L ’utente @stove indossa una maglietta con scritto “If your activism is not intersectional, it is bullshit”, degli occhiali rettangolari e delle cuffie con microfono incorporato. Sorride nervoso verso la videocamera con cui si sta riprendendo, prima di annunciare le sue dimissioni in collegamento con quelli che immaginiamo essere i suoi datori di lavoro. È solo uno tra centinaia di video con milioni di visualizzazioni che scorrono sotto gli hashtag #Quittok o #Quitmyjob su TikTok. Vediamo persone in lacrime, oppure esultanti e fuori controllo, che mostrano le mani tremanti dopo aver inviato la fatidica email. È uno dei giorni più importanti della loro vita, dicono. Sono tutti molto giovani, al massimo trentenni. Da quando ne abbiamo sentito parlare per la prima volta, circa due anni fa, le Grandi Dimissioni non hanno impiegato molto a diventare un trend sui social network. D’altra parte, da quando i social hanno fatto irruzione nelle nostre vite, non si è mai parlato così tanto di lavoro come in questi ultimi anni.
Complice la pandemia, ma molto probabilmente contano anche mere questioni anagrafiche: le persone tra i 20 e i 35 anni sono alle prese con le prime esperienze lavorative o hanno già fatto in tempo a sperimentare alcune delusioni professionali e ne discutono su internet, come per qualsiasi altra cosa. Gen Z e millennial vengono spesso descritte come due generazioni sensibili a temi come flessibilità, etica e diritti sul lavoro più di quanto non avvenisse nel passato recente. Sui magazine e sui canali social si discute di settimana lavorativa corta, gender pay gap, congedo mestruale, climate quitting, di nomadismo digitale e romanticizzazione della “vita lenta” lontana dalle grandi metropoli. Sono discorsi che prendono un sacco di like, ma probabilmente il vero collante che unisce ventenni e trentenni oggi è il burnout, motivo per il quale si parla di Great Exhaustion. Secondo una ricerca condotta da BVA Doxa, il 75% degli under 34 impegnati nella categoria blue collar si è dimesso almeno una volta per problemi legati alla salute mentale.
Non solo sui social, ma anche nei prodotti di intrattenimento e di consumo culturale si parla tantissimo di lavoro e salute mentale. Il caso delle serie tv è probabilmente quello più significativo. Tralasciando la memificazione totale di The Office – non a caso tornato prepotentemente in auge dal cuore degli anni Zero – e il successo stratosferico di Succession, ci sono tre serie tv recenti che risultano emblematiche in tal senso: The Bear, Industry e Severance. La prima romanticizza l’abnegazione di un talentuoso chef che cerca di risollevare il piccolo ristorante del fratello morto suicida, mostrando i ritmi forsennati di chi lavora in cucina, i costanti rischi per la salute che corre e il baratro dell’esaurimento su cui danza pericolosamente. Industry, criticata per l’uso eccessivo di scene di sesso e consumo di droga, mette in evidenza l’ambiente tossico e predatorio della finanza, le discriminazioni, lo stress e la violenza a cui sono sottoposte le persone che operano in un’azienda del settore.
Infine Severance, distribuita in Italia con il titolo tradotto Scissione, è forse quella che mostra più di ogni altra l’estenuante ripetitività e la totale mancanza di senso di alcune mansioni lavorative. Ambientata in un contesto distopico, nel quale i personaggi possono scegliere di scindere la propria vita privata da quella professionale, osserviamo le vicende di quattro dipendenti mentre portano a compimento task di cui non conoscono lo scopo. Raggruppano dei numeri che fluttuano sullo schermo di un computer retro-futurista, per ricevere dei waffle come premi produttività.
Non solo sui social, ma anche nei prodotti di intrattenimento e di consumo culturale si parla tantissimo di lavoro e salute mentale.
Sarebbe pretestuoso sostenere che le serie tv abbiano qualche legame con il crescente sentimento anti-lavorista che si è acuito di recente in alcuni angoli di internet, ma è interessante notare come le storture del lavoro contemporaneo siano entrate nel racconto mainstream offrendo spunti e riflessioni, tra cui, la domanda: perché, dopo aver lavorato tutto il giorno, quando arriva la sera ci intratteniamo di fronte alla tv con storie di personaggi che lavorano?
Ormai lo sappiamo bene, nel biennio 2021-2022 circa cento milioni di persone hanno lasciato volontariamente il proprio lavoro, solo negli Stati Uniti. In Italia sono circa quattro milioni, senza contare i contratti arrivati a termine o i dati inaccessibili di chi ha un lavoro in nero. Sono numeri con cui abbiamo imparato a familiarizzare, dietro i quali si celano storie, contesti, età e provenienze molto diverse.
Hanno fatto discutere i casi celebri: l’ultimo in ordine cronologico è quello di Xavier Dolan, che tra vari fraintendimenti ha dichiarato di voler smettere di fare film perché stufo dell’ansia da performance, del ciclo promozionale, della brama di successo, dichiarando “Non voglio dipendere dalle reazioni delle altre persone. Voglio essere libero”. Ad inizio 2023 ci sono state le dimissioni a distanza di pochi mesi l’una dall’altra di Jacinda Ardern e Nicola Sturgeon, prime ministre di Nuova Zelanda e Scozia, che hanno lasciato anzitempo il proprio incarico per mancanza di energie, seguite a stretto giro dalle dimissioni della Ceo di YouTube Susan Wojcicki, la quale ha lasciato il suo incarico dopo venticinque anni all’interno dell’azienda per “iniziare un nuovo capitolo incentrato sulla mia famiglia, sulla salute e su progetti personali di cui sono appassionata”.
Al di là di questi episodi simbolici, ci vuole poco per imbattersi in un post a tema dimissioni su LinkedIn, dove fino a non troppo tempo fa era tutto un elogio del sacrificio e sfoggio di successi e traguardi. Quello che abbiamo potuto apprendere in questi anni, attraverso le testimonianze e le statistiche, è che le persone stanno lasciando il lavoro con crescente frequenza e per ragioni molto diverse: per motivi economici, per questioni di salute mentale, per ambire a qualcosa di meglio, per mancanza di motivazioni, per riappropriarsi del proprio tempo. Queste storie ci dicono che una parte della narrazione del nostro rapporto con il lavoro sta cambiando, con segnali evidenti a partire dalla pandemia.
Nel saggio Le grandi dimissioni – il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, la sociologa Francesca Coin, una delle prime in Italia ad interessarsi e ad approfondire il tema, esegue un importante lavoro di raccordo, proprio a partire dai mesi di emergenza sanitaria, per rispondere a una serie di questioni rimaste in sospeso in questi anni di dibattito. La prima e forse la più importante riguarda il ricollocamento: il 57% delle persone che lasciano un lavoro a tempo indeterminato trova un altro impiego entro i primi tre mesi. Questo dato è importante soprattutto per sfatare il mito del divano, l’elemento d’arredo più citato non solo quando si parla di reddito di cittadinanza, ma anche di Big Quit. In genere una delle prime reazioni scomposte alle storie di chi lascia il proprio lavoro insinua un certo agio dietro tale scelta: evidentemente chi si dimette può permettersi di stare tutto il giorno sul divano a non fare niente. È successo anche a me, che di recente ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato, ma il mio divano è scomodissimo e mi fa infiammare la cervicale se ci sto seduto per più di un quarto d’ora.
Le grandi dimissioni sono anche e soprattutto una questione di lotta di classe.
Coin si impegna a sfatare il luogo comune secondo cui le Grandi Dimissioni sarebbero un privilegio per persone ricche o benestanti. Approfondendo la situazione in Italia, si sofferma su tre settori in particolare: la sanità pubblica, la ristorazione e la grande distribuzione organizzata, alternando l’analisi di report a testimonianze dirette e racconti individuali. Quello che ne emerge è un quadro decisamente drammatico, fatto di orari estenuanti, maltrattamenti, paghe misere, assenza di tutele e diritti basilari. “Prendevo farmaci per dormire e piangevo in macchina” racconta un medico, ricordando i giorni più acuti dell’emergenza sanitaria, affrontata senza adeguati strumenti e in perenne carenza di personale, dai quali è uscito in totale esaurimento e intenzionato a cambiare vita. In quegli stessi giorni i ristoranti chiudevano e le persone che fino al giorno prima lavoravano lì senza un contratto e per poche decine di euro al giorno, sono diventate semplicemente invisibili.
Molte di queste persone sono immigrate, costrette ad accettare condizioni inverosimili di sfruttamento, senza giorni di riposo ad esempio, oltreché svariate forme di razzismo. “Non avevo altra scelta. Quindi sono rimasto lì e quando è arrivato il momento me ne sono andato”, racconta Patrick, tuttofare in un ristorante sin dal suo arrivo in Italia, ottocento euro al mese per sessanta ore a settimana, che dopo quattro anni in condizioni simili sono diventati 1200 con un contratto in regola. Si direbbe un buon traguardo, eppure, appena ne ha avuto l’occasione, racconta di aver lasciato per un tirocinio a 500 euro al mese, con riposi settimanali e l’assenza di un capo razzista e asfissiante. Un salto nel vuoto che si è concluso in una storia di riscatto: Patrick è stato assunto dopo soli due mesi di tirocinio, lo apprendiamo con felicità simultanea alla frustrante preoccupazione che si tratti solo di un caso fortuito.
“È contro natura che ci sia una persona che davanti alla legge è uguale a te ma lì dentro è sopra di te” dice una delle tante altre voci che scorrono tra le pagine, facendo riaffiorare lo stesso coacervo di immedesimazione, frustrazione, angoscia e rabbia che si prova tra le testimonianze raccolte da Sarah Jaffe ne Il lavoro non ti ama. Quello che dimostra Coin è che le Grandi Dimissioni sono anche e soprattutto una questione di lotta di classe, che le persone che si dimettono lo fanno in gran parte per scappare da una situazione di disagio e malessere estremi, con l’obiettivo di trovare un nuovo impiego, seppur anche a costo di saltare un giro e rimanere senza certezze per un po’. Ammesso che il lavoro che lasciano garantisse qualche certezza. Lo sa bene qualunque finta partita Iva o un grafico freelance, quanto un precario della cultura, un operaio che lavora a cottimo o un cameriere chiamato per i turni nel weekend per lavorare a 5 euro l’ora.
Quando si parla di Grandi Dimissioni si cerca spesso di addurre dati, numeri, statistiche – 1 persona su 2 se potesse cambierebbe il proprio lavoro (Censis), tasso di abbandono record del 3,2% (Ministero del Lavoro) – dimenticando che si tratta di un fenomeno contraddittorio (che cozza per esempio con i tassi alti di disoccupazione in Italia), fatto anche di aspetti emotivi ed impulsivi. Moltissime delle storie in questione parlano di angoscia, di insonnia, di malessere fisico, della paura di rimettere piede nel luogo di lavoro, di conati di vomito, dell’incapacità di riposarsi al solo pensiero di dover recuperare il lavoro accumulato. Sono aspetti che sfuggono alle percentuali e alla razionalità dei calcoli.
Quando si parla di grandi dimissioni si cerca spesso di addurre dati, numeri, statistiche, dimenticando che si tratta di un fenomeno fatto anche di aspetti emotivi.
È difficile mettere a fuoco la sfumata soglia oltre la quale iniziano le prime forme di maltrattamento, che possono essere subdole e talvolta ineluttabili per via delle dinamiche di potere imposte dalle gerarchie lavorative. Forme di pressione che filtrano goccia per goccia nella psiche e si aggiungono alle angosce derivate dal valore sociale di avere un impiego rispettabile, dal terrore di sentirsi inadeguati e non all’altezza, o dalle prospettive future inevitabilmente legate al lavoro, come, banalmente, pagare le bollette o accendere un mutuo, a seconda dei casi. E poi c’è la fatica, il calo di lucidità, quella sensazione di dover sempre rincorrere qualcosa che non si stanca mai e che arriva da tutte le parti. Una persona in questo stato è una persona debole, non in grado di far valere i propri diritti, più incline ad essere ricattata e manipolata.
In Italia si discute finalmente di salario minimo a 9 euro l’ora, ma a questo dovrebbe aggiungersi molto altro. Oltre a nuove forme di negoziazione e di contratti nazionali collettivi, servirebbero regole più rigide e maggiori ispezioni, forme più flessibili di accesso ai sussidi, corsi di formazione sia per i datori di lavoro che per i dipendenti, per incrementare non solo la sensibilità ma anche la conoscenza dei propri diritti e dell’accesso a forme di tutela e supporto. E poi incentivare le occasioni di dialogo e di solidarietà, aumentare la comunicazione tra colleghi e settori, sindacalizzare gli ambiti ancora vulnerabili, come in generale lo sono i freelance, per esempio. In tal senso si citano spesso organizzazioni come Acta, Redacta o Art Workers Italia, collettivi attivi da anni e che svolgono un’attività encomiabile, ma che rimangono delle mosche bianche in un mare di lacrime.
Da qualche mese a queste si è aggiunta Re:B, una forma spontanea di organizzazione nata dal recente emergere di numerose storie di molestie sessuali che hanno coinvolto trasversalmente alcune delle più grandi agenzie di comunicazione in Italia, a partire da We Are Social. Le molestie sessuali, il maschilismo e gli atteggiamenti predatori sul luogo di lavoro giocano un ruolo fondamentale nelle Grandi Dimissioni. 1 donna su 2 dichiara di aver subito almeno una volta discriminazioni o molestie in ambito lavorativo. Nelle testimonianze raccolte da Re:B, molte storie di molestie finiscono con delle dimissioni. A queste si aggiungono le innumerevoli forme di discriminazione sessuale e di genere. Una ricerca condotta dall’Istat assieme all’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali ha fatto emergere che il 61,8% delle persone LGBTQ+ ha subito micro-aggressioni sul lavoro, relative al proprio orientamento sessuale.
Nel racconto di Melville del 1853 Bartleby si rifiuta tassativamente di svolgere mansioni che esulano dal suo ruolo di scrivano, declinando con un iconico “I would prefer not to”. Oggi questo atteggiamento si chiama quiet quitting – fare il minimo indispensabile sul lavoro, non sacrificarsi anima e corpo per la propria azienda – e si inserisce all’interno di una crescente consapevolezza che dal “Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi” di Tyler Durden è diventato una cosa un po’ più sofisticata come: non devi immolarti per la tua azienda che non ti darà niente in cambio, i tuoi colleghi non sono la tua famiglia, non devi necessariamente provare sentimenti di amore per loro. Ma oltre al ricatto costante che la retorica aziendalista contribuisce a costruire minuziosamente, chiedendo in maniera subliminale di essere devoti alla causa, di lavorare fuori orario o di essere reperibili in vacanza, ci sono anche questioni di mera struttura quadridimensionale dell’universo, ovvero l’impossibilità di essere ubiqui come vorrebbero molti padroni.
Una persona in questo stato è una persona debole, non in grado di far valere i propri diritti, più incline ad essere ricattata e manipolata.
Una delle grandi piaghe della nostra epoca sono i meeting. Trascorriamo un sacco di ore in video call o in riunioni che hanno i contorni di un sequestro di persona – si arriva fino a 23 ore settimanali nei casi più estremi, ma in media sono una mole importante a tutti i livelli –, spesso del tutto prive di senso e che rendono impossibile (se non lavorando fino a tardi) svolgere anche tutto il lavoro al di fuori di esse. A questo si potrebbe aggiungere il tempo che può richiedere recarsi sul luogo di lavoro, secondo questo sondaggio nel 28% dei casi più di 45 minuti ogni giorno, oltretutto contribuendo sensibilmente a produrre emissioni di Co2. D’altro canto conosciamo la tendenza del lavoro da remoto a minare la separazione tra vita privata e lavoro, oltre a tutti i rischi relativi alle diseguaglianze e ai costi che ricadrebbero sull’individuo. Insomma, non esiste una soluzione facile e palese.
In After Work di Erik Gandini vediamo alcuni casi emblematici che raccontano il lavoro nella sua grottesca contemporaneità. Conosciamo la storia di un impiegato coreano orgoglioso di lavorare 20 ore al giorno e alla campagna nazionale che spinge milioni di persone come lui a prendersi cura di sé stessi, anche attraverso la coercizione, ovvero facendo spegnere automaticamente tutti i computer negli uffici alle 18:00 in punto. Vediamo la parabola dei NEET, i rischi dell’automazione e i risvolti dell’attuazione di un possibile reddito di base. Seppure edulcorato dal conflitto di classe, è uno spaccato di realtà molto interessante e uno sguardo teso verso il futuro del lavoro, se non addirittura della nostra specie. Tra le persone interpellate, la filosofa Elizabeth S. Anderson traccia un collegamento tra l’espandersi del calvinismo negli Stati Uniti e il sentimento di abnegazione lavorativa cresciuto negli ultimi due secoli di industrializzazione, ripercorrendo le tesi di Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Prima di allora, non lavorare non era considerata una sciagura, ma una benedizione, sostiene Anderson.
Il docufilm si conclude con una domanda collettiva che rimane aperta: cosa faremmo, se non dovessimo più lavorare? In termini assoluti è assolutamente vero che questa domanda spalanca un baratro esistenziale non indifferente. Non è un pensiero a cui siamo stati abituati, anzi, sin dall’infanzia ci viene chiesto cosa vorremmo fare da grandi, dando per scontato che la risposta asserisca a qualche lavoro dei sogni, il grande obiettivo della vita, il motivo per cui studiamo e facciamo sacrifici, la cosa più importante che possa capitarci nella vita.
Oggi questa retorica sembra vacillare anche solo un pochino. In Un uomo che dorme di George Perec, lo studente protagonista decide di non svegliarsi in tempo per recarsi all’esame e di dedicarsi all’atarassia. Quando parliamo di Grandi Dimissioni, parliamo di storie di sfruttamento, sofferenza ed emancipazione, ma non bisogna tralasciare anche gli aspetti ottimistici e utopistici che spalanca. Non c’è davvero niente di sbagliato nell’assecondare un sacrosanto bisogno di non fare niente, di fermarsi solo per il puro gusto di farlo. La pandemia – al di fuori delle perdite che ha comportato, degli aspetti tragici e i momenti di paura – ha rappresentato anche un bug troppo grande nella narrazione del presente e ha offerto la possibilità di ripensarci come individui e comunità, facendoci sentire per un attimo come lo scimpanzé che vede il cielo dopo 28 anni rinchiuso in un laboratorio.
Raccontare le dimissioni è un’occasione per sottrarsi, chiamarsi fuori dal ciclo continuo di produzione, infelicità e consumo che procedono in perfida complicità.
Parlare di Grandi Dimissioni è quindi un’occasione per farci coraggio e sperimentare, per scoprire che può esserci vita oltre i turni di lavoro e persino oltre lo stipendio. Un’occasione per sottrarsi, chiamarsi fuori dal ciclo continuo di produzione, infelicità e consumo che procedono in perfida complicità, mentre avanzano imperterrite le crisi simultanee, sanitarie, climatiche, sociali, economiche, la paranoia del tempo. Restare fermi, impassibili, in contemplazione, oppure fare una passeggiata di martedì mattina, impiegare due ore a preparare il pranzo, disperdersi tra gli anziani al parco vicino casa. Senza rispondere al telefono, senza obliterare doveri. Anche solo per un po’, persino solo per un attimo fugace, ne sarà valsa la pena.