S criveva Predrag Matvejević nel 1998: “nell’autunno scorso mi sono diretto pieno di speranza alla volta di Mostar, il mio paese natale. Ne sono tornato con i brividi addosso. Il dopoguerra sembrava altrettanto duro quanto la guerra stessa. Nel giorno in cui si recupera dalla Neretva la parte centrale dell’arco del vecchio ponte, assisto a questo avvenimento con una strana emozione. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone dello Stari Most che non univa solo le due sponde di questa città, ma altresì le vie dell’Oriente e dell’Occidente. Tornerà a farlo?”.
Nell’odierna Mostar la risposta rimane sospesa. Su un pilone del principale cantiere edilizio per il turismo – sarà un albergo della multinazionale statunitense Marriott a pochi passi dal centro storico della città – campeggia la scritta “War is not over”. La guerra non è finita, ma nessuno la può vincere. La pulizia etnica non ha cancellato l’antica traccia multiculturale di questa terra, dove il sole splende anche d’inverno, l’aria è pulita come l’acqua dei fiumi Neretva e Radobolja che l’attraversano. Nel marzo del 1995, quando le armi tacevano da qualche mese, la diplomazia internazionale chiuse in un cassetto il censimento demografico, appaltato ai tecnici del governo svedese. Era materia politica esplosiva. Secondo l’ultimo censimento, risalente a tre anni fa, a fronte di circa 100mila abitanti la componente croata cattolica è superiore di non più di mille unità rispetto a quella bosgnacca musulmana con una crescita della presenza serba, quasi sparita durante il conflitto. Il censimento generale bosniaco del 2013 rispetto a quello del 1991 segnala un calo della popolazione pari al 13%, meno 585.411. A Mostar abitavano oltre 120mila persone.
Per comprendere fisicamente Mostar occorre arrampicarsi sui ruderi della Staklena Banka, una costruzione mai portata a termine, poi utilizzata dai cecchini durante la guerra poiché mira l’intero contesto urbano. A ovest sulle alture della collina Planinica è stata recentemente dipinta una bandiera croata gigantesca e a poca distanza distrutto il maestoso memoriale Partizansko Groblje, dedicato ai partigiani antifascisti della Seconda Guerra Mondiale. Sull’altro versante, a est, sul monte Fortica si legge “BiH Volimo te”, Bosnia ed Erzegovina ti amiamo.
A poche centinaia di metri dalla Staklena Banka ci si imbatte nello scheletro di un edificio di estremo valore storico, affacciato sugli uffici dell’Osce. Era la casa del sindaco molto amato Mujaga Komadina, in carica dal 1909 al 1918, che unì Mostar e la portò nella modernità. Alla morte la sua abitazione divenne la biblioteca della città. Dopo la guerra 1992-1994 ognuno ha riscritto la propria storia e non c’è più uno spazio comune per la lettura, lo scambio e il dialogo serbo croato. La scuola con programmi diversi per croati e musulmani è divisa dalle elementari all’università: la Dzemal Bijedic Univerzitet, fondata nel 1977 come uno dei pilastri dello sviluppo dell’Erzegovina, e la Sveuciliste. Mostar ha sempre vantato una tradizione universitaria, qui si garantiva un’ottima preparazione.
L’economia locale, insieme al turismo estivo e agli investimenti di chi ha vissuto la diaspora, non potrebbe fare a meno dei venticinquemila studenti che vengono soprattutto dall’Erzegovina, dal centro della Bosnia e in percentuale minore da altri luoghi di uno Stato la cui architettura istituzionale appare sempre più nella sua incoerenza e farraginosità nell’erogazione dei servizi. Per il sistema sanitario pubblico un abitante della Federazione Croato-Musulmana del Cantone Hercegovačko-Neretvanski, nel quale rientra Mostar, non può ricevere cure nel confinante Cantone di Sarajevo. A Mostar perfino per la raccolta urbana dei rifiuti ci sono quattro società, più una quinta che in realtà rimane una scatola vuota: avrebbe dovuto inglobare le altre.
C’è una foto simbolo del dopoguerra, che ritrae la scuola di musica dopo gli interventi di stabilizzazione della struttura. La facciata crivellata di colpi di arma da fuoco, l’intonaco a pezzi, le finestre sventrate. Oggi l’edificio è completamente ristrutturato, ma resta chiuso, l’amministrazione non consegna le chiavi; spaventa la funzione aggregante evocata dalla sua storia. Racconta Vladimir Corić, classe 1987, portavoce dell’OKC Abrašević:
Sono nato a Belgrado. Mia madre è serba, mio padre è mostarese. Tornammo qui nel 1991 per il suo lavoro. Prima della guerra Mostar aveva il numero più elevato di matrimoni misti dell’intera Jugoslavia. La linea bellica più dolorosa è quella tracciata dentro alle famiglie. Questo luogo diviso non si salva. Amiamo questa terra, non lo Stato governato col principio dell’etnocrazia, che è inefficiente. Il sistema politico è troppo frammentato per reggere la sfida della rinascita, finiti gli aiuti, e non attira investimenti.
Sulla linea del fuoco, Bulevard Narodne Revolucije, il viale della rivoluzione nazionale, dove nel ‘93 croati e musulmani si fronteggiarono più violentemente, è stato rivitalizzato un edificio che fisicamente non appartiene a nessuno dei due versanti e testimonia che riconciliazione non è una parola vuota, ricreando un tessuto e una produzione culturale condivisa. Il centro culturale e musicale giovanile OKC Abrašević è l’ottavo ponte di Mostar, l’unico caso in tutta l’ex Jugoslavia di luogo, che si autofinanzia, restituito alla funzione pubblica culturale sottraendolo a un’operazione immobiliare con il sostegno economico della Catalogna. È la principale sala concerti della città con band che giungono da tutto il mondo, è centro di discussione politica per i giovani delle due sponde della Neretva.
Questa città è piena di ponti, ne sono stati ricostruiti sette dei dieci distrutti durante la guerra, ma pochi ancora li attraversano: a est i musulmani, a ovest i croati. Il 70% degli attuali abitanti è arrivato dopo la guerra, per programmazione politica e fuga soprattutto dall’est Erzegovina, e non aveva la cultura urbana dei mostaresi. Lo stesso destino di Vukovar, altra città martoriata come Mostar, che contava 84.000 abitanti fra croati, serbi, ungheresi, cechi e altri in un nucleo urbano cosmopolita. Il cosmopolitismo era il principale nemico da abbattere con la guerra.
Il dato politico ineludibile, che emerge da qualsiasi fonte interpellata a Mostar, è la lenta ma inesorabile agonia dell’accordo di pace di Dayton. Nonostante la propaganda estremista mancano i soldi e gli armamenti per fare la guerra, ma la paralisi sociopolitica non può durare a lungo, preoccupano gli esiti. A Travnik si producevano missili a canne multiple e pezzi di artiglieria, a Konjic, che s’incontra lungo la strada che collega Sarajevo a Mostar, c’erano grandi impianti per la produzione di munizioni; nella stessa Mostar lavorava a pieno regime la fabbrica di aerei militari jugoslavi. L’unica fabbrica rimasta in piedi nel tessuto industriale mostarese concerne l’alluminio. E al momento in cantiere non ci sono progetti per rigenerare le vaste aree deindustrializzate.
Nel 1997 con la spinta degli aiuti internazionali (5.1 miliardi di dollari furono stanziati per il primo programma per la ricostruzione, a fronte di danni stimati nell’ordine dei 15-20 miliardi con 1.2 milioni di rifugiati) la Bosnia toccò una crescita pari al 34%, poi si è progressivamente ridimensionata, 5% all’inizio del secolo, fino alla palude della crisi comunemente fatta risalire al 2009. Il reddito pro capite non ha ancora raggiunto il livello anteguerra e un terzo dell’economia è sommersa. Mostar con l’alto tasso di disoccupazione non si astrae dal contesto bosniaco, anzi ne è l’emblema. I giovani, che possono, emigrano. L’anno scorso in 90.000 hanno lasciato la sola Croazia.
Il due novembre nel paese si sono svolte le elezioni amministrative ed è l’unica città a non aver votato. Lo stesso giorno cinquemila mostaresi si sono ribellati allo stallo e hanno inscenato un simulacro elettorale. Dopo aver allestito vere e proprie urne, si sono recati a votare. Come spiega Dzenana Dedić, responsabile della Local Democracy Agency e figura di raccordo fondamentale con l’Europa durante la ricostruzione,
il nostro attuale problema principale è l’accordo di pace di Dayton, fondamentale per il disarmo e per fermare le uccisioni, che non può però continuare a essere la nostra costituzione. Non promuove una visione comune, istituzionalizza de facto un’ingestibile divisione etnica. Mostar contiene in scala ridotta tutti i travagli della Bosnia ed Erzegovina. I fondamentali processi democratici sono sospesi, tutto è in mano alle leadership dei partiti, privi di democrazia interna, gli stessi che hanno condotto la guerra. Da otto anni non c’è il consiglio comunale. Formalmente il sindaco, per decisione del parlamento, rimane l’ultimo eletto, espressione del partito croato Hdz, mentre l’Sda bosniaco musulmano guida l’ufficio del bilancio. Non trovano un accordo per tornare al voto, che tuteli l’equa rappresentanza senza che prevalgano gli interessi di una delle fazioni, ma spartiscono il potere. È una diarchia che condanna la città alla separazione.
Dedić è nata a Mostar, ha cinquantuno anni. Le hanno bruciato la casa, che era situata a pochi passi dall’ufficio in cui lavora ed è stata espulsa a est della città. Ricorda la fila delle macchine che nel 1992 abbandonarono in fretta e furia Mostar all’arrivo dei carri armati dell’Armata popolare jugoslava. Ma il vero inferno è stata la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993 quando è deflagrato lo scontro musulmano croato. “Non mi abituerò mai alla spartizione su base etnica di una città che rappresentava ante litteram il multiculturalismo, la conversazione tra diversi – dice Dedić –. Eravamo una storia plurisecolare culturalmente rilevante, stiamo riscrivendo tante piccole storie insignificanti”.
È difficile riparare le cose e in alcuni casi sono perse per sempre. Lo sa bene John Yarwood, architetto e direttore della ricostruzione per conto dell’European Administration of Mostar, che ammette: “Gli edifici sono stati ricostruiti anche rapidamente, non la vita della città. In due anni e mezzo l’EUAM non è riuscita a gettare le fondamenta per un’amministrazione pubblica funzionante, più importante della corsa alle prime elezioni nel 1996”. Una prerogativa di Dayton e dell’EUAM era restituire l’unità a Mostar. Nell’albo della municipalità sono registrate ufficialmente novecento Organizzazioni non governative, 267 hanno risposto all’aggiornamento del database, a una verifica sul campo quelle attive, finito il flusso degli aiuti e dei donatori che convergono su Sarajevo e Banja Luka, non sono più di trenta. Il loro apporto per l’alimentazione del tessuto civile è ormai sfumato quanto quello dell’Unione Europea. In Bosnia ed Erzegovina Turchia, Russia e Stati Uniti danno le carte e confermano la sensazione distinta tra i cittadini di non potersi autodeterminare.
Alla fine del conflitto i dati del catasto, ora riunificato e in fase di digitalizzazione, sono stati sottratti per riscrivere la storia e geografia, tanto quanto la toponomastica. Fino al 1990 il corpo della città non conosceva sviluppo illegale. Strade e infrastrutture erano armonizzate, e le opere fondamentali restano tuttora quelle del periodo 1945-’65. Oggi l’urbanistica risponde al principio e all’intento politico della divisione della città, manca un orientamento comune. La principale opera pubblica, che procede a rilento, è l’impianto di depurazione per evitare l’inquinamento della Neretva, poi c’è un corridoio stradale, 5 C, tormentato. Il budget delle casse comunali serve appena alla piccola manutenzione corrente.
“L’operazione di ricostruzione del patrimonio urbanistico e culturale, a cominciare dal Ponte Vecchio nel 2004, a Mostar è la più riuscita nell’intera Bosnia e direi in Jugoslavia – spiega Senada Demirović Habibija, architetta del dipartimento di programmazione urbanistica, impiegata nei progetti di recupero dell’Old Town –. Spesso questa città è comparata a Belfast, Berlino. Ma occorre ricordare che qui è sempre esistito un terreno comune. Costruire senza rispettare ciò, ci sta ferendo più dei danni di guerra. Di conquista in conquista, nei secoli, non si era mai smarrita l’importanza dell’eredità culturale precedente e stratificata. La guerra del 1992-’95 attenta soprattutto a questa eredità”.
Lo smarrimento di venti anni fa di Matvejević è lo stesso che prova oggi il ventinovenne Jasmin Elezović. Anch’egli fatica a orientarsi nella topografia interiore, formata nell’infanzia, di una città che progressivamente cancella il passato. Tocca muri ancora crepati, squarciati, che sono il riverbero di ferite non suturate. È stato bambino nella guerra, il padre croato decise di combattere al fronte. Indica la casa materna situata a poca distanza dal quartier generale militare bosniaco. Ha trascorso almeno sei mesi senza vedere la luce del sole, confinato nella vasca da bagno, il luogo meno esposto ai cecchini, dunque più sicuro.
Jasmin ha gli occhi azzurri con un perpetuo velo di tristezza. Dice che il disturbo posttraumatico da stress a Mostar non risparmia quasi nessuno. La sua terapia consiste nel raccontare. Jaso ha scelto di non emigrare. Ha aperto l’unica caffetteria che si trova nella città vecchia nei pressi dello Stari Most. Miscela e serve il caffè bosniaco, nera bevanda qui antico elemento di unione e condivisione. “Non lascio la città a chi intende alimentare l’odio e perpetrare il dolore – dice –. Della guerra conservo la capacità che ti dà di riconoscere la felicità, quando si presenta in piccoli frammenti di tregua”.