L a salute mentale è oggi uno degli argomenti più discussi, spiegati, promossi, venduti e raccontati dai mezzi di comunicazione. Esistono psicologhe influencer che forniscono consigli dai loro canali e pazienti che condividono le loro testimonianze attraverso video, libri e opere d’arte. Il boom della salute mentale è sicuramente una buona notizia se pensiamo al superamento dello stigma e alla possibilità di informare un pubblico ampio rispetto alla gestione di alcuni disturbi avvolti da pregiudizi. La sovraesposizione mediatica, però, porta con sé anche il rischio di “psicologizzare” la società, cioè spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali e di voler cambiare il mondo partendo dalla nostra psiche individuale.
Nel suo articolo La meditazione che fa bene al capitale, Ronald Purser spiega come la tecnica buddista della Mindfulness sia diventata la ricetta perfetta da vendere sul mercato perché ci rende pacifici, cioè “vuole convincerci che le cause della nostra sofferenza vanno ricercate soprattutto dentro noi stessi, e non nel contesto politico ed economico che determina il modo in cui viviamo”. In questo caso si tratta di una forma mercificata della mindfulness, che di per sé può invece essere un utile strumento per gestire lo stress, l’ansia e modificare alcuni automatismi mentali che ci fanno soffrire. Il problema si presenta quando viene ridotta a una ricetta per il successo e si trasforma nella panacea di tutti mali, o addirittura come una filosofia rivoluzionaria necessaria per cambiare il mondo.
Qualcosa di simile potrebbe succedere con le terapie psicologiche quando si paventa la possibilità di risolvere qualsiasi problema semplicemente iniziando una terapia. Quando problemi strutturali come la povertà, la violenza domestica, lo sfruttamento, la disoccupazione o la distruzione dell’ecosistema diventano questioni personali, allora il campo d’azione si riduce alla depressione, al self empowerment, allo stress da lavoro correlato, all’abuso di sostanze o all’ansia. Il contesto sociale rimane sospeso, lasciando spazio esclusivamente all’interpretazione e gestione dei sintomi della paziente. Il processo clinico della terapia è un’ottima risorsa che aiuta le persone a conoscersi e curarsi ma non può essere la bacchetta magica per risolvere i conflitti che riguardano la collettività. Per esempio, una campagna di sensibilizzazione sul burnout lavorativo lanciata su Instagram propone come unica soluzione rivolgersi a un servizio di psicoterapia online a prezzi calmierati. Organizzarsi per migliorare le condizioni di salubrità, i ritmi di lavoro, la cultura aziendale, ridurre i turni e la competizione sfrenata rimangono invece rimossi dai possibili scenari d’azione.
Se la radice di tutti i malesseri diventa un problema dell’individuo e della sua mente allora la scienza psichiatrica è in grado di fornire spiegazioni sempre più raffinate sul funzionamento dei processi chimici del nostro cervello. Nella serie televisiva italiana Tutto chiede salvezza vengono raccontati i sette giorni di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO), a cui viene sottoposto il giovane Daniele. Durante il primo giorno di internamento coatto il protagonista chiede spiegazioni alla dottoressa responsabile del reparto psichiatrico; questa gli risponde chiedendogli se sa cos’è la serotonina: “è un neurotrasmettitore” gli spiega, Daniele potrebbe avere un deficit e quindi “si tratta di ripristinare i valori. A volte le cose sono più semplici di quelle che sembrano”.
La sovraesposizione mediatica porta con sé il rischio di spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali.
Semplificare è rassicurante, e agire sulle correlazioni chimiche può, in alcuni casi specifici, aiutare ad alleviare sintomi gravi e offrire un po’ di serenità per iniziare un percorso di cura, ma ridurre la sofferenza psichica a uno scompenso di valori comporta una serie di rischi. Primo fra tutti, quello di trasformare le persone nelle loro diagnosi, o in deficit da aggiustare meccanicamente. Non stupisce, quindi, che una volta trasformati i pazienti in macchine da riparare, li si possa, come succede nella serie e nella realtà degli ospedali italiani, sedare, legare, far reprimere dalla polizia, togliere la libertà, incarcerare e lasciar morire. La normalità dell’assistenza psichiatrica in Italia, infatti, è la contenzione meccanica dei pazienti in reparti a porte chiuse: solo in 19 dei 318 Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura sul territorio italiano non si legano le persone.
Proprio l’Italia, paradossalmente, è conosciuta nel mondo per aver esportato un modello di cura esattamente contrario a questa tendenza, cioè contrario alla patologizzazione di chi soffre di disturbi mentali. Uno dei mantra del movimento che ha lottato per la chiusura dei manicomi nel nostro Paese negli anni Settanta era quello di “mettere tra parentesi la diagnosi” per far emergere la persona con la sua storia e il suo contesto socioeconomico. Si trattava, cioè, di fare il contrario del manicomio, nel quale ci si interfacciava con la malattia mentale e il soggetto e le sue condizioni di vita rimanevano nell’ombra . Nelle parole di Franca Ongaro Basaglia, una delle principali intellettuali che guidarono quel movimento, il modello medico egemonico crea “un’organizzazione dell’assistenza ospedaliera tutta incentrata sulla «riparazione», atta a confermare e a trattare la malattia come semplice fenomeno naturale, non potendo interferire nel processo storico-sociale che la produce”.
Alla medicina relegata “al suo compito di rimedio dei danni”, Ongaro oppone un approccio capace di andare alla radice dei problemi per prendersi cura delle sue cause. In questo senso, negli anni Settanta, i manicomi, da luoghi di tortura e annichilimento, si trasformarono nello scenario di innumerevoli assemblee ed eventi culturali dove pazienti, medici, operatrici, artisti e attiviste partecipavano alla vita politica dell’ospedale e riflettevano sulle cause del proprio malessere. Quando Daniele, il protagonista della serie, fugge sul tetto dell’ospedale con la sua amante, inizia a riflettere ad alta voce: “A me le malattie di tutti quelli che stanno qui dentro mi sembrano come un’unica malattia. Però non nostra. Del mondo.”
Curarsi durante la catastrofe
Nel libro Cattive acque. Contaminazione ambientale e comunità violate, Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini raccolgono una serie di studi incentrati su uno dei più gravi disastri ambientali della storia d’Europa: il rilascio di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nelle falde acquifere venete. Una catastrofe ecologica che interessa le province di Verona, Padova e Vicenza e una popolazione di quasi 800mila abitanti. Nel volume si presentano gli effetti psicologici dei disastri ambientali, tra cui lo stress acuto, l’ansia, la depressione, i pensieri intrusivi, l’insonnia, l’aumento del consumo di tabacco e alcool, ma anche problematiche sociali come l’aumento dei conflitti coniugali, la sfiducia verso le istituzioni e la corrosione del tessuto sociale. Tra le comunità danneggiate dai Pfas serpeggia un sentimento di impotenza, di rassegnazione e incertezza riguardo al futuro, al proprio lavoro, alle condizioni di salute dei propri cari e delle future generazioni.
Una volta trasformati i pazienti in macchine da riparare, li si può sedare, legare, far reprimere dalla polizia, incarcerare e lasciar morire.
Di fronte a questo scenario sconfortante le comunità possono però decidere di reagire partecipando nella gestione collettiva della catastrofe. In Veneto, le cosiddette “Mamme NoPfas” hanno deciso di attivarsi per sensibilizzare la popolazione, chiedere giustizia di fronte alle istituzioni e far sì che “la rabbia individuale diventi legittimazione di azioni collettive e [restituisca] una quota di potere”. Come viene ripetuto spesso nel testo, la cura al malessere generato dalla contaminazione va oltre il trattamento individuale dei sintomi psicologici: “nei casi di contaminazione ambientale il recupero psicologico coincide, sovente, con il recupero ambientale del sito inquinato”. Detto in altre parole, per curare i nostri disturbi mentali abbiamo bisogno di incontrarci, partecipare attivamente e curare l’ecosistema in cui viviamo per evitare che le industrie sversino i propri veleni nelle nostre fonti idriche.
Un’altra organizzazione di madri è diventata famosa in tutto il mondo per aver trasformato il loro trauma personale in una battaglia sociale: le Madres de Plaza de Mayo. Le mamme argentine dei quasi 30mila desaparecidos del regime militare degli anni Settanta si sono trasformate in un emblema internazionale dei diritti umani quando hanno sfidato il coprifuoco iniziando a incontrarsi ogni giovedì pomeriggio nella piazza pubblica di Buenos Aires. La dittatura dei militari e il successivo regime democratico hanno implementato una vera e propria guerra psicologica nei loro confronti chiamandole locas (pazze), responsabilizzandole di non aver educato a dovere i propri figli, invitandole al silenzio, ad accettare la morte dei cari scomparsi e a dimenticare il passato per favorire un clima di riconciliazione nazionale.
Questo tipo di politiche ha generato una serie di sintomi come la dissociazione di fronte al messaggio che nega la violenza, la autocolpevolizzazione e la fantasia di non aver fatto abbastanza per salvare il proprio figlio. Le psicoterapeute Diana Kordon e Lucilia Edelman hanno lavorato al fianco de Las Madres durante diversi anni per aiutarle a gestire il trauma. Il loro intervento ha preso la forma di gruppi liberi e autogestiti di riflessione sull’esperienza comune delle madri. Facilitando questi spazi di discussione hanno notato che il riconoscimento di una situazione comune ha permesso l’identificazione e l’empatia reciproca per evitare una chiusura narcisistica in sé stesse e ha favorito la catarsi del trauma attraverso la drammatizzazione dei conflitti con le istituzioni. Organizzarsi in gruppi per cercare i propri figli ha significato partecipare attivamente nella tragedia, mantenendo il rispetto verso di sé e tutelando la propria autostima, riducendo l’angoscia e il sentimento di colpa. Focalizzarsi sulla storicizzazione della violenza e non unicamente sulle storie personali genera una comprensione intellettuale della situazione che funziona come una difesa dell’Io, evita cioè che una catastrofe sociale diventi una catastrofe psichica. Un’affermazione comune tra le madri argentine è: “sono passata dal preoccuparmi per mio figlio a preoccuparmi per i figli di tutte”.
La partecipazione attiva ha permesso non solo di limitare le conseguenze psicologiche individuali ma ha fatto sì che Las Madres dessero vita, negli anni, a un’università popolare, una casa editrice, una rivista, un caffè letterario e molteplici altri progetti. Anche se come dice una delle fondatrici, Hebe de Bonafini, “la maggior parte delle madri non siano mai andate in terapia”, il loro attivismo le ha portate e impegnarsi in prima persona per la chiusura dei manicomi psichiatrici e organizzare il Congresso Internazionale per la Salute Mentale e Diritti Umani in cui si afferma che “la salute mentale nel quadro della lotta per la difesa dei diritti umani ci invita a recuperare le nuove soggettività del nostro tempo puntando sulle pratiche di gruppo, istituzionali e collettive che riscattano l’essere storico sociale”.
Focalizzarsi sulla storicizzazione della violenza genera una comprensione della situazione che funziona come una difesa dell’Io, evita cioè che una catastrofe sociale diventi una catastrofe psichica.
È interessante notare che le dottoresse Kordon e Edelman hanno riscontrato dei tratti simili nei gruppi spontanei che sono sorti durante la crisi finanziaria estrema del 2001 quando in Argentina i conti correnti vennero congelati, i bancomat limitati, l’inflazione schizzò alle stelle e i risparmi di una vita di molte persone persero improvvisamente di valore. Le assemblee che sorsero nei quartieri, i gruppi organizzati di disoccupati e le fabbriche autogestite dalle lavoratrici permisero di sostenere le persone durante la crisi svolgendo una “funzione proteica”, cioè fornendo un grembo per lo sviluppo di nuovi aspetti della psiche che ancora non si erano costituiti. Il gruppo offre quindi una protezione durante le crisi limitando l’angoscia, il panico, il sentimento di impotenza e permettendo di mantenere i vincoli sociali che sostengono la nostra salute mentale.
Ripartire dal mondo
Nella serie Maid, ispirata alle memorie di Stephanie Land, Donna delle pulizie: Lavoro duro, paga bassa, e la voglia di sopravvivere di una madre, Alex, la protagonista, fugge nel cuore della notte con la sua neonata per sottrarsi a una relazione violenta con il proprio partner. Durante i 10 episodi in cui si sviluppa la trama, Alex si trova a fare i conti con condizioni di lavoro umilianti, con la degradazione dei servizi sociali statunitensi, una famiglia disfunzionale e i propri traumi infantili che rischiano di farla ritornare tra le braccia del suo ex. Un occhio “puramente” clinico e decontestualizzato potrebbe interpretare le sue continue ricadute come il risultato dei suoi modelli di attaccamento infantili, come la ripetizione di un trauma non elaborato, oppure la mancanza di autostima o del senso di autoefficacia così come un sintomo di un disturbo da stress post-traumatico.
L’originalità della serie, però, sta nell’introdurre un elemento contestuale fondamentale. In sovraimpressione, infatti, durante gran parte delle scene appare il bilancio dell’economia di Alex. Man mano che la cifra si avvicina agli zero dollari il suo campo d’azione si limita sempre di più e, per dare da mangiare a sua figlia, diventa sempre più verosimile chiedere aiuto a un padre abusante, alla madre manipolatrice o all’ex compagno violento. Come scriveva Freud già nel 1921, nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, quando si studia attentamente una situazione concreta i limiti tra i processi intrapsichici e le dinamiche sociali si sfumano: “Nella vita dell’individuo l’altro rappresenta sempre un modello, un oggetto, un amico od un nemico, e sin dall’inizio la psicologia individuale è anche, sotto un certo aspetto, una psicologia sociale”.
Nonostante da più di un secolo la tradizione psicoanalitica abbia messo la questione sociale e collettiva al centro del dibattito, il discorso istituzionale sulla salute mentale continua a ricostruire una fantasia in cui esistono solo sintomi individuali. La crisi economica, i disastri ambientali, la violenza politica o quella domestica si trasformano in fantasmi che rimangono fuori dal setting terapeutico, del reparto psichiatrico e anche dal centro di meditazione. Inoltre, la diagnosi, che dovrebbe essere uno strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale dello specialista, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.
La diagnosi, da strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.
Nell’ottobre del 2022, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) si è riunita a Roma per presentare il report intitolato Trasformare la salute mentale per tutti. Nel testo, i ricercatori dell’OMS scrivono che: “una cattiva salute mentale interferisce con la capacità di lavorare, studiare e apprendere nuove competenze. Essa ostacola i risultati scolastici dei bambini e può avere un impatto sulle prospettive occupazionali future”. Il danno economico provocato dalla depressione e l’ansia viene calcolato nell’ordine di mille miliardi di dollari annui a causa dell’assenteismo lavorativo, il presenzialismo e il turnover del personale.
Se, come scrive l’Assemblea Antipsichiatrica in Il capitalismo nuoce gravemente alla salute, ci si concentra sui sintomi perché “occuparsi delle cause non genera profitto” allora la salute mentale si riduce a una tecnica per renderci più adatti, competitive e funzionali a un mondo ingiusto, inquinato e violento. Il rischio è che le politiche di salute mentale promosse dalle istituzioni mediche abbiamo un obiettivo pacificatorio più che curativo. Come recitava uno striscione esposto al presidio di protesta durante la riunione dell’OMS a Roma: “non vogliono che stiamo bene, vogliono che stiamo buonə”. Al nuovo mantra della salute mentale individualista vale la pena rispondere recuperando le pratiche che hanno portato l’Italia al centro del dibattito internazionale e tornare a trasformare la nostra salute mentale trasformando il mondo.