U n uomo esce sorridendo da un balcone con le dita a V, seguito da altri che lo imitano. Quell’uomo è Luigi di Maio, il balcone è di Palazzo Chigi. Siamo al 27 settembre 2018 e l’allora ministro del Lavoro sta festeggiando, a detta sua, “l’abolizione della povertà”. Era l’epoca del Reddito di Cittadinanza, la pandemia sembrava lontana. Un’altra epoca. Oggi qualcuno la rimpiange addirittura, altri ne fanno dei bilanci cinici.
Oggi il governo è sovranista, non più populista, e fra i due c’è stato uno spietato governo neoliberale a guida Draghi. Sul fronte povertà, come e più che su altri terreni, l’opposizione tra questi “poli” si rivela essere una tensione interna a uno stesso campo: il neoliberalismo. Eravamo nel 2021, e ne parlavamo a partire dalla lettura di Dominer di Christian Laval e Pierre Dardot (che nel frattempo è stato tradotto).
Non può stupire più di tanto allora leggere queste parole e non capire bene se a parlare sia un esponente del Partito Democratico, di Fratelli d’Italia o un segretario della CGIL: “Veniamo da un mondo nel quale spesso ci si è detto che la povertà si poteva abolire con un decreto, che il lavoro si poteva creare per decreto. Oggi ci si dice che per legge si possono garantire salari adeguati. […] La ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori, quello che compete allo Stato è immaginare regole giuste e redistribuire la parte di ricchezza che gli compete”. È quanto ha detto nella scorsa primavera l’attuale presidentessa del Consiglio. A Rimini, al congresso della CGIL.
Il famigerato e al tempo stesso sconosciuto neoliberalismo funziona anche così: istituisce polarizzazioni fantomatiche, oppone come irriducibili delle tensioni che lo percorrono senza metterlo in discussione. Il dibattito pubblico, l’agone politico sono simulati. Non importano le grida furibonde che si levano da un lato contro l’altro – i principi neoliberali sono condivisi da tutti. L’essere di parte non è più parteggiare. Sostituita al conflitto di classe, l’antinomia diritti civili/sicurezza si rivela per quella che è: un’operazione di marketing per meglio posizionarsi nel mercato elettorale. Ce lo ha mostrato più che bene la traumatica continuità tra i governi gialloverde, giallorosso, Draghi e Meloni. La guerra ai diritti civili non ha colore, così come quella ai diritti sociali.
Il neoliberalismo oppone delle tensioni che lo percorrono senza metterlo in discussione. La polarizzazione attorno alla povertà segue lo stesso copione.
La polarizzazione attorno alla povertà segue lo stesso copione. Nel 2018 la sinistra, che un ulteriore intervento di Paolo Virno su Il Manifesto ci invita ad abbandonare, non si faceva tanti problemi a denunciare un giorno la povertà e l’altro a insultare Di Maio chiamandolo “bibitaro”. Oggi nulla è cambiato; lo mostra la morbosità nello scavare nel passato famigliare di Meloni, la premier che “grida come una pescivendola”. Da destra a sinistra, una levata di scudi trasversale si è levata negli ultimi quarant’anni in quella che si può e si deve definire come una guerra ai poveri, piuttosto che una guerra alla povertà.
La povertà è un dato strutturale del nostro mondo contemporaneo. La storia del capitalismo mostra come essa sia una condizione non tanto paradossale del suo sviluppo. Quest’ultimo non è più messo in discussione. Ragionare seriamente sulla povertà significa al tempo stesso fare una critica del sistema che la pone come condizione necessaria per la sua stessa esistenza. Meglio quindi fare la guerra ai poveri che ragionare della loro liberazione. È quanto emerge da L’odio dei poveri di Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista de Il Manifesto, pubblicato recentemente da Ponte alle Grazie
L’odio dei poveri. Un’inchiesta
Ridotto a soggetto statistico, depoliticizzato, perfino “abolito”, il povero è diventato una sorta di fantasma che si aggira nelle pieghe della società capitalistica. Esso è valutato, controllato, punito, vessato, umiliato. È fuori tempo massimo. Gli si è detto che la sua condizione è stata abolita e allora pure lui deve abolirsi. Non arriva a fine mese? Colpa sua. Bisogna rimettere in riga questa massa di “fannulloni”, “scansafatiche”, “immeritevoli”. Se diamo loro un reddito di cittadinanza, bisognerà pur controllare che non si dedichino a fare i “furbetti”. Ma non si può certo passare una vita a essere “percettori”. Mandiamoli a lavorare. Anzi no, troppo dispendio: che si trovino un lavoro. D’altronde lo ha detto pure il democratico Emmanuel Macron, che basta “attraversare la strada” per trovarne uno, di lavoro. Poco importa che sia sfruttato, sottopagato, al limite dello schiavismo. I poveri rimangono tali lavorando? Anzi, ci sono lavoratori che pur lavorando diventano poveri? Non si impegnano abbastanza, evidentemente.
È la grammatica dell’odio dei poveri, affetto triste che accompagna la guerra generalizzata e per nulla silenziosa di cui sono bersaglio fasce consistenti e in evoluzione della popolazione mondiale. I poveri sono sempre gli altri. Chi se ne occupa lo fa per convinzioni religiose, umanitarie o per mestiere burocratico. Continuasse a farlo, ma in silenzio. Senza mai mettere in discussione il sistema. In un modo o nell’altro, ai poveri si dice che bisogna pur trovare qualcosa da fare. Come se fossero alieni, incapaci di fare alcunché, contenti di mangiare pastasciutta al sole
scrive Ciccarelli.
L’odio dei poveri è un problema politico e sociale che attraversa la società, la politica e le scelte economiche di paesi e sistemi nazionali e internazionali, definendo un pezzo essenziale della governamentalità contemporanea. Esso ha un nome, Workfare. Si è sviluppato negli ultimi cinquant’anni sulla scorta del trionfo del neoliberalismo e la crisi delle sinistre di partito e di sindacato. È in questo senso che se ne sono occupati in Francia diversi sociologi, in un libro-inchiesta dal titolo Chômeurs, vos papiers ! Contrôler les chômeurs pour réduire le chômage ?, pubblicato da Raisons d’Agir. Definito da Roberto Ciccarelli come uno “stato sociale conservatore orientato al lavoro”, il Workfare rappresenta la messa in pratica di un’istanza politica trasversale: la conservazione di uno Stato sociale sempre più ingiusto ed escludente. A che serve? A garantire sempre meno prestazioni sociali a un numero vieppiù inferiore di persone, anche fra chi ha la cittadinanza.
Il povero è diventato una sorta di fantasma che si aggira nelle pieghe della società capitalistica.
Il Workfare emerge come il risultato della contro-offensiva neoliberale, che ha investito la forma dello Stato sociale (Welfare) e determinato l’evoluzione delle politiche statali, sociali ed economiche di molti paesi. Quest’opera di distruzione ha lasciato dietro di sé la nostalgia per un’età dell’oro che mai è stata tale. La ricerca di Ciccarelli, come le altre con cui costituisce una vera e propria rete internazionale, ci restituiscono un’immagine complessa del Workfare. Si tratta di una cultura, un determinato assetto delle istituzioni, una policy specifica, un modo determinato di produrre le soggettività e infine una fase della storia dello Stato sociale.
Il povero è sempre stato il terzo escluso: parte del Terzo stato prima della Rivoluzione francese, spesso estromesso dalla definizione della classe operaia. Se la sua definizione è difficile, la sua oggettivazione è pressoché impossibile. Ce lo dimostrano le diverse definizioni, ad oggi moltiplicate e contraddittorie fra di loro. Disoccupato, “percettore” del reddito di cittadinanza, ma anche lavoratore “povero”, quindi sfruttato e sottopagato. Non solo, ma una volta che si sono individuati dei criteri per definire la “povertà”, se ne introducono altri per qualificarla moralmente. Si distinguono quindi i “buoni” dai “cattivi”, in funzione del loro impegno per trovare un’occupazione e ritornare sul mercato del lavoro. Inoltre, in funzione delle allocazioni da ricevere (reddito di cittadinanza, assegno di disoccupazione, ecc.), si distinguono tra “relativi” e “assoluti”.
Ciò che è talmente implicito da essere negato è che definire chi è il povero è una questione politica. Come mostra Chômeurs, vos papiers !, ad ogni ridefinizione del povero e della povertà corrispondono delle trasformazioni interne allo Stato sociale. Per esempio, nel caso francese, il disoccupato è definito come chi è in ricerca “attiva” del lavoro a partire dal 1979. Prima era chi aveva perso un lavoro o non ne aveva mai avuto uno. Questa ridefinizione rispondeva a una trasformazione del concetto stesso di disoccupazione, fino ad allora ritenuta un problema sociale e collettivo, ma da allora sempre più come una responsabilità individuale. Dal linguaggio apertamente politico si è passati, oltralpe, a un linguaggio vieppiù morale (responsabilità) e individualizzato (chi ricerca è il disoccupato), alimentando così l’odio dei poveri. L’individualizzazione del povero è una personalizzazione di un problema sociale che risponde a un imperativo politico e morale: trasformare le disuguaglianze in delitti morali i cui colpevoli sono gli stessi soggetti che patiscono gli effetti del capitalismo.
Sempre restando al caso francese, l’odio dei poveri è evoluto parallelamente al rafforzamento delle politiche neoliberali e offre un buon terreno di comparazione con la situazione italiana. La crisi della fine degli anni Ottanta e di una parte consistente dei Novanta ha avuto come effetto un aumento considerevole di iscrizioni alle agenzie governative e agli istituti decentralizzati dedicati alla povertà: dagli assegni di disoccupazione alle misure di agevolazione sugli affitti. La risposta rigorista del governo francese introdusse un meccanismo che oggi conosciamo molto bene anche in Italia: il principio regressivo degli assegni. Più un diritto sociale dura, meno esso sarà consistente.
La responsabilizzazione del povero risponde all’imperativo di trasformare le disuguaglianze in delitti morali i cui colpevoli sono gli stessi soggetti che patiscono gli effetti del capitalismo.
Il povero è una spesa sociale, rifiuta di trasformarsi in capitale umano e di “evolversi” dal lavoro dipendente all’auto-imprenditorialità. Senza qualità e senza meriti, la sua condizione è l’indice della sua colpevolezza. Oggi è la forza lavoro impoverita che deve “occuparsi” e contribuire alla creazione di una società della “piena occupazione precaria”, come la definisce Ciccarelli. Questa idea contraddistingue la trasformazione della società e del mercato del lavoro avvenute contemporaneamente a quella della forma-Stato in termini neoliberali ed è considerata da Ciccarelli come una “rivoluzione passiva”. Vale a dire che lo Stato-imprenditore è l’agente del processo politico globale che devia sistematicamente la richiesta di una giustizia sociale verso una politica che provvede ad amplificare le diseguaglianze. È in questo senso che il Workfare non è solo una policy specializzata nella gestione del mercato del lavoro, ma una vera e propria cultura e mentalità di governo.
Il Reddito di Cittadinanza. Guerra ai poveri
Lungi dall’essere una reazione a questo processo, il reddito di cittadinanza ne è stato un capitolo. Il caso studio italiano è interessante a livello internazionale. Si pensi alla paura, e talvolta al terrore, “di diventare come l’Italia” che circolava tra i milioni di persone scese in piazza nello scorso anno in Francia. Il reddito di cittadinanza si è inserito nel quadro di un crescente nazionalismo e autoritarismo della classe dirigente italiana ed è stato oggetto di un massiccio uso propagandistico dei media, che hanno costituito in Italia la figura del povero in quanto “percettore” delle politiche attive del lavoro. Questo discorso ha unito, da un lato, il populismo penale come mezzo di consenso (altolà furbetti!) e, dall’altro, legittimato il lavoro servile e in qualche caso “forzato” come condizione di accesso alla cittadinanza sociale. Le misure come il reddito di cittadinanza sono attraversate da una vera e propria tecnica di controllo accompagnata dal discorso dell’espiazione.
Il reddito di cittadinanza si inserisce infatti nella rubrica delle cosiddette “politiche attive del lavoro”. Anche se il loro nome sembra indicare qualcosa di positivo, nell’attuale mentalità neoliberale, tali politiche sono una tecnica importante e strategica nell’arte di governare i poveri. Lo Stato non è più chiamato a sopperire alle disuguaglianze dei modelli socioeconomici del capitalismo. Esso si trasforma in un agente la cui vocazione principale è quella di “attivare” dei soggetti che se ne stanno comodi nella loro condizione. Il Workfare come cultura dell’arte di governare i poveri si articola infatti attorno a due perni: la teoria del job search (se cerchi lavoro, ti diamo la paghetta) e la Efficient Wage Theory (i salari troppo alti dei lavoratori non permettono ai padroni di fare nuove assunzioni). Articolate insieme, queste due teorie indicano solo una cosa – la guerra ai poveri, lavoratori e/o disoccupati.
Il linguaggio neoliberale allestisce così una vera e propria “truffa semantica”, che riguarda tanto il reddito di cittadinanza quanto il meloniano assegno di inclusione. L’uso “opportunistico, e cinico, delle parole è un aspetto importante della rivoluzione passiva neoliberale di cui il workfare è una delle espressioni”, scrive Ciccarelli, “Serve a incartare provvedimenti ingiusti nella pellicola della giustizia sociale e a lasciare senza parole gli avversari incapaci di argomentare il proprio punto di vista”. Da rivendicazione politica e anticapitalista che risponde all’idea di un “reddito di base”, il reddito di cittadinanza è stato rovesciato nel suo opposto di “politica attiva del lavoro” ed è diventato così sinonimo dell’integrazione dei poveri in un nuovo modo di concepire il governo della popolazione. L’assegno di inclusione, in questo registro orwelliano della parola politica, indica una vasta operazione di esclusione di chi percepiva precedentemente il reddito di cittadinanza.
Il reddito di cittadinanza si è inserito nel quadro di un crescente nazionalismo e autoritarismo della classe dirigente italiana ed è stato oggetto di un massiccio uso propagandistico dei media.
Si tratta di una vera guerra in seno alla società che ridefinisce la cittadinanza sociale nei termini di una “riabilitazione” del povero. Un’ortopedia della marginalità. Il povero si inserisce nel sistema di assegni, allocazioni e uffici come partecipante ad una “caccia al tesoro” del lavoro costellata da umiliazioni e repressione, in cui il lavoro è sempre più sottopagato e troppo spesso gratuito. Ciccarelli parla a questo proposito di una forma secolarizzata di espiazione di peccati sociali. L’auto-flagellazione è la risposta alla mutazione dei rapporti tra Stato e società, in cui il povero è ricattato nelle forme di contrattazione promosse dalle politiche attive del lavoro. Il ricatto è il frutto dell’interiorizzazione di un’idea delle relazioni sociali in cui si mescolano odio di classe, razzismo e violenza di genere. Per Roberto Ciccarelli, il Workfare è basato sulla coppia indissociabile di “polizia ed emancipazione”, in cui l’autonomia eterodiretta si mostra come un’“emancipazione” coatta. Il povero è tale perché incapace di emanciparsi dalla sua condizione, di cui è l’unico colpevole. Incapace di diventare autonomo, deve “essere emancipato”. Il governo neoliberale della povertà arriva così a contemplare l’esistenza di sussidi sociali, come quello di disoccupazione, e al tempo stesso non esita a insultare continuamente i poveri.
Una vita liberata
La guerra ai poveri ha quindi a disposizione un intero arsenale. Il Workfare, inteso come strategia di guerra, consiste nella neutralizzazione di qualunque opposizione a colpi di truffe semantiche e di umiliazione dei poveri. Ma l’odio dei poveri è reversibile. I secondi possono essere oggetto di questo sentimento triste, ma anche il loro soggetto attivo. Non è lo stesso odio. È un odio che si sviluppa nel grido della liberazione, e non nella guerra cinica del potere. Si tratta, ci ricorda Ciccarelli, della “non scontata volontà di dire ‘No’”, di rivendicare l’urgenza e il desiderio di “avere un altro tempo, un altro mondo”.
Lungi dall’essere una metafora, una figura chimerica o ancora una forma di vita religiosa, la povertà è una condizione materiale odiosa. Il senso di questo odio è il sintomo di una nuova lotta di classe, su cui Ciccarelli medita almeno da Forza lavoro (2018) e poi ancora più profondamente in Una vita liberata (2022), su cui l’abbiamo intervistato sempre qui su Il Tascabile. Se il neoliberalismo odia la povertà perché odia i poveri, questi ultimi la rifiutano perché desiderano un’altra vita. Una vita liberata dalle umiliazioni, dal controllo, dalla repressione. Amare sé stessi, desiderare nuovi tipi di relazione fuori e contro questo “mondo” implica necessariamente il rifiuto di essere ridotti a “poveri”.
Vivere e pensare come porci, questo era il futuro per la cittadinanza sociale e politica che Gilles Châtelet denunciava al tornante del secolo. Se quasi tutto era giusto, una cosa era sbagliata. Il Workfare ci impone di vivere e pensare come degli asini, sarebbe già qualcosa avere la pancia piena come i porci. L’asino, è risaputo, è distinguibile per il suo verso: I-A. Ia, Ja – come se non potesse dire altro che “SI”. Sì al lavoro sfruttato, al lavoro sottopagato, alle convocazioni, al controllo, alle umiliazioni periodiche già preannunciate dal Patto di attivazione digitale dell’assegno di inclusione del governo Meloni.
Se il neoliberalismo odia la povertà perché odia i poveri, questi ultimi la rifiutano perché desiderano un’altra vita.
L’odio che è dei poveri, da non confondere con quello del Workfare, dice “NO”. È potente dire NO. Ha qualcosa di libero, di leggero. Si può usarlo anche per attaccare, per sfuggire a una morsa, a un’insidia, a una trappola. È un grido lanciato contro la forma peggiore di morte, la morte sociale che è anche condanna all’invisibilità. Un NO contro “il recesso, il ritiro, la rassegnazione, l’indifferenza politica (…) o la fuga nell’immaginario millenarista”, che già Pierre Bourdieu vedeva nel 1981 nell’inchiesta sulla tragica situazione dei Disoccupati di Marienthal. Rompere con questa morte alla quale sono condannate milioni di persone nel nostro Paese, ecco il NO e l’odio che sono dei poveri.
Un NO e un odio che sono quindi il sintomo di un SÌ pienamente umano e non più ruminante, che sono un appello a “praticare un progetto di vita, non una vita a progetto” su cui si chiude l’importante inchiesta di Ciccarelli. L’autore ci invita così a pensare il problema della povertà non nei termini di una gestione amministrativa e di governo, ma come liberazione collettiva “in quanto forza lavoro assolutamente misera, possibilmente ricca”. Una liberazione che diviene quindi progetto politico e che si sdoppia in un SÌ e un NO che, si spera, saranno al centro di una politica a venire: liberazione della forza lavoro e liberazione dal lavoro.