S ono trascorse più di due settimane ormai da quando SpaceX, l’azienda aerospaziale di Elon Musk, ha dimostrato che il razzo più potente sulla Terra, Falcon Heavy, funziona. Per chiunque abbia avuto occasione di seguire il lancio è stato uno di quei momenti che diventano, istantaneamente, ricordo; memorie processate a ritmi pre-razionali. C’erano davvero poche immagini razionali infatti nelle riprese del lancio, dal palazzo di settanta metri che si sollevava da terra bruciando enormi pilastri d’aria alla coreografia dei due primi stadi, atterrati quasi contemporaneamente a poche centinaia di metri. Ma l’immagine meno razionale di tutte, ovviamente, è l’immagine che vi ha introdotti a questo articolo.
Perché per testare l’affidabilità del razzo, è stato portato in orbita un carico atipico, una Tesla Roadster guidata dal fantoccio di un’astronauta. In questo momento, si fa per dire, scivola nello spazio una decapottabile dritta verso l’orbita di Marte – anche se, per una lieve imprecisione, l’automobile si è posizionata su un’orbita imprevista, molto più larga.
Certo, non è la prima volta che lasciamo scivolare qualcosa nello spazio. Forse più di sonde e telescopi nel vuoto, una delle storie più evocative della nostra corsa al nulla è quella del Voyager Golden Record, un disco che racchiude il tentativo simbolico di comunicare con delle forme di intelligenza aliena. Oltre a essere una storia d’amore imbattile, l’utopia di un linguaggio universale progettato da una pensosissima truppa di intellettuali, anche se vana, rimane qualcosa di prezioso. Il Voyager Golden Record è un tentativo commovente di contatto tra Terrestre e Altro da sé; cosa può avere in comune con il volo di una spider rosso ciliegia spedita da un industriale dotato di facoltà intellettive anomale?
Niente. Nessun sussurro tra le stelle, non esiste più un noi. Più di due anni fa Elon Musk mi aveva strappato qualche mese di letture, appunti, conclusi in una ricerca che aveva prosciugato qualsiasi mio interesse nei confronti delle sue conquiste. Certo ho continuato a leggere delle sue imprese, in entrambi i sensi, ma passivamente, imboccato dai media italiani e non: e come sempre, quando vedo realizzarsi i sogni di Musk, non mi chiedo (solo) come, mi chiedo (soprattutto) perché? E qual è la magnitudo dell’impatto Musk sulla psiche collettiva?
In questo momento, scivola nello spazio una decapottabile dritta verso l’orbita di Marte – anche se, per una lieve imprecisione, l’automobile si è posizionata su un’orbita imprevista, molto più larga.
C’è un’attività in cui siamo sicuramente più riusciti di Musk: la noia. Chiedendomi ossessivamente cosa spinge Musk a lavorare diciannove ore al giorno per 365 giorni spesso sono stato distratto dalle risposte di default. “Lo fa per accelerare l’avvento dell’energia sostenibile a livello globale”: vero, e ce la sta facendo, ma chi segue Musk sa che non stiamo parlando di un ambientalista: non gli basta. “Lo fa per denaro”, allora: ovvio, ma del denaro – per sé – Musk non se ne fa niente. La risposta forse è nascosta nell’ambiguità del nome della sua ultima azienda, quella dei tunnel, lo stesso aggettivo utilizzato da Musk per giustificare come carico del suo razzo la sua Roadster ciliegia, e non un qualsiasi altro carico di prova: l’alternativa sarebbe stata boring, noiosa.
Non riesco a ignorare il vincolo tra la forza attrattiva della saga Musk e il Senso della Fine che impregna l’aria di molte produzioni culturali degli ultimi anni, produzioni culturali che a loro volta nascono da e incidono sulla dialettica politica post-2008. L’apocalisse è dappertutto: dai trailer cinematografici, che giocano con la parola come un bimbo che impara a parlare, alla musica pop allo slang – da anni, quando sento coniugare un verbo all’infinito seguito da “come se non ci fosse un domani”, mi fanno male le articolazioni.
Apocalisse però significa Rivelazione: il problema dell’immaginario apocalittico contemporaneo è presentarsi come svuotato di qualsiasi tensione etica. Non insegna, non rivela. Non solo: l’abuso di immaginario apocalittico scava la crepa tra individuo e collettivo; è un abuso capace di innescare una “patologia della depressione sul piano individuale [e] generare la sensazione della ‘fine della storia teleologica’ nella percezione culturale e collettiva del tempo” (Accelerazione e alienazione, Hartmut Rosa). Su questo fondale dissacrato, infestato da uno spettro senza nome, Musk sta catalizzando l’energia di milioni di esseri umani. E dall’energia arriva il denaro.
La proiezione del miraggio
Viviamo tra rovine che puntelliamo ormai da anni. Sono del 1999 queste osservazioni di Enzensbeger, tratte dal suo La pasta sfoglia del tempo, primo saggio di Zig zag (Einaudi):
Mentre le vecchie avanguardie politiche e artistiche si sono ormai congedate, gli avventisti della tecnica, del tutto indifferenti di fronte alle catastrofi del XX secolo, si lasciano andare senza alcun ritegno ai loro sogni utopistici. […] Tuttavia i fondamentalisti della modernità non sono soli al mondo. Lontano da queste sette radicali si diffonde un senso di disagio. Non solo i perdenti nella sfida del progresso, ma anche i più accorti fra i funzionari del mondo economico guardano al processo della globalizzazione tecnica con sentimenti a dir poco contrastanti.
Impossibile sfuggire dallo spaesamento, se i nostri progetti poggiano sull’equivoco fondante della modernità, quell’idea per cui “un’epoca succeda a un’altra sostituendosi a essa, per poi, come su una catena di montaggio, far posto quanto prima a quella successiva”. Ecco, ricorrendo a questo filtro, o trappola cognitiva, l’Occidente interpreta la realtà dei fenomeni, e scriverlo non è niente di nuovo. Sempre attraverso questo filtro, però, il racconto di un Futuro che sfugge alle nostre capacità predittive diventa l’arma più persuasiva. Nonostante il futuro sia confinato alla pura confabulazione infatti, affidiamo ognuna delle nostre giornate a un’orbita di possibilità inverificabili. Ripeto, niente di nuovo: dov’è finita allora la nostra capacità di partecipare alla proiezione di questo miraggio – senza ridursi a esserne puri fruitori?
In una certa misura, l’Ideologia, anche quella più retrograda e passatista, è un insieme di istruzioni per l’uso del futuro: un insieme di istruzioni espresso da un organismo collettivo. Ogni successo di Elon Musk, invece, rafforza l’egemonia della sua ideologia. Non è un discorso divertente, e da innamorato dell’esplorazione spaziale, della scoperta, dell’esercizio intellettuale, fatico a metabolizzarlo. La narrazione del futuro però non può essere messa nelle mani di un solo imprenditore, ed è sano esprimere delle riserve senza cedere a, o essere tacciati di, impulsi luddisti e antiscientisti.
Musk si muove a piacimento nella quarta dimensione, il tempo, dilatandolo quando ne ha bisogno (arcinoti ormai i suoi continui ritardi), comprimendolo quando è questione di vita o di morte (la sua biografia offre diversi momenti a proposito). Sempre Enzensberger: “al pensiero lineare, tuttavia, non sono legati solo gli spiriti riformatori, irrimediabilmente ottimisti rispetto al futuro, ma anche i loro avversari, che operano utilizzando previsioni speculari. Anche gli apocalittici, infatti, credono a un futuro chiaramente definibile”. E brancolano altrettanto nel buio.
Il buio
Perché Musk ci dovrebbe sollevare dal feticismo della fine? La mission di SpaceX, azienda che supera i 20 miliardi di dollari di valutazione, è andare su Marte per imparare a costruire colonie nello spazio. Il fine ultimo è colonizzare l’universo.
Per quanto la Silicon Valley sia la patria delle auto elettriche e dell’arroganza, stiamo parlando di uno dei partner commerciali più importanti degli Stati Uniti, e di un’azienda che promette di rivoluzionare il nostro utilizzo di internet (ovvero: le nostre vite) grazie a Starlink. Eppure il genio del suo fondatore è proprio questo, farci parlare di Marte, di scoperta, ed è difficile fargliene una colpa.
Anzi, una colpa forse, ce l’ha. Secondo Musk – oltre al divertimento, certo! – dovremmo colonizzare Marte perché stiamo rendendo la Terra invivibile. Eppure, in nessuna delle loro infinite riunioni, nessun sottoposto ha ricordato a Musk che Marte è già invivibile. Viverci sarà possibile, per dodici persone al massimo, entro il 2030 (il mio metodo è prendere le scadenze fissate da Musk, e raddoppiarle: funziona); e sarà una vita più difficile di quella che conduce qualsiasi essere umano in questo momento. Almeno l’ossigeno qui ce l’abbiamo.
La mission di SpaceX è andare su Marte per imparare a costruire colonie nello spazio.
Insomma, in questa idea di scialuppa di salvataggio da un pianeta in rovina non riesco a ignorare delle premesse malthusiane. Thomas Malthus (1766 – 1834), economista e demografo, ha marcato la storia del pensiero economico con un’idea molto semplice: priva di freni che ne rallentino lo sviluppo, la popolazione umana tende a crescere più rapidamente dei mezzi che possono sostenerla. Idea semplice, e sbagliata. Sconfessato da più di due secoli, il malthusianismo striscia ancora nei centri di potere, e nella nostra psiche.
Malthus ha collegato definitivamente la Catastrofe alla Scarsità, un fenomeno che però presenta una complessità maggiore rispetto alle nostre capacità predittive. Di nuovo, un tentativo di manipolare il futuro, autoavverandolo. La paura è il più potente dispositivo retorico, soprattutto nelle bocche di una classe dirigente sempre meno alfabetizzata e lucida: la Scarsità è la sua ancella, percepita o reale – insieme le due possono terrorizzare anche il popolo più bonario. Il malthusianismo ovviamente fiorisce nella pazza acropoli della Silicon Valley, dove l’élite progetta uscite di emergenza Premium, bunker superaccessoriati in cui nascondersi dallo stato di natura, la presunta guerra di tutti contro tutti. Per quanto stucchevole la ricorsività del mito, l’Arca di Noè di preppers e survivalisti risponde a una logica di mercato, e non è da oggi che la Sopravvivenza è vincolata da interessi economici.
Dobbiamo lavorare sulla nostra capacità di distinguere il segnale dal rumore. Raccontando storie abbiamo cambiato il pianeta, ogni giorno, per millenni: ci sono storie costruttive, e altre distorte da scopi coercitivi e repressivi, dove la Sopravvivenza si presenta come un valore neutro, slegato dalla morale. E alla storia di Musk, immagino ormai si sia capito, manca ancora un finale.
Errata corrige: la versione precedente dell’articolo dichiarava SpaceX “una delle sette aziende al mondo che superano i 20 miliardi di dollari di valutazione”.