A ssemblare le tessere del mosaico di un viaggio, che segna la sorte di una vita, è un’esperienza potentissima. Forse rappresenta l’unica occasione per sentire prima di capire l’emigrazione. Recarsi in un centro d’accoglienza, scrivendo poi una storia che si appella a pezzi di carta sopravvissuti al deserto e al mare, non risolve probabilmente nulla, ma costringe a entrare senza via d’uscita nell’esistenza degli altri.
Dimmi come va a finire (la nuova frontiera, 96 pagine, traduzione di Monica Pareschi dall’inglese) è il titolo del nuovo libro di Valeria Luiselli, da poco pubblicato in Italia, e corrisponde alla domanda posta dalla figlia della scrittrice messicana di origine italiana alla madre: “E allora, come va a finire la storia di quei bambini?”. Questi ultimi sono i minori migranti non accompagnati che dai paesi dell’America Centrale cercano di varcare la linea di confine nordamericana. La sera a casa Luiselli deve arrendersi a quella domanda legittima, non può evaderla. “Nella terra di nessuno / Niente diritto d’asilo qui / Re Salomone non ha mai vissuto da queste parti”, cantavano The Clash in Straight to Hell. Dal 2006 secondo la stima più attendibile 120.000 migranti transitanti in Messico sono scomparsi lungo le duemila miglia della frontiera statunitense.
La trentaquattrenne autrice cosmopolita, assistente all’Hofstra University e residente ad Harlem, alle prese con le pastoie burocratiche legate al rilascio della sua Green Card, si è avvicinata grazie al suo avvocato all’urgenza di una difesa che assomiglia alla presa della parola e all’ascolto: “Che cos’era l’iscrizione prioritaria a ruolo dei minori? Chi difendeva quei bambini, e chi era ad accusarli? E di quale reato, esattamente?”. Nel marzo del 2015 ha cominciato a lavorare come interprete al Tribunale dell’Immigrazione di New York, rielaborando successivamente le mappe interiori disegnate da viaggi disumani.
Il primo scoglio nel quale è grosso il rischio di incagliarsi consiste nello stabilire l’ordine narrativo delle cose. Il testo segue il percorso complesso di un questionario composto di quaranta domande, che dalle risposte attendono l’opportunità di immaginare una vita migliore. “Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?”, inizia così la traduttrice che si fa interprete, per poi ricostruire e cesellare con la scrittura storie necessariamente frammentate che faticano a dirsi. Agli avvocati Luiselli deve consegnare gli elementi sufficienti per imbastire la difesa in aula dell’innocenza propria dell’infanzia frantumatasi durante l’emigrazione, ed evitare il decreto di espulsione.
Dimmi come va a finire ha una dimensione prettamente politica, è un invito a ripensare la lingua stessa che circonda il fenomeno migratorio. Se le cose si possono comprendere nella propria interezza solo dopo molti anni – sostiene l’autrice di Volti nella folla, Storia dei miei denti, Carte false, pubblicati sempre da la nuova frontiera – quando la storia è in corso l’unica possibilità è raccontarla: “Prima di poter capire qualcosa, ciò va narrato molte volte, con molte parole diverse, da molte angolazioni diverse, da molte menti diverse”.
Secondo la stima più attendibile, dal 2006 sono 120.000 i migranti transitanti in Messico scomparsi lungo le duemila miglia della frontiera statunitense.
Secondo i dati elaborati dall’interessante volume Deportation and Return in a Border-Restricted World, Experiencese in Mexico, El Salvador, Guatemala and Honduras (2016), nel quadriennio 2010-2013 rispetto allo stesso periodo 1995-1999 le espulsioni dagli Stati Uniti di nativi messicani, privi di documenti regolari, sono quasi triplicate, passando da 440.738 a 1.179.877. Nel 2014 il 51% degli immigrati messicani presenti nel paese non aveva i documenti. Dal 2007 al 2012 la presenza di undocumented mexicans è scesa di un milione di persone. Nel biennio 2015-’16 c’è stato un ulteriore calo degli irregolari pari a 5.6 milioni.
Dal 1965 al 2015 più di 16 milioni di messicani sono emigrati negli States. Con il 28% sul totale dei 42 milioni di stranieri presenti restano il gruppo etnico più largo. Tra il 1980 e il 2006 il numero di immigrati è cresciuto impetuosamente da due milioni di persone a quasi dodici. La Grande recessione, datata 2007-2009, ha sostanzialmente arrestato il movimento. Negli ultimi otto anni la crescita è stata bloccata, a causa del crollo delle opportunità lavorative e dell’esponenziale militarizzazione del confine. Per dare una misura economica dell’emigrazione, nel 2014 gli 11.714.500 milioni di messicani espatriati producevano rimesse del valore di 24 miliardi di dollari, pari al 2% del Pil del paese di nascita.
Dal 2005 la somma complessiva dei provvedimenti di allontanamento riguarda per il 90% cittadini provenienti da Messico, El Salvador, Guatemala e Honduras. Il 73% dei migranti undocument sono partiti da questi ultimi tre paesi, i minori soprattutto in fuga dalla violenza delle bande criminali, ma i messicani restano i più attenzionati. Manu, raffigurato da Luiselli, ha un solo documento superstite del viaggio, il foglio della denuncia, inascoltata dalla polizia, della banda che lo perseguitava fino a eliminare il suo migliore amico. Tra il 2009 e il 2014 appare significativa la percentuale del 93% dei rimpatri di minori under 14 messicani da parte della polizia di frontiera senza la necessità di dibattimento. La procedura si chiama paradossalmente ritorno volontario e fa riferimento al Trafficking Victims Protection Reauthorization Act firmato nel 2008 da Bush.
L’ex presidente Obama, durante la cui amministrazione sono state espulse due milioni di persone senza documenti in regola, nel 2012 ha introdotto una forma di tutela con alcuni requisiti, che in cinque anni di attività ha garantito permessi di lavoro temporanei di durata biennale a 800.000 giovani giunti irregolarmente come minorenni, dei quali 548.000 messicani, rilasciando 40.000 Green Card. Attualmente 690.000 giovani, con un’età media di 24 anni, denominati “Dreamers” e nella media altamente scolarizzati, godono del Deferred Action for Childhood Arrivals programma messo in discussione a settembre da Trump, poi bloccato dal governo statunitense, che ha chiesto al Congresso una diversa iniziativa legislativa sulla materia.
La scorsa settimana il DACA è stato al centro dell’agenda politica americana con riflessi mondiali. Nella battaglia legislativa fra repubblicani e democratici, che si protrae da quattro mesi, dopo il primo incontro con i negoziatori alla Casa Bianca martedì, Trump ha elevato la pressione dialettica e alzato la posta, pretendendo un passo in avanti sull’estensione del muro alla frontiera messicana. Secondo ricostruzioni giornalistiche convergenti, giovedì le parti in trattativa avevano raggiunto un accordo di massima da presentare al presidente nello studio ovale. L’ipotesi di intesa allocava tre miliardi di dollari per il rafforzamento della sorveglianza dei confini e manteneva la protezione per i Dreamers, offrendola temporaneamente anche ai genitori. Nell’occasione Trump ha contraddetto le aperture mostrate martedì, scatenando la tempesta perfetta con l’esternazione attribuitagli dai parlamentari presenti e riportata dal Washington Post: “Perché gli Stati Uniti devono continuare ad accogliere questa gente da questi cessi di Paesi?”.
Nel primo anno della presidenza Trump, il sistema giudiziario è stato il principale argine all’attuazione legislativa dei suoi propositi politici sull’immigrazione.
La questione per ora è determinata dall’intervento del giudice William Alsup della Corte Federale di San Francisco. Il pronunciamento del giudice in California ha ingiunto all’amministrazione Trump di riattivare il programma su base nazionale, almeno fino a quando le varie cause avviate non saranno risolte. Alsup, designato all’epoca di Bill Clinton, ha sostenuto, facendo riferimento esplicito alle dichiarazioni del presidente durante la campagna elettorale, che la chiusura del DACA sia tra l’altro motivata dal razzismo e da “intenti discriminatori” nei confronti dei messicani e dei centroamericani in generale. Sabato è arrivato infine il dietrofront della Casa Bianca che, assecondando le indicazioni di Alsup, consentirà con effetto immediato ai beneficiari di rinnovare il DACA, ostaggio di una partita e di un compromesso più ampi sull’immigrazione, mentre permane l’impossibilità a formulare nuove domande. Nel primo anno della presidenza Trump, il sistema giudiziario è stato il principale argine all’attuazione legislativa dei suoi propositi politici sull’immigrazione.
Nel mese di agosto, 2017, uno studio del CATO Institute ha stimato in oltre duecento miliardi di dollari nell’arco del prossimo decennio l’impatto economico e fiscale negativo conseguente alla cancellazione del programma. E non è casuale che sarebbe proprio la California, dove risiede il 30% degli iscritti al DACA, a pagare il prezzo più alto.
Qual è la connessione tra il linguaggio, le promesse elettorali e le scelte politiche? Il dato più concreto, effetto della policy trumpiana sull’immigrazione assimilata a una minaccia per la sicurezza nazionale, concerne il taglio del sostanziale U.S. refugee resettlement program, uno dei primi provvedimenti assunti. Dal 1980 il programma ha portato all’accoglienza di tre milioni di rifugiati e mai come nel 2017 è stato registrato un livello così basso di ammissioni. Il Muslim-ban ha inteso azzerare gli ingressi da sette paesi a maggioranza musulmana (Siria, Iraq, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen). 263.000 salvadoregni rischiano di dover reinventare la propria esistenza per la chiusura del programma umanitario Temporary Protected Status, che dopo la devastazione del terremoto del 2001 permetteva loro di vivere e lavorare legalmente negli Stati Uniti. In precedenza il Dipartimento per la sicurezza interna aveva annunciato lo stesso provvedimento per altri tre paesi Haiti, Nicaragua, Sudan e un totale di 65.000 persone.
L’accelerazione dirompente del ritmo del processo espulsivo evita alla politica di confrontarsi con le ragioni dell’esodo e produce consenso. La violenza e la povertà che un ragazzino affronta a Tegucigalpa, Honduras, non differisce da quella di Hempstead, New York, luoghi segnati in egual misura dal traffico e consumo di droga, dalla proliferazione incontrollata delle armi. La radice dei problemi e delle soluzioni è comune, va oltre il confine fisico.
Dal 2014 un atto dell’Amministrazione Obama ha messo in cima al lavoro del Tribunale dell’Immigrazione le cause pendenti sui minori originari del Centroamerica. Davanti al giudice i bambini si dichiarano colpevoli, la colpa di non voler morire così presto. “Se si dovessero ritrovare soli, ad attraversare frontiere e paesi, i miei figli riuscirebbero a sopravvivere?”; “Dov’è che abbiamo sbagliato, come società, per rendere possibile una cosa del genere”, si e ci interroga Luiselli. In fondo questi bambini che scappano da un incubo sono considerati corpi alieni, “removable aliens” nel linguaggio della legge. Il minore non accompagnato, in assenza della consulenza legale gratuita, dovrebbe cercare da solo e pagare un avvocato entro un brevissimo arco temporale:
L’architettura labirintica del Tribunale in un certo senso rispecchia il sistema d’immigrazione statunitense – scrive Luiselli –. E come in qualsiasi labirinto, qualcuno riesce a uscirne e qualcuno no. Quelli che non ci riescono potrebbero rimanere lì per sempre, spettri invisibili che salgono e scendono sugli ascensori e si aggirano per i corridoi, prigionieri di un incubo circolare.
Secondo l’American Bar Association, che nel 2014 ha promosso una tutela legale gratuita con l’Immigrant Child Advocacy Network, nelle corti statunitensi per l’immigrazione sono oltre 492.000 le cause legali pendenti nei confronti degli “unaccompanied alien child” con un’attesa media ante giudizio pari a 1071 giorni. Dal 2010 il numero è raddoppiato con il picco della crisi umanitaria del 2014, quando sono arrivati 70.000 minori, cifra superata di poco alla fine del 2016.
Nello spazio disadorno della stanza del Tribunale dell’Immigrazione di New York, dove si raccolgono le testimonianze prima del giudizio, l’unico elemento di umanità sono matite colorate e blocchi di carta. Alla decima domanda del questionario, “Sei felice qui?”, nonostante l’orizzonte ristretto la maggior parte di loro, partiti alla ricerca dei genitori o di altri pezzi di famiglia da reinventare quanto la propria identità, risponde in modo affermativo.
Questo movimento migratorio cominciò in modo consistente alla fine dell’Ottocento con lo sviluppo della rete ferroviaria nel nord del Messico fino agli Stati Uniti. Luiselli narra i viaggi a bordo della Bestia sulla rotta ferroviaria, le procedure legali, indicizza le parole chiave (coyote, frigorifero, centro d’accoglienza) che spoliano le giornate di anime impastate col dolore, restituisce nomi alla moltitudine.
I numeri impressi sulla pelle rievocano l’orrore, qui invece simbolizzano la resistenza. Una nonna ricama il numero di telefono della madre, come fosse una preghiera antica, sulle maglie delle nipoti, in partenza al fine di ricongiungersi. Devono mantenere la promessa di mostrare l’unica maglia a disposizione al primo poliziotto di frontiera nordamericano. Dopo l’affidamento a un avvocato volontario attento, si apre l’altra partita, la corsa a esporre le proprie ferite, che devono essere abbastanza profonde per evitare che siano un caso da derubricare.
Nell’ultima decade sono circa 500.000 i giovani nati e cresciuti negli Stati Uniti, prima di doversene andare dal paese assecondando l’esito dell’ingiunzione di un tribunale che spesso lede il legame familiare. Luis H. Zayas, docente di psichiatria presso l’Università del Texas ad Austin, nella pubblicazione scientifica Forgotten citizens (Oxford University Press, 2015) documenta le fratture, i danni psicologici che affliggono anche i bambini, oltre quattro milioni, nati negli Stati Uniti da genitori senza documenti in regola e inquadra il tutto in un preciso disegno politico. Figli che crescono sotto la minaccia incombente della separazione da chi li ha messi al mondo. Nessuno di loro ha accesso alla piena protezione e alle opportunità connesse con l’essere americani.
“Anche qualora riformassimo il sistema dell’immigrazione – spiega Zayas –, le pratiche aggressive delle ultime due decadi, marcate da arresti ed espulsioni, hanno colpito già centinaia di migliaia di bambini nati negli Stati Uniti in famiglie che contengono situazioni miste. La deportabilità, che minaccia ovunque i parenti, è spaventosa e danneggia l’intero nucleo familiare: sono costretti a portare i figli in un altro paese o a lasciarli da soli qui”. “Questa generazione di migranti – prosegue lo studioso – è sicuramente la più ampia nella storia del paese nell’includere de facto più esili e orfani di qualunque altra precedente. Vengono negati loro gli elementi propri dell’appartenenza. Si nega l’infanzia stessa di questa Nazione e l’impatto del contributo dei migranti, leggi controproducenti hanno cavalcato la crescente xenofobia e l’odio”.
La migrazione messicana ha sempre corrisposto alla richiesta del mercato del lavoro statunitense ed è stata condizionata dalle fluttuazioni dell’economia.
Le strategie, i dispositivi securitari elaborati dall’amministrazione Bush e negoziati col governo messicano già nei mesi antecedenti agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 ebbero da quell’evento un’accelerata da sommare agli effetti della profondissima recessione economica. Come descrive l’illuminante testo accademico Mexican migration to the United States – perspectives from both borders (University of Texas Press, 2016), l’esplosione del livello di disoccupazione interno ha prodotto di riflesso un crescente sentimento anti immigrazione con la criminalizzazione degli irregolari prima molto più flebile, che ha provocato una rottura nei processi di integrazione nella società.
La politica ha risposto con la repressione tanto esogena quanto endogena. La migrazione messicana ha sempre corrisposto alla richiesta del mercato del lavoro statunitense ed è stata condizionata dalle fluttuazioni dell’economia: da una parte la necessità di allegerire la pressione demografica, dall’altra il bisogno di manodopera a basso costo senza particolari scrupoli sulla questione di legalità. Nel 1986 ci fu la prima grande sanatoria con la regolarizzazione di 3.2 milioni di migranti ormai stanziali, due terzi dei quali messicani. Oggi è la violenza più dell’economia a determinare la volontà di partire dal Centroamerica.
Si stima siano oltre due milioni i minori e i giovani immigrati senza documenti. Una sentenza della Corte Suprema garantisce loro l’accesso all’educazione scolastica primaria: “De facto una volta fuori dalla scuola – leggiamo in Mexican migration to the United States – perspectives from both borders (University of Texas Press, 2016) –, affrontano un crescente livello di ineguaglianze e barriere sociali, politiche ed economiche che non consentono la piena realizzazione delle proprie potenzialità. Nonostante ciò sta aumentando la loro presenza nelle università”.
Nell’ultima parte del libro Luiselli accenna al “Programa Frontera Sur” ed è un collegamento utile per riflettere su quel che avviene in Libia. Sostenuto dal governo Usa, il Messico con un balzo del 44% dal 2014 al 2015 ha emesso 150.000 espulsioni di migranti irregolari entrati dai propri confini meridionali, El Salvador, Honduras e Guatemala, allo scopo di rallentare il flusso migratorio verso Nord. In Dimmi come va a finire la parola scritta assume dunque il peso dell’oppressione di esistenze nell’età del divenire che presumibilmente resteranno sospese e incompiute per sempre:
Raccontare storie non risolve nulla, non ricompone le vite spezzate. Ma forse è un modo per comprendere ciò che è addirittura inimmaginabile. Se una storia ci ossessiona, non smettiamo di raccontarla a noi stessi, ripetendola in silenzio mentre ci facciamo la doccia, mentre percorriamo da soli le strade.