I l 27 febbraio di tre anni fa non era diverso dagli altri giorni. Il treno Tilo partiva dalla stazione di Como San Giovanni, direzione Bellinzona. Le persone a bordo occupavano il tempo leggendo, chiacchierando o osservando il lago dal finestrino. Il buio, qualche minuto di galleria, l’ingresso in Svizzera: senza nemmeno rendersene conto, si era varcata quella linea invisibile chiamata confine. Sopra la loro testa c’era Diakite Youssouf, 20enne originario del Mali. Aveva provato più volte a lasciare l’Italia, ma era sempre stato respinto alla dogana. Il viaggio sul tettuccio del treno era un tentativo estremo. Youssouf è morto folgorato in territorio svizzero, prima che potesse rendersi conto di avere ormai la frontiera alle spalle. Un tratto di matita tracciato su una cartina geografica, per separare due territori, gli è costato la vita.
Nel 2016 Como si è trovata una crisi migratoria nel suo borghese giardino di casa. La città ha avuto il doloroso privilegio di osservare la differenza nei destini delle persone: mentre migliaia di fortunati saltellavano al di qua e al di là del confine, altre migliaia rimbalzavano contro un muro immaginario, impossibilitati a proseguire. Esseri umani in entrambi i casi, ma con un pezzo di carta differente in tasca.
Sono passati alcuni anni da quegli avvenimenti. Oggi l’emergenza alla frontiera è rientrata, eppure quella invisibile linea di confine continua a mantenere le sembianze di una barriera insormontabile. Questa volta, a non poterla varcare, sono gli italiani.
Linee invisibili
Il premier Giuseppe Conte ha chiuso l’Italia. L’epidemia di COVID-19 ha assunto una portata tragica, i decessi si sono moltiplicati giorno dopo giorno, così come il numero di contagi. Il sistema sanitario nazionale si è trovato al collasso, i posti in terapia intensiva sono andati terminando. L’unico modo per uscirne è stato proclamare una sorta di quarantena collettiva. Sono stati chiusi i luoghi dell’intrattenimento e della cultura. Scuole e università non vedono i loro studenti da settimane. Lo sport si è fermato. Si è chiesto alle persone di stare in casa e di fatto si è tolto loro ogni pretesto per uscire. È possibile muoversi solo per questioni urgenti e la polizia presidia le strade, le stazioni, gli aeroporti. Mentre l’Italia si è sigillata dall’interno, nuovi muri sono stati costruiti dall’esterno. Il divieto d’ingresso agli italiani in diversi paesi, i voli e gli altri trasporti sull’Italia sospesi, le limitazioni alle frontiere austriache, svizzere, francesi e slovene.
Una solida passata di nastro isolante ha avvolto il paese. Agli italiani nati nell’ovvietà della libertà di movimento, cresciuti nello spazio Schengen, all’improvviso è stato interdetto di girare “all’interno e all’esterno dei territori”, un campo minato da non attraversare. Si è materializzata una intricata maglia di muri insormontabili e soffocanti. Linee invisibili, poco chiare, che hanno mandato in tilt le mail e i telefoni delle prefetture locali. Posso andare al supermercato? dai miei genitori? al lavoro? si sono chieste le persone, così poco abituate a maneggiare il concetto di barriera, a rinunciare alla propria libertà di spostarsi. In migliaia sono scappati dalla prima zona rossa, quella lombarda, verso un miraggio di salvezza rappresentato dal centro-sud Italia. Sono bastate 48 ore perché le barriere mutassero ancora e si estendessero a tutto il paese.
Mentre l’Italia si è sigillata dall’interno, nuovi muri sono stati costruiti dall’esterno. Una solida passata di nastro isolante ha avvolto il paese.
A Como in queste settimane la storia è cambiata, di nuovo. Nel 2016, allo scoppio della crisi migratoria, la città è stata costretta a guardare e comprendere la potenza del confine, ma anche il privilegio di non esserne vittima. C’è chi ha capito e ha reagito in modo umano, offrendo assistenza alle migliaia di migranti dimenticati nel parco della stazione e spendendosi per mantenere i riflettori nazionali accesi sulla questione. In molti però non lo hanno fatto, approfittandone per vomitare tutto il loro odio su quei soggetti fragili e su chi dava loro aiuto. Forse è per questo che oggi quella linea invisibile, il confine, è tornata a chiedere il conto alla città, in una sorta di legge del contrappasso.
A una manciata di minuti di macchina da Como, oltre la dogana di Ponte Chiasso o quella di Maslianico, la vita continua a scorrere. Il COVID-19 in Svizzera c’è, ma i casi al momento sono ancora pochi. I bambini vanno a scuola, le persone si recano al lavoro, i bar e i ristoranti sono accessibili e le attività commerciali e industriali non se la passano male. A differenza dell’Italia pluricontagiata, oltreconfine regna l’illusione di una simil-normalità. E la beffa è che dalla frazione di Sagnino – a poche centinaia di metri – la si può osservare con un senso di invidia, quasi toccandola con un dito. La Svizzera si apre così, in una piccola vallata. Dalle loro finestre i comaschi possono vedere il via vai di macchine, gli atleti che si allenano nel campo sportivo, le persone sedute a bersi una birra. Mentre loro non possono neanche uscire di casa. Ma presto nuovi confini nasceranno anche lì in fondo alla valle, probabilmente. Nel cantone ticinese è già stata sospesa la scuola post-obbligatoria e si è ordinato il divieto di assembramenti con più di 50 persone. Misure che lasciano presagire l’imminente innalzamento di nuove barriere per limitare i movimenti, come sta avvenendo in Italia.
Nel 2015 un migrante tendenzialmente riusciva a superare la linea invisibile della frontiera. Nel 2016 veniva invece mandato indietro, un destino toccato a 19mila persone solo quell’anno. Sullo sfondo i cittadini comaschi continuavano a entrare e uscire, non c’erano problemi. Ma nel 2020 è venuto il loro turno. Solo nella giornata del 10 marzo sono state 250 le macchine cariche di locali a cui è stato imposto di fare marcia indietro alla dogana. Intanto sono stati chiusi nove valichi minori. Gli unici che continuano ad avere il semaforo verde sono i lavoratori frontalieri, a cui è concessa una deroga. Ma un domani anche per loro il confine potrà cambiare sembianze e trasformarsi in un muro, come stanno chiedendo a gran voce alcuni politici ticinesi.
In tutto questo tempo il confine è rimasto lì, invisibile, ma il suo peso è mutato. Il COVID-19 ha fatto conoscere a Como la potenza di quella linea. Fino a ora vissuta come un impercettibile trattino di penna su una mappa, è diventata quello che già da tempo era per altre persone: una barriera invalicabile. Chi ancora non l’aveva capito sulla pelle degli altri durante la crisi migratoria del 2016, ha ora potuto constatare in prima persona che le frontiere sono linee invisibili o montagne insuperabili a seconda di chi le guarda, ma anche in base al momento in cui lo si fa. Come sottolinea il politologo Nick Vaughan-Williams in Border Politics: The Limits of Sovereign Power: “nessuno dei confini è in alcun senso dato, ma (ri)prodotto attraverso modalità di affermazione e contestazione ed è, soprattutto, vivo. In altri termini, i confini non sono né naturali, né neutrali e nemmeno statici, ma storicamente contingenti, politicamente carichi, fenomeni dinamici che coinvolgono in primo luogo le persone e le loro vite d’ogni giorno.”
A causa del COVID-19, una linea fino a ora vissuta come un impercettibile trattino di penna su una mappa è diventata quello che già da tempo era per altre persone: una barriera invalicabile.
È questa fluidità dei confini a renderli così violenti. Ma soprattutto, a definire la loro eterogeneità. ”I confini statali sono solo un tipo di confine. Fondamentalmente, i confini sono punti di svolta in cui i flussi cambiano direzione. Qualsiasi costrutto sociale – una recinzione, un muro, un passaporto, una cronologia di viaggio – che modifica i movimenti delle persone fa parte della cinetica sociale dei confini”, scrive il filosofo Thomas Nail in Theory of the border.
Non bisogna allora andare fino alla frontiera per capire la potenza dei confini, perché essa si può materializzare anche in altri contesti. Milano e Torino per esempio sono tanto vicine, ma mai lontane come adesso. 47 minuti di treno dalla Stazione Centrale a Porta Susa, un’ora e mezza di macchina, due ore di pullman. Tornano in mente i progetti sull’hyperloop per collegare le due città in 7 minuti. Eppure oggi in mezzo c’è un oceano, quel punto di svolta dei flussi impersonato dal decreto ministeriale Io resto a casa, che assume la forza di una barriera in cemento armato. L’ovvietà di spostarsi dal punto A al punto B per un cittadino italiano si scontra oggi con l’impossibilità di varcare confini un tempo inesistenti, oggi ingombranti, proprio per la loro fluidità.
È quanto avvenuto anche a Codogno, dove le persone sono state rinchiuse nella municipalità per evitare che potesse propagarsi il virus. Gli sterminati campi che circondano la cittadina, i lunghi rettilinei stradali tra le balle di fieno e i canali di irrigazione, sono stati tranciati da nuove linee immaginarie. Disegnate su una mappa, impossibili da vedere a occhio nudo, ma insormontabili. La vita delle persone è cambiata drasticamente all’ombra di queste nuove barriere. Ed è stato uno shock collettivo. Ma nuovi confini sono nati anche lì dove già si era abituati a vivere nella limitazione, gli istituti penitenziari. Luoghi particolari, dove il confine era già più visibile che altrove – nelle alte mura di cinta, nel filo spinato che luccica del riflesso del sole, nelle telecamere puntate dai gabbiotti di vedetta. Qui sono stati ridotti ulteriormente i contatti con l’esterno per evitare una diffusione del contagio. I detenuti si sono ribellati, sono morte diverse persone. È scoppiato un caos dettato dalla paura di dover rinunciare all’ultimo brandello di libertà di movimento disponibile. Di essere ulteriormente confinati.
Frontiere mobili
A oltre 3mila metri sul livello del mare, sulle Alpi Retiche orientali, si erge il ghiacciaio del Similaun. Lungo il suo spartiacque corre la linea di confine tra Italia e Austria, ma a causa del cambiamento climatico e del conseguente scioglimento dei ghiacciai, quello spartiacque continua a spostarsi e con lui la linea di confine.
Fin dall’antichità, sono quasi sempre stati gli elementi naturali a definire le terre di frontiera. Fiumi, laghi, mari, montagne. Elementi considerati immutabili, fermi, dunque un buon punto di demarcazione. Le contingenze esterne hanno però messo in crisi questa concezione. Nel caso del Similaun, le condizioni meteorologiche hanno portato Italia e Austria a firmare un memorandum in cui di fatto si riconosce la mobilità dei loro confini, proprio alla luce dello spostamento degli spartiacque glaciali. Italian Limes, progetto dello Studio Folder, ha monitorato questi spostamenti usando cartografie del passato e installando gps nel presente, per raccontare la volatilità dei confini, la loro perenne messa in discussione.
Alcune storie ci ricordano la fluidità e l’artificialità del confine. Un elemento mobile, a seconda di chi lo guarda e di come lo fa.
Allo stesso modo, sul confine italo-francese c’è il rifugio Torino, da anni al centro di una disputa: la Francia la considera nel proprio territorio, l’Italia nel suo. Qualche anno fa lo scontro si è acceso nuovamente perché Google ha aggiornato le linee di confine sulle sue mappe – e dunque sulle nostre. È bastato questo, la mossa di un’azienda privata della Silicon Valley, per riaccendere il conflitto sul posizionamento reale di una linea irreale.
Sono solo alcune storie, che ci ricordano la fluidità e l’artificialità del confine. Un elemento mobile, a seconda di chi lo guarda e di come lo fa. Questo sta emergendo più che mai nell’Italia di questi giorni, quella sferzata dall’emergenza sanitaria. Il territorio nazionale si è ritrovato avvolto da un reticolo di confini e barriere, lì dove un tempo c’erano città, pianure, colline e montagne accessibili a tutti, in ogni momento. Questa trasformazione assume sembianze diverse e suscita reazioni differenti a seconda di chi le osserva, che sia il comasco che fissa invidiosa la Svizzera dal balcone di Sagnino, o il quarantenato di Codogno che scruta nostalgico la vastità dei campi irraggiungibili dalla finestra della cucina, o l’expat che dall’estero dialoga preoccupato con i suoi familiari su skype senza poter tornare a casa.
Gerald Murnane, nel suo libro Le Pianure, parla degli abitanti di quella terra ignota australiana
che cercano di riprodurre su una mappa tutte le pianure che ritengono necessarie o tutte quelle che si accontentano di conoscere, e che si dicono d’accordo sul fatto che ciascuno possa includere parte dei confini dell’altro nella propria mappa, ma scoprono alla fine che le loro mappe non si possono accostare con precisione – ovvero, che ciascuno di loro sostiene che esista una zona non ben definita tra gli ultimi luoghi che potrebbe desiderare e i primi sui quali non ha alcun diritto.
Esiste una soggettività degli spazi, della loro interpretazione e del modo in cui vengono vissuti e percepiti. Esiste una soggettività dei confini ed è proprio questo a decretarne la violenza, perché essi non sono dati una volta per tutte. L’Italia è chiamata a una presa di coscienza collettiva in questo senso, dopo aver sperimentato sulla propria pelle quanto una linea invisibile di interdizione sappia essere distruttiva. Una crisi sociale, un’economia in ginocchio, un dramma psicologico: l’inevitabile costruzione di barriere internazionali e nazionali per contenere il contagio sanitario si sta portando dietro tutto questo. Limitare le persone nei loro movimenti locali e transnazionali, imporre nuovi confini, può essere necessario, come è nella situazione attuale. Ma resterà sempre un dramma, per un’umanità abituata alla mobilità. È forse questa una delle lezioni più importanti che il COVID-19 lascerà alla storia.