P er lavoro mi accompagno ai giapponesi. O meglio, a un tipo specifico di giapponesi: i giornalisti che si avvicendano come corrispondenti in Italia. Negli anni ho sviluppato una certa apprensione quando si tratta di andare a Venezia insieme – un momento che arriva sempre, perché come sostiene Cacciari in modo colorito: qualunque cazzata accada a Venezia, ci vengono persino dal Giappone per scriverne. Questo, ammesso che sia vero, è tanto più vero se il biglietto non è da Tokyo ma da Roma.
La semplice associazione delle parole giapponese e Venezia fa scaturire una risposta pavloviana che si condensa in una sola, nitida, immagine: Piazza San Marco gremita di comitive provenienti dall’Asia, bandierina in testa al gruppo, macchine fotografiche in spalla. La visione – ormai datata poiché si vedono molti meno gruppi di giapponesi in giro – ha forse almeno il pregio di mostrare sinteticamente quanto Venezia sia diventata sinonimo di meta turistica. Non più città abitata e abitabile, ma spazio destinato ai turisti. Non accade lo stesso se uno nomina Cagliari, Mantova, o persino Roma e Milano.
Questa volta per me l’effetto dell’associazione assume un valore esponenziale, diventa quasi una mise-en-abîme: io e la corrispondente stiamo andando a Venezia per un paio di giorni per un pezzo sull’over tourism a Venezia eppure, nell’affannarci correndo per Venezia da un appuntamento all’altro, non possiamo che essere entrambe, la giornalista straniera tanto quanto me, implacabilmente turiste. Quella del turista del resto è ormai una dimensione ontologica che ci riguarda tutti, eppure talvolta, anche se sempre più di rado, si riesce ad avere almeno la sensazione di vedere una città per quello che davvero è, non per come è diventata in funzione di chi la visita (contraddizione che dovrebbe demotivarci tutti dal viaggiare). Venezia comunque è spietata: pare non consentire per statuto altra identità se non quella del turista. Persino a chi ancora prova a viverci.
Il primo a cui chiediamo di raccontarci cosa significa abitare in una città per turisti è Matteo Secchi dell’associazione Venessia.com che da anni lamenta lo spopolamento e la perdita di servizi per i residenti. Nel 2009 lui e altri attivisti hanno inscenato il funerale di Venezia con tanto di corteo funebre lungo il canal Grande. Molti servizi sui giornali e molte foto, solo che da allora la situazione non è migliorata, anzi.
Cosa significa abitare in una città per turisti?
“Il turismo è come l’eroina. Da un lato ti dà dipendenza, dall’altro ti uccide”. Per essere una droga pesante, bisogna dire che ha lasciato Venezia ben florida; ha ingrassato la città, l’ha resa pingue, molle, pigra. Sotto le pieghe dell’opulenza non è immediato scorgere la spigolosità del teschio. Matteo invece ha ben presenti i sintomi del male (incurabile?). Racconta che il processo ha avuto inizio negli anni Cinquanta, quando molte famiglie veneziane si spostavano nell’entroterra spinte dal desiderio di appartamenti più moderni e spaziosi e macchine su cui scorrazzare. Quelli erano gli anni del Boom economico. È stato a partire dagli anni Ottanta che il turismo ha cominciato a drogare Venezia, inghiottendo spazi e servizi, facendo lievitare i prezzi. Si parla di “monocoltura” del turismo proprio per intendere questo dominio assoluto del settore turistico nell’economia cittadina. In molti si arricchiscono, alcuni ne pagano le conseguenze.
La città si spopola: negli anni Cinquanta c’erano più di 170.000 residenti nel centro storico, oggi non raggiungono quota 50.000. È notizia di pochi giorni fa l’introduzione di un ticket per l’ingresso a Venezia. Per Matteo Secchi lungi dall’essere una soluzione, il provvedimento rappresenta solo la prova finale che Venezia è diventata un parco giochi: vieni, compri il biglietto, e magari ti aspetti anche che i residenti ti intrattengano (anni fa, racconta, lui e gli altri attivisti di Venessia.com girarono per la città travestiti come gli inquietanti Mickey Mouse posticci che ti accolgono a Disneyland).
A un certo punto della conversazione la corrispondente pone, ex abrupto, una domanda impossibile – impossibile perché impone all’interlocutore una sfida irrealizzabile, ovvero quella di spiegare in poche parole una civilizzazione: “Se questa di oggi non è Venezia, com’era la vera Venezia?”. Matteo cincischia qualcosa su una storia di scambi, di aperture, di globalizzazione ante-litteram. Mi intrometto e farfuglio di mercanti e fioritura della stampa.
La domanda impossibile, che non verrebbe in mente a nessun europeo, serve però a farmi chiedere: c’è la possibilità di un’altra Venezia, oggi? Se non quella del passato, una Venezia del futuro? Più tardi questo interrogativo riemerge quando parliamo con un altro residente, uno che, a differenza di Matteo Secchi, a Venezia ha scelto di venire a viverci pur da non veneziano. Gianni Montieri abita a Venezia, e ne scrive. L’ha raccontata nelle sue vesti iridate nel libro 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire e nei suoi stracci in un commento on line proprio sul tema turismo e vivibilità. Si è trasferito carico di aspettative romantiche su Venezia. Non tutte tradite: esistono ancora dei momenti di bellezza sospesa, nei campi solitari, nella insperata placidità di certe calli quando intorno il resto della città brulica turisti. D’altra parte, pochi servizi essenziali (si fatica persino a trovare medici di base), spostamenti complicati dalla folla, costi elevati. E soprattutto, una città a vocazione internazionale, gonfia di gente da tutto il mondo, che però si regge sulle zampe esili di una comunità minuscola. C’è il Festival del cinema, ma sparito dal lido il jet set della Mostra quanti sono i cinema che restano in città? Due. Peggio che in certe appartate province del resto di Italia. “Dopo qualche tempo che sei qui ti rendi conto che, in libreria come alle prime delle mostre, incontri sempre le stesse poche persone”, racconta Gianni Montieri.
L’introduzione del ticket rappresenta solo la prova finale che Venezia è diventata un parco giochi.
Durante il lockdown, sulle prime, continua, non ci si raccapezzava della bellezza riguadagnata senza il tramestio furioso dei visitatori: acqua limpida, un cielo azzurro fermo come in un quadro. Ma dopo un po’ è proprio da quel quadro meraviglioso che ti senti intrappolato: “che senso ha questa meraviglia se non puoi condividerla con nessuno?”. Se nessuno la vede – e pochi, troppo pochi la abitano – esiste Venezia? La città non è un luogo che si attraversa e basta, è una comunità.
L’aspetto paradossale di questo discorso sulla morte di Venezia è che, mentre sfiorisce, Venezia appare anche come una possibilità. Daniele del Giudice, mi dice Gianni Montieri, sosteneva che Venezia ha tutte le caratteristiche per essere una città del futuro. A patto che ci abitino le persone. In Atlante veneziano lo scrittore sosteneva: “Una città non è solo le sue pietre, pure così importanti come sono le pietre di Venezia, e nemmeno la sua storia. Una città è la comunità che la abita, che la cura, che ne custodisce la memoria e il significato e quel significato pensa costantemente in modo aggiornato all’epoca e presente”.
Tra le problematiche nominate dai residenti l’affitto non manca mai. Ne parliamo con Giacomo Salerno, che, oltre a essere veneziano, si occupa dell’economia del turismo ed è anche membro di Ocio, l’osservatorio sulla situazione abitativa veneziana. Intanto ci spiega che Ocio è nato proprio per colmare un vuoto lasciato dalle istituzioni pubbliche allorché, nel 2012, l’osservatorio sulla Casa di Venezia presso il Comune viene dismesso. Ad aprile 2023 Ocio ha installato un contatore sulla vetrina della Libreria Usata di San Polo che aggiorna in tempo reale i dati dei posti letto disponibili nelle strutture ricettive turistiche. Il contatore dialoga con quello installato in precedenza da Venessia.com con il numero dei residenti effettivi in centro storico. Giusto pochi giorni fa le due associazioni hanno indetto una conferenza stampa per annunciare il sorpasso: ormai è ufficiale, ci sono più posti letto (49.693) che abitanti (49.304).
“Venezia si sta trasformando da città a spazio turistico: il fatto che esistano più letti per i turisti che residenti è l’ultima, se necessaria, certificazione della catastrofe”. Trovare una casa in affitto è sfibrante e oneroso. Le agenzie immobiliari locali spesso offrono solo appartamenti con contratti transitori che lasciano più libertà ai proprietari e non richiedono la residenza. Gli studenti non trovando casa vengono ricacciati verso la terraferma. Infine, “l’approvazione del ticket dimostra la mancanza di visione dell’attuale amministrazione”. Il punto, secondo lui, non è ridurre il numero dei visitatori ma ridare ai veneziani la possibilità di restare, uscendo dalla logica dello sfruttamento turistico, lavorando sull’edilizia sociale, applicando l‘emendamento Pellicani sugli airbnb, smettendo di concedere nuovi edifici agli hotel. Su questo ultimo punto ci informa che esiste una delibera del comune che impedisce di destinare nuovi edifici alla ricettività turistica ma nei fatti viene disattesa poiché l’amministrazione può continuare a procedere in deroga (è il caso della Camera di Commercio di Venezia diventata un hotel a 5 stelle) o, ancora più semplicemente, perché i nuovi edifici si trovano alla Giudecca o a Tronchetto dove la delibera non si applica.
Il punto non è ridurre il numero dei visitatori ma ridare ai veneziani la possibilità di restare.
A molti di coloro con cui parlo non piace l’idea di vivere in un luogo in cui la circolazione non è libera ma subordinata al pagamento di un balzello. Pagare per entrare in città, neanche fosse un museo, o uno zoo. Per di più suona quasi inverosimile in relazione a una città per sua natura smisurata e mobile come Venezia. Le mura cittadine sostituite da solerti operatori che controlleranno il QR code dei turisti. Il ticket entrerà in funzione dal 2024, probabilmente a partire da Pasqua, e andrà a coprire una trentina di giorni identificati come critici. Tutti coloro che non alloggiano in un hotel dovranno prenotare e pagare i 5 euro tramite un apposito portale, così da poter circolare sereni con il codice da mostrare ai controllori. Il provvedimento non è diretto al turismo internazionale, serve piuttosto a scoraggiare i gitanti della domenica, quelli che abitano nelle regioni limitrofe (i veneti saranno esentati: non avevano preso bene le prime stesure della norma che invece li obbligava al pagamento).
Non è casuale che il ticket sia arrivato a poca distanza dalla sessione del World Heritage Committee dell’Unesco in cui si discuteva di nuovo se inserire o no Venezia nella lista dei patrimoni in pericolo. A quanto pare la strategia del Comune ha funzionato: Venezia è salva, almeno per l’Unesco. La storia si è ripetuta identica al 2021, quando il governo Draghi approvò il decreto Grandi Navi. A proposito di Unesco, che è anche il motivo per cui siamo qui, appena nominiamo l’agenzia delle Nazioni Unite vediamo smorfie da tutte le parti. Indipendentemente dalle sfumature politiche. Come se la “tutela del Patrimonio” – peraltro solo simbolica visto che dall’Unesco non arrivano fondi – avesse poco a che fare con le esigenze e le sofferenze della città vera, che non è solo un’eredità trasmessa nel tempo di pietre e palazzi ma anche e soprattutto un tessuto sociale.
Un tessuto sociale che è, deve essere, anche un tessuto produttivo. L’avidità del turismo ha riconvertito o cancellato molti dei settori tradizionali, è la tesi ascoltata più volte in questa prima giornata a Venezia. Perciò nel nostro secondo giorno mi tocca la visita alle vetrerie di Murano con tanto di esibizione dei maestri vetrai a beneficio di americani, inglesi, giapponesi. Le comitive si susseguono e le spiegazioni sulle lavorazioni nelle varie lingue pure. Gente dentro la fornace, gente fuori per strada. A vederla così la situazione non sembra critica. Però negli ultimi venti anni, prendendo in considerazione solo il centro storico, più del 50% delle botteghe dell’artigianato artistico hanno chiuso, dicono i dati di Confartigianato Venezia. Quindi: sovraffollamento di turisti, prezzi lievitati, poche abitazioni, senso di comunità in dismissione.
Ah, all’elenco manca la fragilità dell’ecosistema. Ne parlo con Silvio Cristiano, ingegnere, ricercatore presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Venezia la conosce bene anche dal punto di vista dell’esperienza personale perché l’ha lasciata da meno di un anno. “Il Mose andrebbe aperto quando il livello dell’acqua è di almeno 1.30 m ma capita che le aperture scattino anche prima, da 1.00 o 1.10 m: ogni apertura costa sui 300.000 Euro”: è chiaro che ci sono anche interessi economici dietro. Inoltre, mi dice Silvio Cristiano, pensare agli scenari futuri è allarmante perché un innalzamento delle acque richiederebbe delle chiusure più frequenti per proteggere la città ma significherebbe anche compromettere l’ecosistema lagunare, rendendolo più vicino a quello di un lago che non quello della laguna, con tutte le conseguenze anche sanitarie che si possono immaginare (Venezia non ha un sistema fognario moderno: va da sé, tutto finisce nei canali). Quindi il Mose è una soluzione transitoria. Che nasconde altre storture. Quello che non si dice spesso, per esempio, è che l’acqua granda del 2019 è stata sì la più alta dal 1966 ma è stata anche la più violenta per un motivo riconducibile all’intervento umano, ovvero per via dei canali che sono stati scavati sott’acqua. Scavare autostrade nel mare non è senza conseguenze, e qui Silvio Cristiano cita la questione dello scavo del canale Vittorio Emanuele III: inevitabilmente ribassare il fondale fa sì che l’acqua, quando si alza la marea, entri con più prepotenza in città. Insomma, il Mose tutela la città da sopra la superficie dell’acqua poi gli scavi la danneggiano da sotto. All’orizzonte si profila l’ombra enorme delle navi da crociera: seppure non ritorneranno in Canal Grande, si riavvicineranno al centro storico sotto mentite (e diminuite) spoglie.
Il Mose è una soluzione transitoria, che nasconde altre storture.
Tra turisti e traghetti, la Venezia reale viene quotidianamente violentata dai piedi dei visitatori e dai turbini dei motori rombanti; eppure esiste anche una Venezia dell’immaginario, e questa, ovvero la Venezia come possibilità del futuro, rimane inscalfibile. È la stessa città che affiora in alcuni ritratti delle Città invisibili di Italo Calvino, in Smeraldina per esempio, ma soprattutto nelle parole di Marco Polo, quando, sconfortato, dice al Kan che gli ha descritto tutte le città che conosce:
— Ne resta una di cui non parli mai.Marco Polo chinò il capo.
— Venezia, disse il Kan.
Marco sorrise.
— E di che altro credevi che ti parlassi?
L’imperatore non batté ciglio.— Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo:
— Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.
E come Marco Polo anche noi possiamo continuare a parlare di Venezia: tramite essa parleremo di tutte le città del mondo, del passato e del futuro. Delle città d’acqua, di terra e di aria. Del resto, sempre Calvino scrive, siamo nel 1974, nel saggio Venezia: archetipo e utopia della città acquatica:
Il mondo si riempirà di Venezie, ossia di Supervenezie in cui si sovrapporranno e allacceranno reticoli molteplici a diverse altezze: canali navigabili, vie e canali per veicoli a cuscino d’aria, strade ferrate sotterranee o subacquee o sopraelevate, piste per biciclette, corsie per cavalli e cammelli, giardini pensili e ponti levatoi per pedoni, teleferiche.
Mancano solo i turisti.