L o scorso marzo i media europei hanno riportato, con un certo malcelato sgomento, la notizia di scontri armati che in Kurdistan iracheno si andavano consumando tra un battaglione Peshmerga fedele al presidente Mas’ud Barzani – sostenitore del referendum per l’indipendenza del Kurdistan che dovrebbe svolgersi il prossimo 25 settembre – e alcune milizie affiliate al Pkk. Barzani e il fondatore del Pkk, Abdullah Öcalan, sono, con ogni probabilità, le due figure attualmente più influenti nel mondo politico curdo. Il primo ha da poco avviato un percorso attraverso cui intende ottenere la piena indipendenza da Baghdad; mentre il sistema politico teorizzato in carcere da Öcalan ha finito per ispirare la rivoluzione autonomista del Rojava, l’enclave curdo-siriana che con il Pkk, oltre a ideologia e architettura istituzionale, condivide un’aspra rivalità verso il presidente curdo-iracheno. Come notato da Adriano Sofri, simili divisioni sono tutt’altro che infrequenti all’interno dell’universo irredentista curdo. Eppure, in Europa, le pubbliche opinioni continuano spesso a mostrarsi confuse di fronte al ciclico infrangersi del cliché che nei curdi vede un popolo romanticamente unito nel medesimo anelito all’indipendenza.
In realtà, dell’irredentismo curdo, Barzani e Öcalan rappresentano volti antitetici: il primo ne incarna la natura più conservatrice e legata a costumi di natura tribale; mentre Ocalan ne è probabilmente la manifestazione più radicale e al contempo distante dal nazionalismo comunemente inteso. La struttura tribale e feudale della società curda fu, sul finire dell’Ottocento, un elemento centrale nell’emergere del movimento etno-nazionalista: tanto che, a cavallo tra i due secoli successivi, quel movimento è andato mutando di forma e contenuti a seconda del grado di adesione o di rigetto nei confronti di tale assetto sociale.
Nazionalismo tribale
Mas’ud Barzani discende da una delle più antiche e influenti tribù curde: furono i suoi avi a guidare alcuni tra i primissimi moti indipendentisti nella regione. Nel 1912, inorridito dal nuovo regime “ateo” inaugurato dai Giovani turchi, al quale si rifiutava di pagare le tasse, lo shaykh Abd al-Salam Barzani guidò una sollevazione di popolo contro le forze governative nella provincia di Mosul, infliggendo loro pesanti perdite prima di venire impiccato.
Più che leader nazionalisti, gli shaykh erano guide religiose: all’interno delle comunità curde la loro influenza era andata crescendo per via delle politiche di centralizzazione poste in essere dall’impero ottomano, che agli inizi del diciannovesimo secolo aveva esautorato i vecchi capi tribali (agha), privandoli di importanti mansioni amministrative e di controllo del territorio. Gli agha, in altre parole, chiedevano indietro la loro autonomia e il loro potere feudale; ma non possedevano una capacità di mobilitazione pari a quella degli sceicchi, ai quali quelle comunità, fortemente devote all’Islam delle confraternite Sufi, attribuivano poteri quasi sovrannaturali. L’avversione nei confronti del nascente secolarismo e dell’autorità centrale rappresentarono il motore delle prime insurrezioni curde: nel 1919, quanto accaduto a Mosul si sarebbe ripetuto a Sulaymaniyah, con la chiamata al jihad contro i britannici; e in seguito nella Turchia kemalista, dove lo sheikh Said di Dicle reclutò ventimila contadini perché lottassero per la restaurazione del Califfato.
In Europa esiste un cliché che vede nei curdi un popolo romanticamente unito nel medesimo anelito all’indipendenza.
Per come siamo avvezzi a intenderlo oggi, in effetti, il nazionalismo curdo iniziò a prender forma a Mahabad, una cittadina di 15mila abitanti sul bordo occidentale del Kurdistan iraniano. Sul finire degli anni Trenta, il baricentro del movimento irredentista si era andato spostando tra la nascente classe media urbana: a sognare l’indipendenza, ora, erano gruppi di insegnanti, funzionari pubblici, studenti. Sotto il crescente influsso del socialismo, questi uomini iniziarono presto a sviluppare una coscienza di classe: nel luglio del ’43, un editoriale apparso sul primo numero di Nishtman (Madrepatria), un periodico in lingua curda stampato nella città di Tabriz, criticava l’egoismo feudale degli agha. “Il vostro capitale – si leggeva – accumulato col denaro che i nemici del popolo vi elargiscono a piene mani, ritarda la liberazione dei curdi e crea intrighi dannosi per tutti noi”.
Nishtman era l’organo ufficiale della ‘Società per la rinascita del Kurdistan’ (Komala-i Jiyanawi Kurdistan), un movimento clandestino nato a Mahabad durante l’occupazione anglo-sovietica del ‘41. Nel 1945, sotto la guida illuminata di Qazi Muhammad, un religioso locale che godeva di grande rispetto nella regione, il gruppo fondò il Partito democratico del Kurdistan (PdK): l’anno seguente, approfittando del momentaneo appoggio sovietico, il PdK proclamò la Repubblica di Mahabad, e con essa il primo esperimento di autogoverno dei curdi. L’intera architettura del moderno nazionalismo curdo fu disegnata in quei giorni: un nuovo programma scolastico, dagli standard decisamente avanzati per l’epoca, fu varato in lingua curda; le donne iniziarono a partecipare attivamente alla vita sociale e politica e le terre che lo Scià aveva confiscato ai capi tribali vennero “nazionalizzate” e ridistribuite.
Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente curdo-iracheno, arrivò in città nel ’45, per sfuggire alla persecuzione del Regno d’Iraq: Qazi Muhammad lo inquadrò ai vertici della milizia tribale che, dai villaggi circostanti, proteggeva la città. Barzani è forse il miglior esempio della dicotomia tra tribalismo e moderno nazionalismo che si andò delineando a Mahabad: quando l’esercito iraniano riconquistò la città, gli altri capi tribali ne disconobbero l’autorità, vanificandone i tentativi di resistenza. Tornato in Iraq nel ’51, dopo un periodo d’esilio in Russia, il leader avrebbe portato con sé tanto la denominazione del PdK quanto quella tensione duale: nel 1975, in aspra opposizione alla sua gestione, da molti ritenuta eccessivamente feudalista, l’Unione patriottica del Kurdistan si scisse da una costola del PdK. Quindici anni più tardi, prima di dividere la regione in due distinte zone d’influenza, i due gruppi furono ai lati opposti di una guerra civile curda che, tra Erbil e Sulaymaniyah, avrebbe provocato oltre quattromila vittime.
Il Kurdistan dei diseredati
Ma è nella figura di Abdullah Öcalan che la frattura tra identità tribale e moderno nazionalismo si sarebbe compiuta. Öcalan è stato il primo leader irredentista curdo a non discendere da una influente tribù della regione. I suoi genitori erano contadini in un villaggio nel distretto di Mardin; e pur avendone inizialmente minato la credibilità, l’assenza di un lignaggio “nobile” sarebbe infine divenuta parte della sua mitologia. Öcalan designò il suo bacino di reclutamento tra operai e studenti universitari: si trattava, molto spesso, dei giovani che più di tutti avevano patito la marginalizzazione che, nella Turchia repubblicana, era riservata ai curdi. “A scuola ci educavano a vergognarci delle nostre origini” avrebbe detto decenni più tardi Kemal Aktaş, un ex parlamentare che ha trascorso metà della sua vita nel carcere militare di Diyarbakir per aver aderito al primissimo nucleo del Pkk. “E molti di noi si lasciavano condizionare perché, oltre che curdi, eravamo estremamente poveri. Ma gli uomini di Öcalan ci insegnarono ad andar fieri di ciò che eravamo”.
Nel ’78 Abdullah Öcalan fondò il Pkk, un’organizzazione d’ispirazione marxista che si riprometteva di espellere in armi ogni rappresentante dello stato ‘coloniale’ turco.
Nel novembre del ’78, in un casale nel remoto villaggio di Fis, Abdullah Öcalan e altri cinque studenti, da poco entrati in clandestinità, fondarono il Partito dei lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione d’ispirazione marxista che si riprometteva di espellere in armi ogni rappresentante dello stato “coloniale” turco. Significativamente, il primo bersaglio del gruppo fu scelto all’interno della società curda: Mehmet Celal Bucak era il capo feudale dell’omonima tribù, oltre a sedere in parlamento col Partito per la giustizia, in quegli anni al governo con gli ultranazionalisti turchi del Mhp. Secondo Aliza Marcus – che nel 2004 ha pubblicato una storia del Pkk, intervistandone gli ex miliziani – Bucak era noto per la crudeltà con cui trattava i contadini nelle sue terre: nel luglio del ’79, un commando del Pkk gli tese un’imboscata, ferendolo gravemente. L’azione ebbe grande eco nella società rurale curda: secondo Marcus, la crescente brutalità con cui Öcalan condusse la sua lotta finì per esercitare un’enorme attrattiva tra i lavoratori del sud-est, reduci da 40 anni d’emarginazione. Al culmine del suo potere, il Pkk contava 15mila guerriglieri tra le sue fila, oltre ad altri 50mila “riservisti” armati sparsi tra i centri urbani del sud-est, i cosiddetti milis.
Nel 2008, influenzato dagli scritti del politologo irlandese Benedict Anderson, Öcalan, che dal ’99 sconta l’ergastolo in isolamento, ha operato una revisione critica delle sue precedenti posizioni. Curiosamente, il “confederalismo democratico” da lui teorizzato ricorda vagamente il sistema ottomano dei millet, le comunità etniche e confessionali che garantivano quell’autonomia amministrativa di cui anche le tribù curde avevano goduto: a venir meno è, in questo senso, l’articolazione feudale del potere, detenuto da assemblee di cittadini più che da capi tribali.
La nascita, nel 2012, di un embrione di stato curdo nella regione siriana del Rojava – governato secondo i principi enunciati da Ocalan – ha causato forti tensioni tra i curdi siriani e quelli iracheni, questi ultimi guidati dal governo di Mas’ud Barzani. Tensioni che sono sfociate, nel 2015, nella chiusura del valico di Semelka, che divide le due entità territoriali. Come una moneta a due facce, oggi, quel confine demarca il limite tra due volti della stessa causa irredentista.