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omandare a qualcuno “Dove vivi?”, spesso, vuol dire collocare quella persona nel luogo dove si svolge la sua attività quotidiana, il luogo che dà forma al suo mondo. In molte lingue, non a caso, abitare e vivere sono sinonimi. Come esseri umani abitiamo costruendoci quel luogo che chiamiamo casa. Attenzione, quindi: la casa non è solo un oggetto, un insieme di colonne, assi, travi, argilla, cemento, tela e tanti altri diversi e possibili materiali. La casa è anzitutto luogo antropologico, un luogo abitato dall’uomo che non è solo uno stare, ma anzitutto un esserci.
Una palafitta sul lago Inle in Birmania si regge su travi di bamboo che vanno controllate e cambiate. Le travi del pavimento di una casa nelle montagne del Laos invecchiano, respirano e vanno costantemente revisionate. Una tenda mongola va rammendata giorno per giorno, e può essere montata e smontata. Sul lago Titicaca gli Uros hanno costruito un arcipelago con canne di totora ancorandolo al fondo del lago. Vivono sulle delle isole “fluttuanti” che salgono e scendono seguendo il livello del lago, e le case che vengono auto-costruite si rinnovano frequentemente, per mantenere un equilibrio con l’ambiente circostante.
Non si tratta solo di storie dell’abitare “degli altri”, perché una volta anche in Europa la costruzione della propria casa procedeva di generazione in generazione, e i passaggi fondamentali erano contraddistinti da importanti rituali. Nell’ultimo secolo, però, la casa è diventata un vero e proprio prodotto che molto spesso viene solo usato, attraversato, e che inizia a deperire proprio quando è pronto per essere abitato. Un privilegio per chi ha il denaro per affittarla o comprarla, la casa non è un diritto per tutti.
La perdita di contatto tra abitare e costruire ha reso difficile quel processo culturale che consisteva nel rapporto reciproco tra identità e luoghi. I luoghi, scrive Franco La Cecla in Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, sono diventati “alienati” proprio come i loro abitanti. Ed è nato il senso desolato delle periferie, l’omologazione delle prospettive, il somigliarsi di tutti i quartieri suburbani del mondo e con essi si è affermato il senso di anonimia.
Nell’ultimo secolo la casa è diventata un vero e proprio prodotto che molto spesso viene solo usato, attraversato, e che inizia a deperire proprio quando è pronto per essere abitato.
Ma anche in Occidente si muovono pratiche di resistenza e resilienza nel campo dell’abitare soprattutto negli spazi marginali. Quando non si hanno le possibilità economiche per affrontare un mutuo o un affitto mensile, l’occupazione diventa una pratica di resistenza contro l’ingiustizia di una società che non garantisce un tetto per tutti: c’è una maniera di resistere alla mancanza di reddito che si manifesta proprio nell’abitare i luoghi in modo differente. Come ci ricorda la ricercatrice Kesia Reeve, in un contesto caratterizzato da opportunità abitative limitate e frustrazione, lo squatting rimuove gli ostacoli presenti nei tradizionali canali del mercato degli alloggi e i conseguenti rapporti di potere dovuti al possesso di questo bene, bypassando le normali “regole” di fornitura del welfare. Il semplice abitare, se non è contrazione della vita quotidiana nello spazio privato, nella cellula residenziale, è di per sé una forma di resistenza politica.
Questo è esattamente quello che la maggior parte degli occupanti che ho incontrato durante le mie ricerche etnografiche degli ultimi anni ha cercato di fare; costruire un abitare altrimenti, un gestire collettivamente il problema della casa, un risignificare il concetto stesso di abitare in Occidente. Gli occupanti, in molte esperienze di occupazione, mettono in atto delle reali pratiche di resistenza, realizzando una capacità dei diversi soggetti occupanti non solo di mettersi contro, ma di costituire società, creando spazi liberati all’interno di una società che liberata non è. Donne e uomini senza possibilità economiche riprendono ciò che è loro negato, manifestano nella produzione della vita quotidiana una grande capacità di costruire legami sociali con fini comuni, costruiscono quello che gli antropologi chiamano cultura e che sarebbe il mondo, costruito e non, delle relazioni tra persone e luoghi, la rete di reciprocità che tiene in piedi e spinge una società.
La casa non è uno spazio urbano isolato, ma piuttosto una rete di relazioni sociali, familiari, politiche e di quartiere. In queste trame sociali anche le strade fanno parte della casa, perché sono spazi comuni, dove si condivide la quotidianità, si attuano rituali di riappropriazione. La casa, soprattutto se occupata, non è solo un rifugio, è le relazioni che si costruiscono per produrne la sua legittimità. Non si superano soltanto le barriere dell’esclusione sociale e di classe prodotte dalle politiche di speculazione edilizia ma si costruiscono progetti politici trasversali che dialogano con i margini delle metropoli. Gli occupanti creano delle derive che si fanno spazio, producono un’autonomia politica all’interno della città, capace di dare risposte concrete per la vita quotidiana della comunità che costituiscono. Una comunità sempre più meticcia, fatta di famiglie italiane che collaborano con famiglie arabe o latine, quartieri poveri e periferie sempre più abitate da migranti che non accettano di essere esclusi e costruiscono insieme agli italiani nuovi percorsi di lotta di liberazione quotidiana. Le occupazioni delle nostre città piene di edifici vuoti e inutilizzati sono una risposta concreta per rivitalizzare le metropoli, per riscoprirsi cittadini e produrre usi comuni di spazi lasciati al degrado dalla speculazione immobiliare; possibilità per creare un forte valore pubblico della città.
Il semplice abitare, se non è contrazione della vita quotidiana nello spazio privato, nella cellula residenziale, è di per sé una forma di resistenza politica.
Proprio in questi ultimi mesi nel nostro paese sono sotto attacco molti di questi comitati di lotta per la casa (gli ultimi arresti sono stati fatti a Milano ai militanti del comitato di lotta per la casa del quartiere Giambellino e a Cosenza al collettivo Prendo casa), accusati di creare associazioni sovversive perché affrontano l’emergenza abitativa, il degrado e l’incuria dei quartieri popolari, perché si oppongono agli sgomberi che lasciano case vuote e famiglie per la strada, perché organizzano manifestazioni, presidi, picchetti antisfratto e aiutano persone in difficoltà. Perché si oppongono al modo uniformato e uniformante di vivere lo spazio abitativo.
La cultura dominante prescrive determinate forme architettoniche: la casa o l’appartamento, per la singola famiglia; l’ufficio alveare (sistemazione di lusso per le api regine, celle standard per le api operaie); l’enorme complesso industriale (entrate, mense e gabinetti differenziati per ogni diverso livello di gerarchia); l’immensa istituzione educativa; l’agro-industria su vasta scala e così via. La controcultura postula dei tipi edilizi del tutto diversi: la casa multi-familiare, o comune; la re-integrazione di agricoltura e industria, e di lavoro intellettuale e lavoro manuale; o la libera scuola, che può essere totalmente de-istituzionalizzata, usando l’intero ambiente come risorsa educativa. Non solo la cultura alternativa può implicare modi di costruire diversi, ma li può combinare in forme del tutto diverse: la scuola che è anche un’officina, l’orto che è anche una scuola di musica, come sottolinea Colin Ward nei suoi scritti sull’architettura del dissenso. Soluzioni interessanti sono sicuramente quelle basate sull’auto-costruzione di riciclo, ancora meglio se eco-compatibile, possibilità importanti per il nostro futuro e quello del pianeta.
Perché l’abitare, scrive Francesco Remotti, è un faticoso compromesso tra l’esigenza di intimità e quella di aprirsi al mondo fuori; un punto di precario equilibrio tra la chiusura e l’apertura, tra il raccoglimento nell’intimità di un “noi” o di un “io” e l’aprirsi alla relazione sociale. Per il filosofo Emmanuel Lévinas, come scrive in Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, la casa non rappresenta il fine dell’attività umana, ma piuttosto la sua condizione e, in questo senso, l’inizio. Il raccoglimento necessario perché la natura possa essere rappresentata e lavorata, perché essa si delinei come mondo, si attua nella casa, una casa nella quale l’essere umano può, in ogni istante, ritirarsi. Contemporaneamente fuori e dentro, si pone all’esterno partendo da un’intimità. L’abitare è la dimensione diacronica della presenza, una presenza allungata nel tempo che si guarda indietro per trovare i propri punti di riferimento non solo nello spazio circostante, ma nello spazio vissuto.
La resistenza di chi vuole vivere quello spazio collettivamente ci dice tantissimo sulla contemporaneità perché, scrive Luca Molinari in Le case che siamo, “La casa è oggi uno dei luoghi universali da cui ripensare noi stessi e il mondo che abitiamo: è diventata di fatto, un reale laboratorio di comprensione e trasformazione del mondo”.