D urante il primo lockdown causato dalla pandemia, mi sono trovata a stare vicina – seppur virtualmente – a un’amica, coetanea e single da tanto tempo, fortemente destabilizzata dal momento che stavamo vivendo. Quello che maggiormente la angosciava era l’impossibilità di uscire e trasformare gli incontri avviati sui social in occasioni di conoscenza veri e propri. La pandemia, insomma, non aveva fatto altro che acutizzare una sensazione che Linda viveva da tempo: quella del tempo che passa e che condanna alla solitudine, a non avere accanto a sé un uomo e a sentirsi diversa dalle altre amiche, a suo dire “realizzate” perché in coppia.
È indubbio che le relazioni siano profondamente cambiate nel corso degli ultimi quarant’anni. Se penso a mia madre, nata negli anni ’50, realizzo che a venticinque anni era sposata e proprietaria di un negozio e a trentadue anche io, sua secondogenita, ero già al mondo. Oggi, le statistiche ci dicono che in Italia ci si sposa sempre meno, a un’età sempre più avanzata e si divorzia in fretta. Prima di arrivare al matrimonio, uomini e donne si dedicano alla propria realizzazione personale, sperimentano relazioni con partner diversi, provano la convivenza.
Se osserviamo questi cambiamenti in un’ottica di genere, però, ci rendiamo conto che non sono recepiti dalla popolazione maschile e femminile nello stesso modo: per le donne il motto “…e vissero felici e contenti” ha ancora un certo fascino. Più precisamente, invece che di “fascino” dovrei parlare di un mandato culturale. Come sottolineano Cuter e Perona nel loro saggio Le ragazze stanno bene la modalità rispetto a cui è lecito stare in coppia è stata definita nel tempo dalla nostra società in modo decisamente poco vantaggioso per le donne. Affermano le autrici: “la parte femminile della coppia è vista come subordinata al pater familias: nel momento in cui conosceva un uomo, la donna doveva mostrarsi sfuggente, non concedersi, mantenersi casta finché non fosse arrivato quello giusto. Una volta messa alla prova la controparte con mesi di corteggiamento e astinenza si poteva procedere verso il matrimonio”. Certo, si potrà obiettare che ad oggi le cose siano molto diverse: le relazioni appaiono più fluide e i comportamenti sessuali più liberi, e le dating-app sono uno strumento sdoganato sia da uomini che da donne (Marvi Santamaria è la prima ad aver creato, in Italia, “Match and the city”, una community dedicata chi usa questo genere di software, da cui nasce un libro, Tinder & the city, che affronta il tema dell’amore online).
La modalità rispetto a cui è lecito stare in coppia è stata definita nel tempo dalla nostra società in modo decisamente poco vantaggioso per le donne.
Tutto ciò è vero, eppure una chiacchierata con l’amica di cui parlavo, Linda, mi ha persuaso del fatto che questi cambiamenti, per le donne, convivano con un sostrato di sessismo che ancora ci informa di cosa possiamo o non possiamo fare. In seguito alla riapertura avvenuta a maggio, la mia amica è riuscita a incontrare la persona con cui per mesi aveva chattato sui social. Mi racconta di un aperitivo, poi di una cena, sottolineando più volte come in queste occasioni si sia fermata allo scambio di un bacio. Mi dice, però, che qualche giorno dopo “non ha resistito” all’atmosfera che si era creata e sono finiti a letto. In seguito a quel momento, lui è scomparso e lei mi chiama spesso perché si cruccia del fatto che se solo fosse riuscita a tenergli testa, a mantenere alto il livello di curiosità nei suoi confronti, forse non se ne sarebbe andato. “Probabilmente – mi dice – ha perso interesse, magari ha pensato che io fossi una facile”. Questo discorso mi attiva molto e comincio a incalzarla per cercare di capire cosa intenda con quell’espressione. Dalle sue parole è chiaro che alla donna spetti mostrarsi rispettabile, non dare adito a possibili dicerie sul proprio conto. Tutto questo – a suo parere – contribuisce a creare un “gioco” particolarmente stimolante per la controparte maschile, che cerca di ottenere ciò che quella femminile si rifiuta di concedere.
In passato, il controllo della sessualità femminile avveniva in particolare con il mito della verginità, un concetto che si sosteneva sulla falsa credenza secondo cui l’imene, in seguito alla lacerazione causata dalla penetrazione, dovesse necessariamente sanguinare al primo rapporto sessuale. È questo il motivo per cui in molti paesi italiani si esponevano al balcone le lenzuola usate dalla coppia la prima notte di nozze, a riprova della virtù della moglie. Anche se oggi, per fortuna, questa pratica è passata di moda (e siamo arrivati a capire qualcosa di più in merito all’anatomia femminile, per cui sappiamo che l’imene può lacerarsi per i più svariati motivi, inclusi visite ginecologiche e attività sportiva), il collegamento tra genere femminile e virtù resta forte. Il lenzuolo che si esponeva in passato e il tentativo di non cedere fatto dalla mia amica Linda e da tante altre donne che si saranno ritrovate in questa descrizione risponde, in realtà, alla stessa esigenza: dimostrare di saper resistere alle tentazioni, di essere una brava ragazza.
Nonostante l’innegabile libertà, dunque, la vita sessuale delle donne risulta ancora compromessa da molti stereotipi che contribuiscono a definirla, sovraccaricandola di aspettative che la rendono più simile a un performance che a un atto spontaneo. È interessante in questo senso osservare il mito della prima volta: quando lavoravo all’interno del Centro Antiviolenza della mia città e svolgevo, insieme alle colleghe, numerosi incontri nelle scuole superiori per fare prevenzione sui i temi dell’educazione all’affettività, i ragazzi/e ci riempivano di domande proprio su questo argomento. Le curiosità venivano affidate a dei bigliettini che, in modo anonimo, leggevamo noi formatrici a voce alta: quasi tutte le ragazze chiedevano consigli per capire se lui fosse davvero quello giusto con cui fare il grande passo.
“Alle donne – continuano Cuter e Perona – viene raccontata la favola della prima volta e del sesso perfetto solo se accompagnato all’amore”, eppure sappiamo che si tratta di un evento non sempre così piacevole e romantico. Gli stereotipi attorno a questo momento danneggiano entrambe le parti poiché comunicano ai maschi la necessità di non fallire, di mostrarsi competenti e navigati (ed è molto difficile essere preparati quando fai una cosa per la prima volta), mentre alle femmine trasmettono l’idea secondo cui la prima volta sarà necessariamente un momento magico, coronamento simbolico del grande amore. Sembra che, nonostante i cambiamenti in corso, la sessualità femminile sia esprimibile solo se contenuta all’interno del concetto di amore, sempre inteso in senso eteronormativo.
L’ideale di amore romantico che domina in particolare la vita delle donne, secondo Anthony Giddens, viene a costituirsi solo alla fine del Settecento.
Eppure, così come la sessualità delle donne è indubbiamente cambiata nel momento in cui si è potuta affrancare dal mandato riproduttivo, allo stesso modo anche il concetto di amore ha subito delle modifiche. L’ideale di amore romantico che domina in particolare la vita delle donne, secondo Anthony Giddens, viene a costituirsi solo a partire dalla fine del Settecento. Tale concetto risulta distinto da quello che il sociologo definisce l’amour passion, “espressione di un collegamento tra amore e coinvolgimento sessuale”. Secondo l’autore questo sentimento “è contrassegnato da un bisogno pressante che lo distingue dalla routine della vita quotidiana, e sradica l’individuo dal mondo terreno”. Dal punto di vista delle responsabilità e dell’ordine sociale, dunque, questo sentimento risulta distruttivo poiché la passione che lo domina può travolgere tutto, da un momento all’altro. L’amore romantico, al contrario, nasce in contemporanea al romanzo moderno e, non a caso, inserisce al suo interno in concetto di riflessività. “L’amore romantico – ci dice Giddens – ha introdotto l’idea del racconto all’interno della vita dell’individuo (…) che risulta fortemente individualizzato, integrando ‘l’io’ e ‘l’altro’ in una narrazione privata”. La forza dell’amore romantico è proprio nella narrazione di una storia che coinvolge gli amanti sopra ogni altra cosa: è il concetto di virtù che consente al partner di scegliere la compagna (o viceversa), identificandola come speciale. A differenza dell’altro, dominato dalla passione, questo tipo di amore è stabile e per tale motivo costituisce una base solida su cui definire le relazioni familiari e gli accordi economici ad esse sottesi.
Questa concezione di amore, secondo Giddens, determina in particolare alcuni risvolti che influiscono enormemente nella vita delle donne. Il più importante è la definizione dell’immagine femminile come sposa e madre: ad essa spetta il compito della cura dei figli e dell’amore stesso. Tra i suoi ruoli vi è quello di farsi carico dei sentimenti del nucleo familiare perché ciò pertiene alla sua sfera di influenza. L’amore romantico getta le basi per il mito delle sfere separate che, come ricorda anche Soraya Chemaly, è alla base del sessismo benevolo poiché fa credere che gli ambiti di influenza maschili e femminili siano per natura separati, sebbene paritari. L’uguaglianza, invece, è solo formale, poiché la sfera di competenza femminile è in realtà subalterna a quella maschile.
Come osserva Eva Illouz, gli uomini trasferiscono proprio sulla sessualità l’espressione di quello status che in passato erano liberi di esercitare sia in ambito familiare (in cui potevano gestire i “doveri coniugali” parallelamente a una vita sessuale fuori dal matrimonio) e lavorativo (che garantiva loro libertà e indipendenza economica, diversamente dalle loro mogli costrette a casa a badare ai figli). Nel corso del tempo, il progresso e l’autonomia economica raggiunta dalle donne li porta a cercare nuovi ambiti all’interno dei quali esprimere la propria superiorità. Dimostrare autonomia e distacco – quindi indipendenza – nelle relazioni emotive diventa l’emblema della nuova maschilità che si discosta così, ancora una volta, da quella femminile, che invece, a causa delle concezioni precedenti, resta legata a un ideale di dipendenza e reciprocità.
Questa dinamica rafforza lo stereotipo, ancora oggi ben radicato, secondo cui il massimo della realizzazione femminile sia stare in coppia con un uomo e contribuisce a far credere che le donne siano meno interessate al sesso o ai rapporti occasionali rispetto alla controparte maschile. Nel XIX secolo è stato Freud ad aver dato una spinta alla definizione della sessualità femminile attraverso le sue teorie psicoanalitiche. Lo studioso viennese teorizza l’evoluzione sessuale e psicologica delle donne distinguendo quella normale da quella patologica. Per Freud, in seguito ad un momento di “bisessualità comune” – in cui la femmina, analogamente al maschio, ricerca attivamente la soddisfazione del piacere mediante la clitoride – la bambina scopre la castrazione, sperimentando la differenza con l’altro sesso e l’invidia del pene. È qui il punto di svolta decisivo per la sua sessualità: la bambina abbandona la spinta alle pulsioni sessuali attive e muta il padre nell’oggetto del suo amore. Il processo di crescita sana si conclude quando il desiderio del pene viene sublimato nel desiderio di maternità.
Questa dinamica rafforza lo stereotipo secondo cui il massimo della realizzazione femminile sia stare in coppia con un uomo, e contribuisce a far credere che le donne siano meno interessate al sesso o ai rapporti occasionali rispetto alla controparte maschile.
Ci sono voluti quasi due secoli per arrivare a ribaltare le ipotesi freudiane. Negli anni ’70, Anne Koedt in America e Carla Lonzi in Italia aprono la strada ad una nuova visione della sessualità femminile, il cui scopo non è esclusivamente la procreazione, e distinguono l’orgasmo vaginale da quello clitorideo. Mentre il primo è legato al piacere maschile, il secondo appare agli occhi degli uomini come qualcosa di minaccioso, perché le donne lo possono raggiungere anche senza la loro presenza. Oggi sappiamo che, per quanto concerne il piacere sessuale, non ci sono grandi differenze tra quello femminile quello maschile, seppur l’apparato fisiologico delle donne appaia più complesso nelle funzioni e nei meccanismi.
Oggi, la riflessione attorno al tema dell’autoerotismo e della sessualità (intesa in senso ampio) è decisamente cambiata. Come dimostra un’indagine condotta da Eurispes nel 2018, la maggioranza dei/le giovani praticano la masturbazione considerandola un elemento normale della vita sessuale. La pornografia, a lungo appannaggio della popolazione maschile, appare oggi come un ambito di interessi variegato in grado di accogliere anche tutto ciò che non è mainstream (penso, ad esempio, al porno di Erika Lust o al post-pornografia). La consapevolezza sessuale femminile passa attraverso la liberazione del discorso intorno alla sessualità. In questo senso, le numerose pagine e i tanti attivisti/e che, sui social, fanno informazione e divulgazione attorno al benessere sessuale (non inteso in senso eteronormativo), le nuove proposte editoriali (un caso interessante è Frisson Mag), le community nate per parlare e discutere di sex toys e di pratiche sessuali stanno contribuendo a creare, un passo dopo l’altro, una società più accogliente rispetto al piacere femminile e aperta a nuovi approcci sessuali non imbrigliati nelle maglie dell’eteronormatività.