti alla natura (e alla tecnica) è forse un passaggio obbligato. Sgonfiarci un po’ – Franco Bifo Berardi la chiama psico-deflazione – per riprendere contatto con ciò che ci circonda, è un primo passo. A questo proprio proposito Bifo scrive che:
Non abbiamo mai costruito le condizioni per l’elaborazione dell’umiliazione, per una sua evoluzione cosciente. La questione diventa importante nell’orizzonte dell’estinzione: tutt’a un tratto ci rendiamo conto del fatto che ci sono processi ingovernabili dalla volontà umana, e la volontà di potenza iscritta nella cultura della modernità reagisce in maniera panica, aggressiva, e alla fine suicidaria.
Al contrario, un orizzonte collettivo che fa perno sulla fine dell’umanità e sulla sua costitutiva impotenza può restituire senso all’esperienza umana contemporanea e addirittura trasformarla. Il cambiamento è paradossale, più l’umanità (e soprattutto parte di essa) cerca di diventare quel che non è e non sarà mai, padrona del mondo e di se stessa, più rimane ferma.
“La via d’uscita [anche per l’impotenza] è solo attraverso”, scriveva Fritz Perls. Come sostiene Jean-Pierre Dupuy in La Marque du sacre: “Quando la finitezza della condizione umana è percepita come alienazione anziché come fonte di senso, si perde qualcosa di infinitamente prezioso in cambio del perseguimento di un sogno puerile”. Se l’ideale di potenza illuministico, trascinatosi fino al suo trionfo (e crollo) post-moderno, era la locomotiva, perennemente proiettata ad un altrove e ad un futuro redentivo, “la rivoluzione è un freno di emergenza”. Per Walter Benjamin l’idea di rivoluzione va intesa come un’interruzione della continuità storica del dominio in vista di un reincantamento del mondo in grado di dare voce e forza ai vinti della storia (tra i quali in questo momento figurano bambini e adolescenti): “Marx ha detto che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia globale. Forse le cose sono diverse. Le Rivoluzioni possono essere l’atto con cui l’umanità che viaggia sul treno tira il freno di emergenza”.
La rivoluzione ferma il motore, reincanta il meccanismo. Questo è il pensiero della fine del ritmo (“tu-tum tu-tum” e poi più nulla): un freno di emergenza. Immaginare la fine del tunnel, per quanto macabra possa risultare, è il primo passo per escogitare una via di fuga, per risvegliarsi dal torpore del sogno moderno. L’estinzione come orizzonte di senso è quindi fertile se costituisce un’uscita dal falso dualismo speranza-disperazione. E sulla fecondità del pensiero della fine si era già espresso De Martino: “il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte”.
L’orizzonte dell’estinzione può essere medium trasformativo se ci fa rendere conto che la nostra libertà si esprime nel perimetro della potenza e non viceversa, citando ancora Berardi. Questa rivelazione fa sorgere la domanda “cosa posso fare?”, troppo a lungo soppiantata dal “cosa voglio fare”. È così che nasce la solidarietà e l’organizzazione, quando insieme si decide di concentrarsi sul perimetro più o meno espandibile della potenza collettiva. Il volontarismo magico, la brama cartesiana di dominio umano sulla natura esteso ai margini dell’irreale, si trasforma in senso del limite. Il punto di incontro tra l’organismo e l’ambiente torna ad essere sensibilizzato. L’incapacità di riprodurre il futuro che ci si aspettava permette nuove sensibilità, dolorose e non, nell’apertura agli imprevisti, rispetto ai quali non si può nulla.
Il presagio della fine è un formidabile elemento di verità.
Il presagio della fine è un formidabile elemento di verità. Una verità troppo pesante e angosciosa da sorreggere da soli. Da qui la grande attrazione per le mobilitazioni per il clima: permettono di sognare il futuro insieme (dopotutto è forse vero che “non esiste gruppo senza futuro e futuro senza gruppo”). Il futuro-minaccia, come lo ha definito Miguel Benasayag, diventa condivisibile e restituisce senso alle esperienze soggettive. Immaginare la fine è il modo in cui stiamo imparando ad avere a che fare con l’incertezza e la complessità del mondo e di noi stessi, affrancandoci dall’ansia che ne deriva e dall’illusione di un domani redentivo. È sempre stato complesso il mondo, oggi ce ne accorgiamo. Nella fine delle ideologie e nel crollo dei grandi orizzonti collettivi della modernità, l’orizzonte dell’estinzione diviene medium della scoperta di essere immersi nell’incertezza e nell’impotenza. La minaccia si rivela per quel che è ed è sempre stata): incertezza e limitatezza.
Si affrancheranno allora dalle vecchie illusioni di crescita infinita le nuove generazioni, non più guidate dai lumi della ragione individualista e della tecnica, ma dalla consapevolezza di essere un tutt’uno con il mondo, più complesso e incerto, ma forse, se condiviso, più intenso e interessante.