D omenica mattina, un cielo senza volto sopra Brooklyn Heights, vado in cerca di una fetta di torta e un caffè. Esco dall’appartamento e in fondo all’angusta scalinata della palazzina a due piani mi aspetta Dave: un ometto anziano e sgualcito, il naso tuberiforme e il colorito del legno bruciato. “This thing is coughing” mi dice a un volume da sordità, il timbro nasale e l’accento del Sud che pesta sopra le sillabe. Dis TIN’ iz cafFIN’. A “tossire” è il calorifero del minuscolo androne ma è l’intero edificio ad accusare il problema. La notte si fatica a prendere sonno per il fischio strangolato dei “radiators”. “Dis TIN’ iz BANGin’!!! SomeONE has to FIX it!!!”.
Qualcuno deve sistemarlo.
Ci deve sempre essere qualcuno capace di sistemare le cose quando si rompono. I caloriferi o un Paese.
Il fantasma di Trump aleggia sopra Brooklyn. Si manifesta nelle conversazioni da bar, appare nei menù di una caffetteria in cui hanno aggiunto “Trumpism” ai problemi di salute che una centrifuga può tenere lontano, esplode in un graffito sopra un orinatoio: “I liberali dovrebbero comprare delle armi e uccidere tutti i trumpiani”.
La paranoia è il “sale dell’America” diceva uno scrittore e da quando Trump è in carica sembra sfuggita la mano a chi prepara il dressing.
Montero è un vecchio bar al confine tra Heights e Cobble Hill: oggi ha quel fascino di autentico che attrae i gentrificatori come il polline con le api ma un tempo lo frequentavano solo i pescatori e i lavoratori del porto. Tipi come Mike: un siculo-americano sulla sessantina, sdentato, scavato e con occhi azzurri da normanno così siciliani. Mi chiede se sto bene appena esco dal locale e si scusa più volte di non parlare italiano. Mentre fumiamo mi domanda se – in quanto italiano verace – sono anche cattolico praticante. Ci resta male quando rispondo “No, I’m really sorry” e gli spiego come la questione ecclesiastica da noi sia un po’ più complessa che altrove. Capisce, non capisce e poi esclama ubriaco: “Here it’s heritage!”. Un patrimonio tramandato per generazioni: da quando il nonno di suo nonno ha lasciato Siracusa per sciogliere le sue radici nel grande “melting pot” – come lo chiama lui – americano. Mi chiede cosa penso della città. “Mi pare che quasi tutti abbiano un grande cuore” è la mia risposta. Sfodera un sorriso a dieci denti e quindi aggiunge: “Yeah! But there are also some [una parola che non capisco]. But you don’t mind them”. Gli chiedo di ripetere e alla fine salta fuori che la parola che non capivo non era inglese, era siciliana. Era “stunat’”.
“Stunat’, you know? Stupid people! Stunat’ like Trump!” Ed eccolo, il fantasma.
Rientro, mi siedo al bancone e la proprietaria, una donna di mezz’età carismatica e adorabile, che continua a versarmi ginger ale senza metterlo in conto, mi chiede di aiutarla a pubblicare una story su Instagram salvo pentirsene perché “Oh no, oh no! Ahahah this picture is awful! Please take it out! Take it out!” con un cinguettio insieme alato e profondo, una risata roca da cantante jazz e troppe sigarette. Ogni tanto getto uno sguardo alla tv muta in fondo alla sala: sta passando un TG locale. Fa un effetto strano seguire i micro-fatti – l’inaugurazione di un playground, un incidente che ha coinvolto una volante della NYPD – della città più mostrata e mitizzata dell’Occidente. Un sottopancia dice che le statistiche dei crimini violenti a New York sono in ribasso. È una tendenza in contraddizione con il resto del paese, nonché con le previsioni che si erano fatte circa l’amministrazione morbida di Bill de Blasio, e mi piacerebbe saperne di più. Vorrei chiedere di alzare l’audio ma sta per partire il karaoke. Dopo un paio di canzoni di assestamento è il turno di un tizio che sembra uscito dai Velvet Underground: chiodo, stivaletti, basette e taglio a scodella. Canta Paranoid dei Black Sabbath, un’ottima interpretazione, e quindi butta giù un whiskey tra gli abbracci degli amici che fino a un istante prima lo riprendevano con l’iPhone per farne, immagino, un’altra story su Instagram.
La paranoia è il “sale dell’America” diceva uno scrittore e da quando Trump è in carica sembra sfuggita la mano a chi prepara il dressing. A tenere banco ovunque, al momento, sono il passaggio della Tax Reform e il caso Flynn/Russiagate. La riforma fiscale è la prima grande vittoria legislativa del nuovo presidente che, col consueto morigerato senso del sé, l’ha già definita “straordinaria” mentre i suoi oppositori la considerano di fatto una sentenza di morte per l’equità sociale del Paese. Il Russiagate invece è quello che qui tutti sperano toglierà di mezzo il Presidente. Ovviamente le due cose vanno insieme un po’ in tutti i ragionamenti.
Tom, un video producer che lavora per il TIME, ha una teoria da bispensiero: “E se tutte le dichiarazioni assurde che ha fatto ogni giorno, tutte le cose senza senso che ha twittato da quando è in carica, persino il Russiagate, fossero solo un modo per confondere le acque e preparare il terreno per le cose davvero gravi, tipo questa legge?”. Rebecca, una scrittrice con cui esco, mi confida invece la sua speranza che l’impeachment arrivi abbastanza in fretta da fermare il passaggio in giurisprudenza delle riforme già fatte. Le domando se la cosa sia costituzionalmente possibile e soprattutto se sia pensabile andare a nuove elezioni, visto che il passaggio del potere a Pence di fatto non cambierebbe nulla. “No idea, I hope so”, mi risponde.
Nove anni fa HOPE era la parola del momento riprodotta in migliaia di poster e t-shirt, oggi la si sussurra piano, con un sospiro da cospiratori impotenti, mandando giù un Sauvignon davanti a una candela. Qualcuno ci ride sopra e gioca a fantasticare sui modi più assurdi e soddisfacenti per liberarsi di Trump. Quasi tutti fanno leva sulla megalomania o sulle debolezze del personaggio. Per esempio: “potremmo mandarlo su Marte con un razzo di Musk, dicendogli che lì sarebbe a capo di un intero pianeta” oppure “potremmo dargli una Bibbia rivista apposta per lui e scriverci che la persona Presidente degli Stati Uniti nel 2018 non scoperà mai in Paradiso”.
A Manatthan, da Jones in Great Jones Street – dove con un amico non riusciamo a decidere se, data un’incredibile somiglianza, il tizio al bancone sia o meno il bassista dei Pavement (“si fanno così pochi soldi da leggenda dell’alt rock?”) – passano L’Impero colpisce ancora su una TV minuscola: più un pezzo d’arredamento che uno schermo. Se l’America prevalentemente bianca e rurale delle varie belt regions è l’epicentro dell’Impero – Trumplandia, come è stata chiamata – New York è D’Qar, il pianeta dove si organizza una resistenza che sta ancora cercando il suo Luke Skywalker dopo il tradimento dell’establishment. Per quanto senza molto entusiasmo, un anno fa da queste parti si è votato per Hillary con percentuali sopra il 70% e la rabbia per la sconfitta deve ancora rientrare. Lo si capisce dal crudissimo sarcasmo con cui è stato accolto il memoir della Clinton. Si intitola What Happened, con il nome dell’autrice scritto sotto il titolo, e le battute in merito si sprecano: “l’unico giallo che ti svela il colpevole già in copertina” oppure “farsi una domanda e darsi una risposta”.
Per quanto senza molto entusiasmo, un anno fa a Brooklyn si è votato per Hillary con percentuali sopra il 70% e la rabbia per la sconfitta deve ancora rientrare.
Gli Stati Uniti che per otto anni avevano coltivato un’idea di loro stessi – avevano davvero creduto nella transizione verso una società post-razziale – si sono risvegliati lo scorso novembre nella piazza opposta del letto.
Ta-Nehisi Coates racconta questo capovolgimento in We were eight years in Power – An American Tragedy: una raccolta di saggi in cui l’autore riflette sui risultati ottenuti e le opportunità mancate della Presidenza Obama. Oltre che sul significato, profondo e inquietante, dell’ascesa di Trump per le comunità non bianche d’America. E persino a Brooklyn, specie nelle aree meno battute dalla gentrificazione, i segni delle distanze culturali e socio-economiche tra bianchi e afroamericani sono evidenti ovunque. È una semantica iscritta nella separatezza di abitudini e luoghi di congregazione, nei modi di parlare e vivere per strada, nella fattura dei vestiti, nella postura persino, nello sguardo. La prima è spesso rassegnata e appesantita da un’esistenza in cui, immagino, ogni risultato viene raggiunto con il doppio della fatica in un sistema disegnato per tenerti al “tuo posto”. Il secondo è a volte perso, se non completamente fuori di sé. È lo sguardo degli spacciatori a un angolo di strada non lontano dal mio appartamento: una congrega che si disperde all’alba per radunarsi nuovamente verso il tramonto e riempie ore di noia ascoltando la trap di Desiiigner, il nuovo idolo del borough, da un Bose bluetooth. È lo sguardo di un ragazzo totalmente alterato da qualche sostanza che entra ed esce per tre volte da un Deli mentre faccio una piccola spesa e ogni volta mi chiede, ma in realtà lo sta chiedendo a se stesso, “cosa dovrei fare?”. In generale, intende. È lo sguardo di chi vive in un’epidemia di emarginazione “soft” massiccia e sistematica. È uno sguardo che è causa e conseguenza di statistiche su disoccupazione, aspettativa di vita e criminalità che parlano di due Americhe che non si sa se corrano parallele e separate tra loro o se vengano invece tenute parallele e separate da qualcuno. È uno sguardo che Trump ha scelto di non guardare.
È lo sguardo triste, come questa mattina inespressiva, con cui Dave scruta fuori dal vetro rinforzato della porta della mia palazzina. Lo sguardo di chi spera che arrivi qualcuno capace di sistemare le cose che si sono rotte. I caloriferi o un Paese.