N el 1982, l’allora giovane studioso Gong Zhebing intraprese un viaggio verso il sud-est della Cina per condurre delle ricerche sui gruppi etnici della zona. Un funzionario del Partito Comunista gli raccontò che sua zia, originaria della contea di Jiangyong (Hunan), comunicava con le amiche in nüshu, una scrittura inventata dalle donne per sopperire al mancato accesso all’istruzione e alle difficoltà della vita. All’arrivo, Gong si accorse che era caduta quasi in disuso: molte giovani non ne avevano più bisogno, potendo studiare il cinese standard, e la Rivoluzione Culturale (1966-1976) di Mao Zedong la mise al bando in quanto “lingua delle streghe” ed espressione del passato feudale. L’incomprensibilità faceva addirittura pensare che funzionasse come codice segreto per lo spionaggio internazionale.
Gong è stato il primo di vari linguisti, antropologi e accademici che hanno contribuito a salvare dall’oblio questo “fenomeno culturale”, come alcuni preferiscono chiamarlo. “Il nüshu è sicuramente un sistema di scrittura perché i suoi caratteri sono stati creati ex novo, ma non viene considerata una lingua al cento per cento in quanto l’aspetto fonetico viene dai dialetti locali. Fenomeno culturale è la definizione più appropriata: limitandosi alla mera scrittura si perderebbe tutto un mondo di tradizioni, legami e costumi, che è parte intrinseca della cultura delle donne di questa zona della Cina”, dice Giulia Falcini, che ha recentemente pubblicato un libro e curato una mostra a Venezia dopo alcuni viaggi di studio nello Hunan.
Le poche testimonianze scritte rimaste restituiscono un’immagine profonda e intima della condizione della donna nella società androcentrica del XVIII e XIX secolo. Da piccole erano costrette a sottoporsi alla pratica della fasciatura dei piedi, ridotti a una lunghezza tra i sette e i dodici centimetri, per ottenere l’andatura oscillante che si conformava ai canoni estetici dell’epoca. Nelle varie tappe della loro vita dovevano obbedire al padre come figlie, al marito come mogli e ai figli come madri (“le tre obbedienze”), ma i precetti confuciani le obbligavano anche a essere “caste e arrendevoli, pacate e virtuose negli atti, tranquille e piacevoli nelle parole, fini e misurate nei movimenti, perfette nei lavori manuali e nel ricamo” (“le quattro virtù”).
Il nüshu, che significa letteralmente “scrittura delle donne”, svolgeva così la funzione di valvola di sfogo e facilitava la creazione di una “comunità dei sentimenti”, come la definisce Liu Fei-Wen, antropologa dell’Academia Sinica di Taipei. Nella scrittura era possibile lamentarsi delle ingiustizie del sistema o maledire la propria esistenza liberamente: il significato di quelle parole infatti risiedeva esclusivamente nella sfera femminile. Gli uomini ne erano a conoscenza ma non provavano alcun interesse, sebbene si trattasse della trascrizione fonetica dei dialetti del territorio. Riuscivano a comprendere le parole solo con il canto, espressione orale della sistema di scrittura. “Nonostante molte donne di Jiangyong non sapessero scrivere in nüshu, potevano recitare i testi nella forma di canto, spesso aiutando a ricostruire il patrimonio letterario scomparso”, afferma Fei-Wen.
Alcune teorie parlano di un peggioramento della condizione femminile a partire dall’emigrazione da nord a sud degli Han, l’etnia principale della Cina. La mescolanza con uno dei gruppi preesistenti, gli Yao, ha trasformato Jiangyong in un crocevia multiculturale alimentato dai numerosi matrimoni. Il nüshu è frutto di questo dialogo, della connessione tra le donne e della condivisione di problemi comuni all’intero genere.
Il raggiungimento dell’età giusta per sposarsi, attorno ai 15 anni, costituiva una grande fonte di preoccupazione. Voleva dire rinunciare alla giovinezza, lasciare il proprio villaggio e trasferirsi in quello del marito, uno sconosciuto scelto di comune accordo dalle famiglie. Con l’inizio della vita coniugale, la moglie abbandonava le feste femminili, si dedicava ad attività come il ricamo e ricopriva il suo ruolo nel sistema patriarcale. La morte dell’uomo non offriva alcun tipo di scappatoia perché spesso la vedova decideva di suicidarsi e di seguirlo nell’aldilà, una scelta molto ben vista a livello sociale che dava lustro e riconoscimento alla sua famiglia. La pratica era così diffusa che la dinastia Qing (1644-1911) dovette introdurre il divieto di suicidio e il reato di istigazione al suicidio. In rari casi, la donna si sfregiava il viso per risultare meno attraente e restare fedele al coniuge defunto.
Per sopravvivere a questo scenario, fortunatamente la tradizione prevedeva la presenza di una o più spalle su cui appoggiarsi fin dall’infanzia. Dopo la fasciatura dei piedi, alle bambine veniva assegnata una laotong, una sorta di sorella con cui stabilire un’affinità spirituale ed emotiva. La ricerca spettava alle mediatrici, donne di mezz’età che avevano il compito di trovare una compagna nata nello stesso giorno, mese e anno. A quel punto, una delle due bambine avrebbe scritto una proposta di unione su un ventaglio, tra gli oggetti più utilizzati del mondo nüshu, che non sempre veniva accettata.
Dal momento del rito di unione, il legame durava per tutta la vita ed era destinato a offrire conforto nei momenti più bui. Ne ha parlato il regista Wayne Wang nel suo film Il ventaglio segreto (2011), basato sul romanzo Fiore di neve e il ventaglio segreto (2005) di Lisa See, che tratta la storia parallela di due amiche nel XIX secolo e nel presente. Al momento dell’abbandono del villaggio, le due si scambiano messaggi scritti su alcuni ventagli e il rapporto sembra assumere tinte quasi omosessuali, nonostante non esistano riferimenti storici riguardo questa possibilità.
La laotong era unica e insostituibile, un supporto essenziale per il benessere psicologico di entrambi i soggetti. Difficilmente altre relazioni potevano aspirare al livello di profondità di questa unione, ma si contemplavano anche altri tipi di legami. Nel caso delle “sorelle giurate” (jiebai zimei) si stabiliva un vincolo che spesso somigliava a quello tra insegnante e studente con donne non necessariamente nate nello stesso anno e non era obbligatorio che durasse per tutta la vita. Poi c’era “l’ospite di passaggio” (xingké), un rapporto con una ragazza di un altro villaggio che iniziava solo se si scioglieva quello con una precedente sorella giurata.
Assieme a loro, la famiglia e gli affetti aiutavano la futura moglie nella difficile transizione che l’accompagnava fino al matrimonio. Nei tre giorni precedenti alla cerimonia, il nüshu giungeva in soccorso e veniva intonato in diverse fasi secondo i rituali tradizionali. Nella “sala dei canti seduti” (zuogetang) si recitavano i “canti della sofferenza” (kuge), composti da quattro fasi, l’ultima con la partecipazione di tutti i parenti. Le amiche nubili trascorrevano con la sposa giorno e notte chiacchierando, scrivendo e ricamando, in uno degli ultimi bagliori di luce prima del buio coniugale, dove era permesso confessare paure e incertezze. La madrina, quasi sempre la madre della sposa, dava inizio ai canti seduta sul terzo gradino della scalinata che portava alla stanza riservata alle donne ed era accompagnata nei suoi lamenti dalle amiche della figlia.
La “sposa rossa”, chiamata così per il colore del vestito, scendeva infine le scale segnando il passaggio dalla vita infantile a quella adulta. Tre giorni dopo il matrimonio, riceveva il regalo più importante della letteratura in nüshu: il Libro del Terzo Giorno (sanzhaoshu). Le amiche e i familiari compilavano le prime pagine e lasciavano le altre in bianco, come in una specie di diario che avrebbe accolto i pensieri e gli accadimenti futuri della protagonista. Se da una parte si trattava di uno strumento utile per esprimere miseria e disperazione, dall’altra invece si tramutava in un vedemecum che collegava le famiglie dei due coniugi e offriva alla neo-moglie alcuni consigli pratici.
La famiglia d’origine sfruttava l’occasione per introdursi a quella d’arrivo e lasciava messaggi di compassione per la figlia. Le si spiegava come comportarsi per incarnare l’ideale della perfetta moglie confuciana e si chiedeva alla suocera di correggere eventuali comportamenti scorretti, come succede in uno dei canti principali della tradizione, Il galateo delle figlie:
Sii gentile con tutti e non parlare mai ad alta voce
Non ribattere a ciò che ti viene detto
Non mostrarti testarda, ammetti sempre i tuoi errori
Parla solo quando ti viene chiesto qualcosa
Non intervenire quando non è necessario
Le visite ai templi locali erano tra le poche occasioni per allontanarsi dalla propria abitazione. Lì le donne si scambiavano messaggi intrisi di disperazione e si lasciavano preghiere per le dee Gunyin, Mazu, Niangniang e Gupo, che simboleggiavano la fertilità, spesso bruciate per fare in modo che salissero in cielo. In molti dei testi rimasti si trovano riferimenti al suicidio e richieste di rinascere uomo in una vita futura. Yi Nianhua, una delle ultime eredi del nüshu, descrisse così la sua tristezza:
Con tutto il cuore, voglio solo la via per le gialle sorgenti dell’aldilà,
non voglio percorrere il mio destino in questo mondo.
Ancora, spero Niangniang mi abbia cara
Niangniang, accoglimi presto!
Perché non rendermi uomo?
Tutto ciò che ho ottenuto è lo stesso destino di mia madre.
Niangniang, accoglimi presto! […]
Nelle case delle persone i giorni passano lieti,
solo nella mia non ci sono giorni felici!
Ogni mattino aspetto l’arrivo della sera,
non c’è un giorno che non mi tormenti da mattina a sera.
Il dibattito accademico
Gran parte del corpus letterario è andato perduto: nel 2012, il sinologo di Harvard Wilt Idema parlava di circa 500 testi rimasti. Oltre al rogo delle preghiere, una volta deceduta la donna veniva seppellita con tutti suoi beni, come ventagli, cinture e libri del terzo giorno, per continuare a goderne nella vita ultraterrena. Il primo manufatto in nüshu rinvenuto risale al periodo del Regno Celeste della Grande Pace (1851-1864), che aveva introdotto importanti riforme sociali e diverse politiche in favore dell’uguaglianza di genere. Si tratta di una moneta di bronzo dove si può leggere: “Tutte le donne del mondo appartengono alla stessa famiglia”.
Tra le persone che per prime cercarono di tutelare il patrimonio scritto c’è paradossalmente un uomo, Zhou Shuoyi, che negli anni Cinquanta venne a conoscenza del fenomeno tramite il marito di sua zia, proveniente da un villaggio dove le donne comunicavano in nüshu. Il suo lavoro di archiviazione si scontrò con la Rivoluzione Culturale di Mao, che si era imposto di cancellare i retaggi del passato feudale. Per questa ragione, Shouyi fu deportato nei campi di lavoro, dove rimase per 21 anni fino al 1979: “Bruciarono tutte le mie ricerche. Fui bollato come ‘destroide’ per quello che avevo fatto”, ha dichiarato in un’intervista al China Daily nel 2004.
Una volta fuori, affiancò Gong Zhebing nella riscoperta definitiva del nüshu negli anni Ottanta e insieme si misero alla ricerca della fonte primaria dello studio: le donne. Per capire davvero cosa si nascondeva dietro quei caratteri bisognava affidarsi a loro, attingere dai contenuti dei testi e lasciarsi permeare dalla cultura del luogo. Così fecero praticamente tutte le studiose diventate poi esperte del genere, cinesi e non. La professoressa dello Skidmore College di New York Cathy Silber studiò con Yi Nianhua, del villaggio di Tongkou e così fecero anche l’accademica dell’Università Tsinghua di Pechino Zhao Liming e la taiwanese Liu Fei-Wen, che stabilirono un rapporto di “sorellanza” con alcune delle ultime eredi locali.
Nonostante le divergenze, c’è un consenso generale sugli elementi linguistici del nüshu. I brani non hanno titoli, non si usa la punteggiatura e le pause vengono indicate da uno spazio. I canti sono composti da cinque o sette sillabe e vanno dai venti ai circa 500 caratteri, molti ripetuti attraverso formule ricorrenti, proprio come nelle canzoni. Come nell’hiragana giapponese, ogni carattere corrisponde a una sillaba o a un suono e non ha alcun significato semantico, diversamente dal cinese, dove una sillaba può essere rappresentata da vari caratteri. Di conseguenza, un unico ideogramma nüshu si riferisce a tutte le parole dal suono simile e il significato è definito dal contesto.
Il numero effettivo dei caratteri varia a seconda degli studi che si considerano. Al momento della sua scoperta, si pensava che il nüshu contasse circa 10.000 ideogrammi, poi ridotti progressivamente. Nel 2003, Shouyi pubblicò il primo dizionario, che ne elencava circa 1.800, ma Zhao Liming ha stabilito che la cifra esatta si attesta sui 396 per via delle ripetizioni e delle trascrizioni che sostituiscono un carattere con un altro o lo semplificano. Nonostante questa quantità esigua, il nüshu riesce a rappresentare ben 1.500 parole.
Se dal punto di vista fonetico riprende i dialetti dei villaggi di Jiangyong, la modalità di scrittura si ispira al cinese classico e per questa ragione l’ipotesi della discendenza dalle ossa oracolari della dinastia Shang (XVII-XI secolo a.C.) non trova fondamento perché risale a mille anni prima dell’unificazione del sistema di scrittura cinese. Altre teorie sostengono che il nüshu sia nato durante la dinastia Qing (1644-1911) o quella Ming (1368-1644) sulla base dello stile calligrafico kaishu. Sebbene le donne non avessero accesso all’istruzione, assistevano indirettamente a quella dei fratelli e conoscevano la forma e l’apparenza dei caratteri cinesi. Da lì potrebbero essersi ispirate per creare una scrittura che si dispone da destra verso sinistra e dall’alto verso il basso, come nel cinese classico.
“La donne ereditavano la scrittura di generazione in generazione. La si poteva imparare da una mamma, da una sorella maggiore, da una cugina. I villaggi avevano famiglie molto estese quindi una cugina veniva considerata come una sorella. Dipendendo dalla posizione genealogica nella famiglia, se un fratello maggiore sposava una donna si poteva impararlo anche da lei. Il nüshu non è codificato, è tutto nelle mani delle persone che lo usano perché non c’è un’autorità ufficiale”, afferma Cathy Silber, che sta attualmente lavorando a un libro dove gli scritti di Yi Nianhua serviranno da filo conduttore per spiegare come le donne comprendevano se stesse scrivendo, leggendo e cantando in nüshu.
Oggi si può leggere gran parte del materiale rimasto in un’antologia di cinque volumi curata da Zhao Liming e da alcuni suoi studenti che contiene preghiere, lamentele personali, lettere tra sorelle giurate e traduzioni di opere della letteratura cinese. Una classificazione simile si trova anche nel libro di Liu Fei-Wen Gendered Words: Sentiment and Expression in Changing Rural China o nella raccolta di Wilt Idema Heroines of Jiangyong: Chinese Narrative Ballads in Women’s Script. Nella riscrittura delle storie folkloristiche compare una versione in nüshu del mito di Meng Jiangnu, che incarna la fedeltà assoluta al marito della moglie confuciana. Nel racconto, l’uomo viene reclutato per la costruzione della Grande Muraglia ma muore per la fatica eccessiva. Quando la donna lo raggiunge e scopre l’accaduto il pianto è così forte da far crollare la parte di muro dove è seppellito.
Ma accanto a racconti di devozione, ce ne sono altri di assoluta disperazione, come quello che narra di una donna costretta a sposare un bambino di tre anni.
Una ragazza di 18 anni, un bambino di tre anni:
Lei lavò i suoi piedi e lo mise a letto di sera,
Ma fu svegliata dai suoi pianti che chiedevano di allattarlo.
“Ma sono tua moglie, non tua madre”.
L’intervento delle istituzioni
Il nüshu cominciò a scomparire dalla concessione del diritto allo studio alle donne nel 1907. La prima scuola elementare a Jiangyong arrivò nel 1912, sebbene fosse esclusiva delle famiglie ricche. Poi la Rivoluzione Culturale assestò un duro colpo, che segnò il passaggio tra la vecchia e la nuova generazione. Adesso, nella contea le insegne sono in cinese e in nüshu e la scrittura delle donne è pubblicizzata ovunque, ma le modalità di promozione del governo hanno causato il risentimento dei puristi del fenomeno.
Il villaggio di Puwei —adesso Pumei, dove la parola “mei” sta per “bello”— è diventato ufficialmente il centro delle attività per la trasformazione del nüshu in attrazione turistica. Prima è stato aperto un museo, grazie a un investimento di circa 200.000 euro, e poi il Grand Hotel Nüshu. Questa politica ha inaugurato una fase di commercializzazione che approfitta del patrimonio comune per stamparlo sulle cover dei cellulari, sugli orecchini o i portafogli. Nella città di Yongzhou ha addirittura aperto un ristorante della catena di fast food statunitense KFC che si ispira alla tradizione più importante della zona.
“Gli sforzi del dipartimento di propaganda per preservare e trasmettere il nüshu sono stati tutti verso l’esterno, che vuol dire trasmettere e preservare il nüshu a quelle persone che non saranno mai capaci di scriverlo o capirlo. Stanno impedendo qualsiasi tipo di protezione tra le persone che ne custodiscono l’eredità”, sostiene Silber. Il desiderio di convertire oggetti come il Libro del Terzo Giorno in prodotti da vendere ha portato in certi a casi a inventare completamente i caratteri e a creare ostilità tra le eredi. Ma c’è anche chi la pensa diversamente, come He Yan, studentessa della contea: “Nel passato il nüshu stava morendo. Il turismo è uno strumento pratico per far rivivere la cultura”.
L’ultima persona che ha appreso il nüshu per necessità, secondo lo stile antico, è morta nel 2004. Si chiamava Yang Huanyi e aveva tra i 95 e i 98 anni, da quanto riportato da un necrologio del New York Times. “Scrivendo, molta della mia sofferenza sparisce”, affermò in un’intervista al Northwest Asian Weekly nel 1996. Nei suoi scritti racconta la perdita del marito due anni dopo il matrimonio per il morso di un serpente e i problemi con il secondo coniuge, sommerso dai debiti.
Tra le più anziane ancora vive c’è He Yanxin, che al contrario di Yang Huanyi ebbe accesso allo studio del cinese e per questo non rientra nella categoria di erede naturale. Oltre ad aver contribuito alla stesura del dizionario nüshu, è stata sorella giurata di Liu Fei-Wen e ha scambiato lettere con Zhao Liming. Ma parlare della scrittura le rievoca ricordi di una vita dura e infelice. Il marito divenne violento con lei quando gli diagnosticarono un tumore e alla sua morte decise di tornare nel suo villaggio natale. “Non ha alcun senso scrivere questi caratteri; farlo mi agita e mi rattrista”, ha detto a Giulia Falcini, che l’ha incontrata durante uno dei suoi viaggi.
Per essere definiti eredi di nuova generazione si riceve una targa direttamente dal governo centrale. I funzionari si recano nei villaggi per sottoporre le candidate a un test che prevede di saper scrivere 300 caratteri in nüshu, recitare tre brani del Libro del Terzo Giorno o qualcosa che è stato scritto in passato e avere abilità nella calligrafia e nel cucito, secondo quanto racconta Fei-Wen. Recentemente è stata introdotta la possibilità di compilare un’application online dove si riassumono il proprio curriculum e le attività pertinenti alla carica.
Dall’esperienza sul territorio, Falcini ha potuto constatare che non sempre i migliori vengono premiati. I funzionari non conoscono il nüshu e la consegna della targa dipende fondamentalmente dalle relazioni con i piani alti. Hu Yanyu, una delle eredi più prolifiche di Puwei, non è stata ancora riconosciuta come tale perché non ha avuto la possibilità di sottoporsi all’esame. Quando si è svolto, era stata inviata dal governo locale a Pechino come rappresentante della scrittura.
Eppure, Yanyu ha opere esposte nell’università di Wuhan, lavori di calligrafia conservati all’Unesco e insegna attivamente non solo nel museo ma anche negli asili e nelle scuole elementari. Nel secondo caso, per poco tempo: “Prima c’era molta richiesta ma con il tempo non si è insegnato più perché il carico di studio è enorme e i genitori ritengono che non sia giusto aumentare la pressione e credono che sia meglio utilizzare quel tempo in cose più utili. Adesso lo insegna all’asilo per tre anni e alle elementari di un villaggio, solo in prima, poi smettono anche lì. Secondo lei è meglio di niente, è comunque un qualcosa”, racconta Falcini.
Questo non vuol dire che il nüshu non possa essere utilizzato nella sua funzione principale, ovvero come momento di aggregazione e valvola di sfogo per i dolori della quotidianità. Zhao Liming racconta di aver conosciuto una psicoterapeuta australiana che applica questi concetti nelle sue sedute, con ottimi risultati. Di lei ricorda solo il nome in cinese, Wang Kailan, ma il suo esempio dimostra che il nüshu trascende le frontiere locali: “Ha compreso le funzioni vitali del nüshu: avere fiducia in se stessi, sfogare le proprie sensazioni e la comunicazione di gruppo sono fondamentali di cui gli esseri umani hanno bisogno. E possono essere usati per il trattamento delle malattie mentali. Kailan ha capito che il nüshu appartiene a tutta l’umanità”, dice Liming.
Gli effetti positivi sono testimoniati da uno studio di tre ricercatori cinesi dove emerge la longevità delle donne del periodo precedente alla fondazione della Nuova Cina (1949). Su 64 eredi, una ha raggiunto i 100 anni, due i 90, diciannove sono andate oltre gli 80 per un’età media di 71,11 anni, che supera nettamente i circa 40 dell’epoca. La pratica attenuava le problematicità di una società che continuava a opprimerle e ricordava costantemente la presenza di una comunità che accompagnava ciascuna nella propria solitudine.
Dal 2006, il nüshu è nella lista dei patrimoni immateriali della Cina e si sta pensando di proporlo all’Unesco. Ma un paese così vasto ha altre priorità e la mancanza di documentazione e registri storici affidabili rendono difficile il raggiungimento dello scopo. Nel frattempo, la scrittura ha varcato i confini: il premio oscar Tan Dun ha composto una sinfonia di tredici movimenti e l’artista Alessandro Cardinale ha tenuto una mostra alla Biennale di Arte Contemporanea Cina-Italia di Pechino nel 2012. Nella lista appare anche il lavoro della fotografa Li Weina con He Yanxin e un gruppo musicale leccese che porta il nome della scrittura delle donne.
Tuttora il nüshu resta praticamente sconosciuto agli uomini: “Non gli è mai piaciuto e credo che il motivo per cui oggi se ne interessano è soltanto pura curiosità”, sostiene Hu Yanyu. Ma resta comunque un fenomeno che “permette di capire la cultura femminile della Cina, specialmente quella delle zone rurali”, come afferma He Yan. Oggi le donne di Jiangyong non vivono più in una società che le obbliga a fasciarsi i piedi e a obbedire in silenzio alle autorità maschili. Tuttavia, l’urgenza del matrimonio rimane, e le costringe a rinunciare alle proprie aspirazioni, spinte ancora dalle pressioni della famiglia e della società.