Mauro Meggiolaro
/ Immagine dal film "Alleingang" (Raphael Schanz, 2022)
26.8.2024
Morire di solitudine a Berlino
Sulla morte di persone prive di parenti o amici che denuncino il decesso.
Mauro Meggiolaro è un ricercatore e giornalista italiano che vive a Berlino, laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Scrive per il giornale di strada Scarp de’ tenis, la rivista economico-finanziaria Valori.it e Il Fatto Quotidiano. Collabora con Banca Etica e i programmi televisivi Report e PresaDiretta (RaiTre). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati dalla rivista letteraria Argo e da Argolibri. Con Fabio Salviato ha scritto "Ho sognato una banca. Dieci anni sulla strada di Banca Etica" (Feltrinelli, 2010). Nel 2009 ha co-fondato Merian Research, una società di consulenza con sede a Berlino, specializzata in analisi aziendali e di mercato e ricerche investigative.
L
a morte ha un odore dolciastro. Ti entra nelle narici e poi nel cervello. Ti ritorna in mente anche a giorni, settimane di distanza, senza motivi apparenti. È un misto di zolfo e ammoniaca, liberato dalla decomposizione delle proteine, mi spiega il dottor Patrick Larscheid. L’oggettivazione scientifica mi aiuta ad affrontare il secondo cadavere della serata, almeno per qualche minuto. Poi il tanfo diventa insopportabile e mi devo spostare in corridoio, a far compagnia a tre poliziotti. Holger Brinkmann è morto da almeno due settimane. Nessuno se n’è accorto. Fino a quando nel lungo pianerottolo color crema, pavimentato di gomma nera a bolli, il puzzo è diventato insostenibile per tutti e il vicino della porta accanto ha chiamato la polizia, che ha chiamato il medico di turno, Larscheid, per l’accertamento della morte. Accanto al medico stanotte ci sono io.
Arriviamo verso le nove di una tiepida domenica sera di inizio estate. Saliamo con l’ascensore al quinto piano di un palazzo popolare di Neukölln, nella periferia sud di Berlino. La serratura è già stata scassinata e sostituita dal fabbro, la porta è stata richiusa e la polizia non riesce ad aprirla con le nuove chiavi. Allora ci prova il dottore, di forza, sbattendo e scalciando ma senza risultati. “È possibile che il morto sia dietro la porta, per questo non si apre”, ipotizza una giovanissima poliziotta con i capelli neri, raccolti in una coda di cavallo che le arriva alla cintura. Poi Larscheid riprova con più gentilezza, gira la chiave piano e tira verso di sé la porta, che si apre. Dietro non c’è nessuno. Inizia quindi la ricerca del corpo mentre l’odore diventa sempre più irrespirabile, tanto che per poco non vomito in corridoio.
È un piccolo bilocale congelato nel tempo alla fine degli anni Settanta. C’è una moquette grigia striata, una libreria stracolma di dvd, videocassette, qualche libro, dizionari e una vetrinetta dedicata a una collezione di modellini di limousine nere, quelle che trasportano i capi di stato. In ogni angolo, su mobiletti e tavolini di legno massiccio marrone scuro sono depositati oggetti di vario tipo: candele, souvenir di città europee, torce, una pepiera, una radio, bollette, occhiali da lettura, riviste pubblicitarie di mobilifici impilate in mezzo ad agende di vari colori, scontrini, una calcolatrice, vari telecomandi. C’è un vecchio computer con uno schermo a tubo catodico su un tavolino. Un foglio accanto alla tastiera riporta nomi di persone, scritti a penna.
Attaccate alla parete due foto molto simili, una in bianco e nero e una a colori, che ritraggono tre tendoni di un circo dall’alto, con tutte le carovane attorno, in una grande piazza di una città che, dall’architettura dei palazzi che la delimitano, potrebbe essere in Spagna o in qualche Paese del sud Europa. Ci sono richiami al circo anche in alcuni degli oggetti sparsi per l’appartamento e in un’altra foto appesa alla parete d’ingresso. Mostra un energumeno biondo con i capelli corti davanti e lunghi dietro, come alcuni calciatori tedeschi degli anni ottanta, un costume di pelle da gladiatore, che sorregge con entrambe le mani un altro gladiatore, il corpo teso in orizzontale, che a sua volta ne sorregge un terzo in orizzontale, il sedere appoggiato sulle sue mani. Una prova di forza e di equilibrio. E se l’energumeno fosse Holger da giovane? O è forse uno dei due gladiatori più secchi, tutti nervi e muscoli, con i corpi tesi nel vuoto? Sullo sfondo si vedono grandi colonne neoclassiche grigie. Sembra il propileo di uno dei tanti monumenti che punteggiano il centro di Berlino. A giudicare dai colori sbiaditi potrebbero essere gli anni settanta, quando Holger, nato nel 1956, era poco più che ventenne. È un numero del circo che provavano all’aperto?
Ogni anno a Berlino le sepolture d’ufficio sono circa 2.500: il 7% di tutti i decessi.
Nel frattempo Larscheid trova il cadavere, anche se non è possibile procedere alle analisi di rito. Il corpo, piuttosto ingombrante, è incastrato tra la porta della camera e il letto e non si riesce ad entrare. Spingendo si riesce al massimo ad aprire un varco di dieci, quindici centimetri. Holger è sdraiato sulla schiena ma si vede solo una parte del torace e dell’addome, che sono ormai neri come la pece e ricoperti di larve. Si scorge anche una parte del materasso, su cui è sdraiata una grande tigre di peluche. Forse è caduto in seguito a un infarto o un ictus e non è più riuscito a rialzarsi? Il medico non fa ipotesi. Il corpo non può essere ispezionato e la porta non può essere smontata o demolita. È un compito che spetterà ai vigili del fuoco. Del caso si dovrà prendere carico la polizia criminale. Le pompe funebri si occuperanno quindi di rimuovere il corpo e cremarlo. Visto che non sono noti familiari o altri congiunti si tratterà dell’ennesima “sepoltura d’ufficio”, anonima e a carico del comune.
Ogni anno a Berlino le sepolture d’ufficio sono circa 2.500: il 7% di tutti i decessi. “Un’enormità”, mi dice Larscheid. Il caso della capitale tedesca non è però isolato. Le morti in solitudine sono sempre più frequenti in tutti i Paesi europei, anche se spesso mancano dati comparabili. In base a uno studio del 2023, in Gran Bretagna, i decessi in cui i corpi sono stati ritrovati in stato di decomposizione – quindi circa una settimana o più dopo la morte – sono in costante aumento dal 1979. Le stime del patologo dell’Imperial College Theodore Estrin-Serlui, uno degli autori dello studio, parlano di almeno 8.000 – 9.000 “morti solitari” nel 2022. L’alto numero dei corpi trovati in stato di decomposizione può essere visto come indicatore dell’isolamento sociale, ha suggerito Estrin-Serlui. In effetti, come riportato dall’Economist, nel 2021 il 30% dei nuclei famigliari britannici era composto da una sola persona, rispetto al 17% del 1971. Il tasso di morti per cause ignote è triplicato tra i maschi britannici di età superiore ai 60 anni tra il 1990 e il 2010, in un periodo in cui gli uomini di mezza età erano la categoria di persone che vivono sole in più rapida crescita.
La disgregazione delle famiglie, l’aumento dei tassi di separazione e il cambiamento delle norme sociali hanno spinto sempre più persone a vivere da sole. E molto spesso le persone non sanno chi siano i loro vicini, soprattutto nelle grandi città. La percentuale di morti trovati in stato di decomposizione domestica nel centro di Londra sono due volte superiori a quelli dell’Hertfordshire, un’area suburbana a nord della capitale britannica. “Nell’era dell’individualismo e di Internet”, sottolinea l’Economist – “è anche molto più facile ritirarsi completamente dalla società”.
Il record di morti solitarie (tra i Paesi di cui sono disponibili dati) spetterebbe però al Giappone, dove esiste perfino una parola per identificare il fenomeno: “kodokushi”. Quasi 22.000 cittadini sono morti in completa solitudine nei primi tre mesi del 2024, secondo i dati diffusi dalla polizia. Il totale, come riporta il quotidiano britannico The Independent, dovrebbe raggiungere i 68.000 entro la fine dell’anno: circa il 4% degli 1,59 milioni di morti annuali nel Paese. Nel 2011 erano 27.000. In Giappone si tenta già da molti anni di correre ai ripari. A Tokiwadaira, a nord-est di Tokyo, l’associazione dei residenti ha istituito una linea telefonica diretta per consentire ai vicini preoccupati di avvertire le autorità e, già nel 2004, ha lanciato una campagna “zero morti solitarie” che è diventata un modello per altri complessi residenziali. Nel 2024 è stata introdotta la chiamata ‘kizuna’ (“legame sociale”), un dispositivo di monitoraggio dotato di sensori che conferma che l’occupante dell’appartamento si muove.
Il record di morti solitarie spetterebbe però al Giappone, dove esiste perfino una parola per identificare il fenomeno: “kodokushi”.
E l’Italia? Nel nostro Paese non mancano casi eclatanti di morti solitarie, abbondantemente riportati nelle pagine di cronaca dei quotidiani. Come la storia di Marinella Beretta, morta a 70 anni, il cui corpo è stato ritrovato mummificato in una casa a Como nel 2021, a due anni dal decesso. Non esistono, tuttavia, dati sistematici sull’ampiezza del fenomeno e la sua evoluzione storica. Solo una serie di singoli episodi ed altrettanto isolate iniziative per prevenirne di nuovi. Una di queste è stata promossa da don Dino Pistolato, parroco a Mira, in provincia di Venezia. In seguito a una serie di morti solitarie, nel 2021, ha deciso di muoversi, creando una squadra anti-solitudine con il gruppo di carità parrocchiale. Una goccia in un oceano di indifferenza. Anche don Pistolato, intervistato da Gli Stati Generali, punta il dito sulla percentuale crescente di persone che vivono sole, che in Italia (come in Gran Bretagna) sta crescendo a ritmi impressionanti. Secondo i calcoli dell’Istat, al ritmo attuale, nel 2040 le persone che vivono da sole – per scelta o per forza – potrebbero arrivare a oltre 10 milioni: un italiano su sei.
Il dottor Larscheid, che viene chiamato quando ormai è troppo tardi per intervenire, ha pensato che, in qualche modo, questi morti di cui nessuno si interessa meritano di essere ricordati. Perché, in primo luogo, sono cittadini ed esseri umani come tutti gli altri. Da un paio d’anni, assieme a un pastore protestante, organizza, la terza domenica di gennaio, una cerimonia funebre collettiva per tutte le persone che sono morte e sepolte d’ufficio l’anno prima a Reinickendorf, un quartiere nella periferia nord-ovest di Berlino, dove lavora. “Di solito vengono 50-60 persone. Si crea un’atmosfera piacevole. A un certo punto della celebrazione leggo tutti i nomi dei defunti e racconto qualcosa sulla vita di quelli di cui sono riuscito recuperare qualche informazione”. Larscheid parla con gli ex vicini di casa, recupera pezzi di storia dagli archivi dell’anagrafe. Se possibile prende contatto con i familiari. “All’ultima celebrazione che abbiamo fatto, nel gennaio di quest’anno, si è presentata la figlia di un defunto. Non aveva voluto occuparsi dell’interramento del padre, non erano più in contatto per una tragica storia di violenza famigliare. Però è passata per un ultimo saluto. Sono contento che siamo riusciti a darle l’opportunità di farlo”.
Se il dottor Larscheid, dopo anni di reperibilità notturna, si è inventato il ‘funerale dei dimenticati’, c’è un altro eroe non celebrato dei morti senza familiari né amici nella capitale tedesca. È il signor Bernd Simon, di cui hanno parlato diffusamente i giornali cittadini e anche un cortometraggio, uscito nel 2022. In Italia ne ha parlato per primo il mensile della strada Scarp de’ Tenis. Simon, 58 anni, alto, capelli grigi corti e fitti, corporatura robusta, è un necroforo molto particolare, che ha chiesto e ottenuto di occuparsi solo dei defunti che al momento della morte non hanno nessuno che si prenda carico delle esequie. Dalla fine del 2019 lo fa nove volte al giorno in inverno e dieci volte in estate, dal lunedì al venerdì. Il rito funebre se l’è inventato lui, non sarebbe previsto dalle procedure comunali. Simon si preoccupa anche dell’accompagnamento musicale, diffondendo musica classica da un registratore. E parla con le persone che fossero eventualmente presenti. “Nel 70% dei casi cammino da solo con l’urna in mano”, ha spiegato al settimanale BerlinerWoche. “Raramente si presentano parenti, colleghi di lavoro o amici, però può succedere”. Dei defunti non sa nulla, se non la data di nascita e il nome. Si è però assunto il compito di dare a tutti una sepoltura dignitosa.
Dopo l’intervento nell’appartamento del signor Brinkmann, si sono fatte le dieci e abbiamo ancora tutta la notte davanti e quattro chiamate in coda. Larscheid è di guardia per gli esami post-mortem nella zona sud di Berlino. Un territorio enorme, che abbraccia la città da ovest a est, con un diametro di oltre 40 chilometri. Risalgo sulla Skoda Octavia blu del dottore. Ci fermiamo a una stazione di servizio per fare il pieno e prenderci due bottiglie d’acqua. In macchina parliamo a lungo, per me è un’esperienza nuova e lo sommergo di domande. Fino a stasera nella mia vita avevo visto solo i tre cadaveri dei miei nonni e quello del mio migliore amico, morto tragicamente a 38 anni. Erano però tutti ricomposti nelle loro bare con l’aria condizionata, il vestito buono, le mani, il volto e i capelli curati dai tanatoprattori, i truccatori dei morti. Qui invece mi si presenta tutto allo stato originario, senza schermo, senza alcun tentativo di rendere la morte più accettabile, bloccando le labbra in eterni quanto finti sorrisi che per molti parenti e amici ai funerali sono un chiaro segno che il defunto o la defunta “sono morti contenti, perché hanno finito di soffrire”.
Secondo i calcoli dell’Istat, al ritmo attuale, nel 2040 le persone che vivono da sole – per scelta o per forza – potrebbero arrivare a oltre 10 milioni: un italiano su sei.
Nella realtà i morti si trovano di solito distesi per terra o su un letto, con la bocca aperta e i denti in fuori, bloccati nell’ultimo fotogramma della propria esistenza dal ‘rigor mortis’. Sul corpo hanno lividi che “non assomigliano a nessun altro livido umano”, mi spiega Larscheid. Anche qui la lingua latina ci viene in soccorso. È il ’livor mortis’: macchie rosso-vinose che compaiono dopo mezz’ora dall’ultimo respiro e si estendono per tutto il corpo nelle ore successive. Dall’analisi dei lividi il medico è in grado di risalire con una buona approssimazione al momento del decesso.
Ci spostiamo in un quartiere residenziale, uno dei più ricchi della città. Lì la vita di Sabine Reuter è finita improvvisamente a 69 anni, in un giorno qualsiasi di inizio giugno. Anche lei non aveva parenti o congiunti conosciuti. Ad avvisare la polizia è stata la compagna di passeggiate con il cane. Si vedevano ogni giorno alla stessa ora. Venerdì però Sabine non si è presentata e nemmeno sabato. L’amica ha suonato ma non le ha aperto nessuno. La porta non era chiusa a chiave e la polizia è entrata senza problemi e ha liberato il cane, di cui ora si prenderà cura l’amica. Entriamo assieme a due poliziotti. L’appartamento è ordinatissimo, in cucina ci sono delle carote, ormai rinsecchite, su un tagliere. Sabine è distesa per terra vicino al divano. Veste una camicetta bianca e dei jeans grigi, il fisico è asciutto e apparentemente in forma. Dalla bocca è uscito un rigurgito nero. Il medico fa gli accertamenti di routine. Apre il frigo per vedere se c’è l’insulina. Apre gli armadietti in bagno e in cucina, per controllare se ci sono dei medicinali: nulla. Di cosa sarà morta? Anche qui Larscheid non si sbilancia. La porta non era chiusa a chiave, non si può escludere che sia entrato qualcuno. Del caso si dovrà occupare la polizia criminale.
In macchina cerco di capire se il dottore si è fatto qualche idea sulle ragioni della morte di Sabine. Larscheid spiega che nella maggior parte dei casi la morte non segue percorsi lineari. In genere si muore per un concorso di cause e non per un motivo unico e chiaro, come quando si è investiti da un auto o ci si butta dal decimo piano. Le cause concorrenti si scatenano più facilmente nello stesso momento man mano che si diventa vecchi. “Morire a 69 anni non è strano. Magari ha mangiato qualcosa che non ha digerito. Ha vomitato. Il vomito le ha fatto salire la pressione sistolica a livelli molto alti. È possibile che fosse debole di cuore o avesse un trombo in un’arteria che le è partito”. Anche Sabine sarà sepolta d’ufficio, anonimamente.
La notte intanto si è fatta più scura. Accompagno il dottore in altre tre visite. Tutte e tre donne, l’ultima in una casa di riposo: un’anziana signora di 92 anni. Il caso più simile a quelli che conoscevo dai funerali in famiglia. All’una di mattina decido che è ora di tornare a casa. Il dottore continuerà ad essere reperibile fino alle sette. Mentre mi guida alla fermata della metro più vicina lo chiama un collega, il dottor Finck, che sta coprendo tutta la zona nord. Si scambiano informazioni, si augurano che le chiamate inizino a diminuire. Il loro viaggio nella solitudine della capitale è ancora molto lungo.
Questo articolo racconta fatti realmente accaduti. I nomi delle persone decedute e dei luoghi in cui i corpi sono stati trovati non corrispondono ai nomi reali. Sono stati usati nomi di fantasia.