L’ 11 luglio 2021 un razzo di proprietà del miliardario britannico Richard Branson è decollato per un viaggio suborbitale. Il veicolo, progettato dall’azienda Virgin Galactic, trasportava lo stesso Branson e altri due passeggeri. Branson è stato il primo tra i nuovi pionieri del turismo spaziale a salire a bordo di uno dei suoi stessi veicoli e provare l’esperienza che si propone di vendere: osservare la Terra dall’alto e sperimentare la microgravità.
Pochi giorni dopo, il 20 luglio, è stato il turno di Jeff Bezos, a bordo del New Shepherd, un’astronave della Blue Origin, azienda spaziale di proprietà dell’ex CEO di Amazon. “Best day ever!” ha esclamato Bezos a conclusione del volo, durato poco più di dieci minuti.
Il turismo spaziale, il servizio che sia Blue Origin che Virgin Galactic hanno in programma di offrire a clienti paganti nel prossimo futuro, farà sperimentare a persone comuni – quindi non dotate di un addestramento come astronauti – la microgravità e la visione mozzafiato del nostro pianeta dallo spazio. Nonostante gli slogan dal sapore inclusivo (all are invited along for the ride, tutti sono invitati a farsi un giro, si può leggere sul sito della Virgin Galactic) , sembra chiaro che, almeno nel breve termine, il servizio sarà accessibile solo a un ristrettissima cerchia di super-ricchi.
È iniziata una nuova corsa allo spazio: a fare da protagoniste non sono più superpotenze militari come USA e URSS, ma aziende private multinazionali. Il turismo spaziale non è l’unica arena su cui si disputa la supremazia: dall’internet veloce, all’osservazione della terra, fino all’esplorazione interplanetaria, sono molte le opportunità che l’orbita terrestre e lo spazio profondo offrono per fare affari e mettere in pratica grandi visioni futuristiche. Jeff Bezos, ad esempio, è convinto di avere una soluzione a breve-medio termine alla sovrappopolazione, alla povertà e alla carenza di fonti energetiche sostenibili sulla Terra: trasferire l’umanità in colonie spaziali artificiali.
Oltre a Bezos e Branson, un altro protagonista della nuova space race è Elon Musk. La mira principale di Musk è quella di rendere l’umanità una specie non limitata a un singolo pianeta: creare cioè una civiltà multi-planetaria. “È passato ormai quasi mezzo secolo dall’ultima volta che gli esseri umani sono stati sulla Luna. È troppo tempo, dobbiamo tornare lì e avere una base permanente sulla Luna (…) E poi costruire una città su Marte per diventare una civiltà spaziale, una specie presente su più pianeti” ha dichiarato il fondatore di Space X.
È iniziata una nuova corsa allo spazio: a fare da protagoniste non sono più superpotenze militari come USA e URSS, ma aziende private multinazionali.
Il veicolo progettato dalla compagnia per trasportare gli umani sul pianeta rosso si porta il nome di Starship. Musk ha anche dichiarato che per il programma marziano saranno necessari circa cinque miliardi di dollari. Al momento, nonostante non sia stato rivelato quanto speso per i prototipi e i test di Starship, SpaceX ha una valutazione di circa 74 miliardi di dollari sul mercato. Nel 2020 Musk si è detto quasi certo che gli umani atterreranno su Marte entro il 2026. Al di là di quanto sia plausibile questa previsione, è chiaro che i multimiliardari del tech stanno portando avanti una narrazione precisa dell’umanità e del suo rapporto con lo spazio: una prospettiva futura che affonda le sue radici ben saldamente nel presente del nostro pianeta.
La nuova frontiera del capitalismo tecnologico
Lo spazio desta grande interesse nel mondo dell’imprenditoria high-tech ed è considerato una nuova frontiera di business. Per capire il potenziale valore generato dall’esplorazione spaziale, però, è necessario distinguere tra i sogni più o meno megalomani di Musk e Bezos e l’attuale configurazione dei mercati.
Il primo aspetto su cui soffermarsi è il modello di ricavi: né Blue Origin né Space X hanno inventato modi particolarmente originali di fare soldi con le tecnologie spaziali, ma basano la loro sostenibilità economica essenzialmente su accordi commerciali con agenzie pubbliche e militari. Alcuni esempi recenti: il contratto da 149 milioni di dollari vinto da Musk con il Dipartimento della Difesa statunitense per la costruzione di satelliti per il missile tracking oppure i 900 milioni ottenuti da parte della Federal Communication Commission per la messa in orbita dei satelliti Starlink. La base materiale dell’impresa spaziale moderna appare piuttosto semplice: le aziende utilizzano soldi pubblici e sviluppano di tecnologie militari.
La base materiale dell’impresa spaziale moderna appare piuttosto semplice: le aziende utilizzano soldi pubblici e sviluppano di tecnologie militari.
Paris Marx su Jacobin definisce le fantasticherie dei miliardari nello spazio come “stratagemmi di marketing” atti a coprire la pioggia di contributi statali che finanziano queste attività. Tuttavia, nonostante vi sia certamente una componente di hype commerciale associata alle dichiarazioni sulle colonie marziane, esse si portano dietro anche una concezione simbolica. Le grandi visioni di Musk sulla specie interplanetaria, i progetti di Branson sul turismo spaziale, quello di Bezos sulle colonie orbitali fanno parte, più che di un vero progetto di business, di una costruzione simbolica dello spazio per l’Occidente. Come era avvenuto durante la Guerra Fredda, lo spazio è un campo di fabbricazione e sperimentazione di grandi narrazioni per l’umanità.
La crescita infinita
Una prima cifra simbolica, sottesa sia alla grand vision di Musk sulla “specie interplanetaria” sia al progetto di Bezos sulle colonie in orbita, è quello della necessità di fuga dal pianeta Terra, ormai irrimediabilmente danneggiato. Il dogma della crescita infinita su un pianeta dalle risorse limitate è ormai messo in crisi da più lati. I tecno-utopisti hanno sempre affermato che, grazie alla tecnologia e all’economia immateriale, fosse possibile separare la crescita infinita dalle risorse infinite. Una volta smentita con evidenze schiaccianti questa teoria, non è rimasto altro che puntare a all’espansione verso un luogo con disponibilità di risorse potenzialmente illimitata. Il capitalismo tecnologico, invece di puntare sulla possibilità di rendere il nostro mondo più vivibile – una scommessa che evidentemente pare troppo difficile o che, realisticamente, è in diretto contrasto con gli interessi degli stessi tecno-capitalisti– ora si libra verso il sistema solare.
“L’ansia che proviamo non è una novità. La scelta tra affrontare le nostre paure e fuggire da esse è sempre stata una scelta profonda. È esattamente la scelta che stiamo affrontando ora. Mentre il roll-out dei vaccini porta uno spiraglio di luce alla fine di COVID-19, la tentazione di precipitarsi alla fuga è enorme” osserva Tim Jackson su The Conversation legando la corsa allo spazio a una forma di escapismo.
Il fascino della fuga dalla Terra, sempre meno abitabile, è di certo presente nella rappresentazione della nuova corsa allo spazio. Funge però anche da alibi: se abbiamo a disposizione spazio infinito, risorse e pianeti di scorta, non c’è bisogno di cambiare il nostro sistema economico e la nostra scala di valori nella governance globale.
Il fascino della fuga dalla Terra, sempre meno abitabile, funge anche da alibi.
È inoltre interessante notare come siano le persone che direttamente beneficiano delle diseguaglianze crescenti e dello sfruttamento ad libitum delle risorse naturali, a raccontare la storia che l’umanità sia interamente vittima delle stesse dinamiche climatiche, sociali e politiche e che sia quindi destinata ad abbandonare in blocco la Terra. Da questa narrazione traspare quello che Angela Balzano ha definito l’ipocrisia della pan-umanità: “la natura ipocrita di (…) una precipitosa ricomposizione di un legame pan umano basato sul rischio dell’estinzione” (dall’introduzione a Materialismo radicale di Rosi Braidotti). Scappiamo su Marte, ci dice Musk, siamo tutti uniti da un unico destino, sia nel rischio di scomparire che nella gloria della nuova frontiera. Tuttavia, il discorso posto in questi termini lascia da parte il fatto che sulla Terra esistono ben precisi rapporti di potere. Musk non si trova certo dalla stessa parte della barricata di chi vive gli effetti della devastazione ambientale sulla propria pelle.
Il nodo sta nella logica di accumulazione capitalista che sottende le visioni dello spazio dei miliardari. L’illusione della crescita infinita, ma anche l’ideologia coloniale: l’idea che, qualunque cosa vi sia al di là di una fantomatica frontiera appartenga all’uomo – l’uomo bianco occidentale – e che sia solo questione di tempo prima che venga trasformata in risorse da sfruttare, spazi da militarizzare, territori ed esseri viventi da cui estrarre valore. Siamo di fronte a un meccanismo di privatizzazione di ambiti che, quasi per loro stessa natura, sono difficilmente considerabili come proprietà: lo spazio interplanetario, la superficie di altri pianeti. Assistiamo anche a una privatizzazione delle visioni del futuro: per sopravvivere, dovremo affidarci a Blue Origin e Space X?
Oltre la frontiera
Possono esistere visioni e concezioni dello spazio che vadano oltre il militarismo e la privatizzazione? Può esistere, in breve, un’etica dell’esplorazione spaziale che tenga conto delle responsabilità umane nei confronti dell’ambiente extraterrestre, che consideri lo spazio, almeno quello vicino all’orbita terrestre, un bene comune di tutta l’umanità?
Storicamente abbiamo vissuto lo spazio come terreno di scontro tra grandi potenze o come risorsa commerciale da sfruttare. Possiamo elaborare una politica dello spazio come common good? Molti degli strumenti legislativi risalenti all’epoca della Guerra Fredda puntano già in questa direzione. Il primo e principale trattato internazionale che regola i rapporti tra nazioni nello spazio risale al 1967, il Trattato sulle norme per l’esplorazione e l’utilizzazione, da parte degli Stati, dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, nel primo articolo, afferma che “l’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, devono essere condotte per il bene e nell’interesse di tutti i Paesi, senza riguardo alcuno al livello del loro sviluppo economico o scientifico. Esse sono una prerogativa dell’intero genere umano”. La storia della legislazione spaziale è molto più complicata e articolata di questo primo articolo, e le linee lungo cui si è sviluppata sono diverse e spesso divergenti a seconda di aree geografiche e momenti storici. Ma l’idea dello spazio come bene comune non è nuova nel diritto internazionale.
L’idea dello spazio come bene comune non è nuova nel diritto internazionale.
Il rapporto tra cambiamento climatico ed esplorazione spaziale è un altro snodo delicato. Da un lato, non è difficile fare un confronto diretto tra l’entusiasmo suscitato dalle esplorazioni futuristiche dello spazio e il disinteresse degli ultra-miliardari (ma anche di una buona fetta di popolazione) per la vivibilità sul pianeta Terra. Sorge quindi spontaneo chiedersi quale sia l’utilità di lanciare sonde su Marte quando la sopravvivenza della nostra e di molte altre specie del nostro pianeta è a rischio. Non si tratta di una domanda ingiustificata né retorica: forse dovremmo occuparci di casa nostra, prima di ampliare lo sguardo oltre le stelle. Cosa ci dovrebbe importare della gara machista tra Bezos, Musk e Branson per il nuovo business spaziale quando quest’anno le temperature in Siberia hanno raggiunto livelli record, superando i trenta gradi?
Può lo spazio offrire un terreno di sperimentazione politica di un common good, che si applichi anche all’ambiente terrestre, superando quindi la dicotomia esplorazione spaziale/lotta ai cambiamenti climatici? La cooperazione scientifica a trazione pubblica, la smilitarizzazione e la gestione comune del traffico e dei detriti spaziali, potrebbero fungere da contraltare e cartina di tornasole per iniziative politiche sulla Terra. Potrebbe dunque sorgere una sinergia e un feedback positivo tra common good spaziale e pratiche collettive terrestri per la lotta al cambiamento e per la sopravvivenza della specie.
Ovviamente, anche una visione del genere presenta i suoi problemi: dalla redistribuzione della conoscenza e dei benefici derivanti dalle esplorazioni spaziali a tutti i cittadini terrestri, alla trazione che il mondo Occidentale ha avuto tradizionalmente nella governance spaziale, quindi alla gestione dei rapporti geopolitici. Abbiamo inoltre già notato che la visione dell’umanità come ente unitario e con un un’unica storia e destino non tiene conto di circostanze storiche e strutture di diseguaglianza. Il valore simbolico della narrazione dei miliardari sullo spazio è intrinsecamente connesso ai ricavi enormi che derivano da partenariati pubblico-privati in ambito militare. Lo spazio è quindi un immaginario, un luogo non solo fisico ma culturale, intensamente colonizzato, da diversi decenni, da fantasie e visioni imperialiste e capitaliste.
Non ci sono risposte univoche o formule salvifiche. Ma una cosa è certa: finché resteremo ancorati all’idea di accumulazione infinita delle risorse e sfruttamento senza limiti non saremo nemmeno in grado di rappresentare, raccontare e governare lo spazio e le sue tecnologie in un senso nuovo e condiviso. Finché esisteranno corse alla colonizzazione di Marte da parte di miliardari con visioni bizzarre e verosimilmente in malafede, non ci sarà nessuna possibilità di opporsi alla privatizzazione e alla militarizzazione, sia sulla terra che in orbita. E non importa quanto ci allontaneremo da casa: l’espansionismo del complesso militare-industriale non troverà mai sbocchi sufficientemente grandi. Non basterà il Sistema Solare.