C osa hanno in comune i due medici di Xiamen Wang Zhao e Yin Xiaowen, e l’ingegnere di Suzhou, Yao? Sono tutti e tre morti per un improvviso malore. Avevano tutti e tre un’età compresa tra i ventiquattro e i quarantanove anni, nessuno di loro soffriva di patologie particolari. Ciascuno aveva un solo pensiero in testa: lavorare, lavorare, lavorare.
Da un’ultima – non semplice – diagnosi è parso trattarsi di guolaosi (traduzione cinese del giapponese karoshi), termine che sta a indicare la morte per infarto, ictus, emorragia cerebrale e altri malori indotti da ritmi di lavoro troppo frenetici. Negli ultimi anni, in Cina, la guolaosi e il guolaozisi (il suicidio causato da stress lavorativo), sono stati portati alla luce da alcuni roboanti casi di cronaca, a partire dal suicidio di quattordici lavoratori presso le strutture della Foxconn di Wuhan per protestare contro i bassi salari e i turni massacranti. Era il 2010 e gli occhi della comunità internazionale scrutavano puntigliosamente le violazioni dei diritti umani su cui poggiava il “miracolo cinese”. A distanza di sette anni, la guolaosi continua a fare sempre meno vittime nelle fabbriche e sempre più negli uffici, mentre fattori culturali, abbinati al lassismo dei tutori della legge, hanno contribuito a un apparente sorpasso della Cina sul Giappone, la culla del karoshi.
Il primo caso di karoshi viene documentato nel 1969, quando un ventinovenne muore per un arresto cardiaco mentre si trova presso il dipartimento spedizioni del più grande gruppo editoriale del Giappone. Dieci anni più tardi il termine viene ufficialmente coniato in riferimento a un aumento dei decessi da eccessivo lavoro, ma è soltanto verso la metà degli anni ’80, nel pieno della bolla speculativa del mercato azionario e dell’immobiliare giapponese, che una serie di morti di giovani dirigenti – apparentemente in salute – dirotta l’attenzione generale sul fenomeno. Cary Cooper della Lancaster University incasella il fenomeno nell’ambito di una transizione dall’entusiasmo lavorativo del dopoguerra (quando la laboriosità era motivata non solo da fini economici, ma anche dalla prospettiva di ricostruire quanto distrutto durante il conflitto) all’operosità maniacale degli ultimi due decenni del Diciannovesimo secolo, dominati dall’impennata dei prezzi degli immobili e dallo scoppio della bolla speculativa. In quegli anni, quasi sette milioni di giapponesi (il 5% della popolazione complessiva) si sono ritrovati a macinare sessanta ore di lavoro settimanali.
Guolaosi (traduzione cinese del giapponese karoshi) è un termine che indica la morte per infarto, ictus, emorragia cerebrale e altri malori indotti da ritmi di lavoro troppo frenetici.
Con lo spostamento degli equilibri economici, la “Tigre asiatica” parrebbe, tuttavia, aver finito per cedere il podio alla seconda economia mondiale. Secondo una ricerca della multinazionale Regus, nel 2013 la Repubblica popolare ha ufficialmente effettuato il sorpasso sul Giappone. All’epoca si contavano seicentomila casi l’anno – circa 1.600 al giorno –, contro i 2.310 registrati dal Sol Levante nel 2015. Numeri difficili da confermare, così come lo sono le cause esatte dei decessi. Non soltanto sono cifre rimasticate ciclicamente dai media cinesi (già nel 2006 si parlava informalmente di seicentomila morti), ma non è nemmeno ben chiaro con quali criteri siano state calcolate.
Come fa notare Fabiana Marinaro, esperta di diritto del lavoro giapponese, “prima di arrivare alla conclusione che la Cina ha superato il Giappone, bisognerebbe rapportare la cifra delle vittime della guolaosi al numero totale della popolazione cinese in generale e a quello della popolazione attiva (ovvero la fascia lavoratrice) in particolare. È questo il dato dei due paesi che andrebbe messo a confronto, non il numero assoluto delle vittime da troppo lavoro perché la Cina ha una popolazione di gran lunga maggiore rispetto a quella del Giappone: la popolazione giapponese non è nemmeno 2/10 di quella cinese.”
Altro punto da valutare è se l’aumento delle vittime da troppo lavoro in Cina (sempre che ci sia stato) non sia in realtà fisiologico. “Occorre considerare la variabile della crescita della popolazione nei due paesi. La popolazione giapponese è in calo (registra una crescita del -13%), eppure il numero delle vittime ufficiali da karoshi ha registrato un nuovo picco. La popolazione cinese, invece, continua ad aumentare: per cui l’aumento dei morti potrebbe semplicemente essere dovuto al fatto che ci sono più entranti nel mercato del lavoro”, conclude Marinaro.
Ma se le statistiche rimangono di difficile decifrazione, un trend sembra tuttavia assodato: da quando negli ultimi anni il governo nipponico ha introdotto misure legali per responsabilizzare le aziende e costringere i lavoratori ad andare in ferie, la popolazione ha acquisito una maggiore consapevolezza del fenomeno.
“Il karoshi in Giappone riflette un modo di pensare con tre decenni di storia, e anche se esiste ancora, oggi è molto meno diffuso grazie all’affermazione di un equilibrio vita-lavoro di stampo occidentale, “ ipotizza Cooper, “In Cina, invece, il singolo lavoratore vuole dimostrare il proprio impegno organizzativo, che secondo la sua percezione consiste nel lavorare parecchie ore. I cinesi stanno seguendo il modello giapponese, ma non sono ancora in grado di coglierne gli aspetti negativi.” Complice la grancassa ufficiale e il ruolo sbandierato del “lavoratore modello”, cui la propaganda spesso allude rispolverando vecchi eroi comunisti come il soldato-martire Lei Feng, tutt’oggi ritratto sui cartelloni pubblicitari delle principali metropoli cinesi. Basti pensare che, piangendo la morte del banchiere Li Jianhua, la China Banking Regulatory Commission nel giugno 2014 rilasciò un comunicato in cui invitava tutti a “imparare dal compagno Li, sempre fermo nei suoi ideali, fedele alla causa del Partito e del popolo, pronto a sacrificare ogni cosa”.
In Cina il singolo lavoratore vuole dimostrare il proprio impegno organizzativo, che secondo la sua percezione consiste nel lavorare parecchie ore.
Non sempre, tuttavia, si tratta di uno stakanovismo del tutto spontaneo. Secondo una ricerca condotta a Pechino da Yang Heqing, preside della School of Labor Economics presso la Capital University of Economics and Business, il 60 per cento dei lavoratori della capitale lamenta di dover svolgere prestazioni lavorative extra, superiori ai limiti imposti dalla legge.
L’articolo 36 della Labor Law cinese stabilisce un massimo di otto ore di lavoro al giorno e quarantaquattro settimanali, mentre l’articolo 44 prevede che “il di più” venga ricompensato con una somma pari al 150 per cento del salario di base (al 200 per cento nel weekend). Gli straordinari sono ammessi solo in alcune circostanze, ma non possono superare le tre ore al giorno. Limiti spesso valicati con l’intento di ottenere una promozione o un aumento in busta paga.
Come faceva notare tempo fa sul Washington Times Phelim Kine, ricercatore di Huma Rights Watch Asia, il problema non è tanto l’assenza di norme valide quanto piuttosto la mancata applicazione delle stesse. Alcuni aspetti culturali paiono contribuire alle crescenti pressioni sociali, vero fattore scatenante della guolaosi. Indiziato numero uno: l’esaltazione degli interessi collettivi rispetto alle esigenze individuali, come prescritto dalla tradizione confuciana prima e da quella comunista poi. In questo frangente, l’onere dell’assistenza ai familiari (la “pietà filiale” confuciana) pesa più che mai sulle spalle (e sui portafogli) dei nati sotto la politica del figlio unico. Un trend confermato dalla giovane età delle vittime.
A ciò si aggiungono gli obblighi professionali e pseudo-professionali, come il rituale del “dopolavoro”, quell’intensa attività mondana complementare alle classiche mansioni d’ufficio. In Anxious Wealth: Money and Morality Among China’s New Rich, l’antropologo John Osburg descrive efficacemente la pressione a cui sono soggetti gli imprenditori cinesi, costantemente sballottati tra nightclub e case da tè, location ideale per intessere le preziose relazioni interpersonali chiamate guanxi. Un modus vivendi che prima di costare la pelle è all’origine di tutta una serie di abitudini poco sane. “Non riesco a smettere o a rallentare. Ci sono molte persone che contano su di me per mangiare. I loro mezzi di sussistenza dipendono dal mio successo. Devo andare avanti”, spiega a Osburg un businessman di Chengdu finito in ospedale dopo l’ennesima riunione alcolica.
Nel rituale del dopolavoro si riflette la pressione a cui sono soggetti gli imprenditori cinesi, costantemente sballottati tra nightclub e case da tè, location ideale per intessere le preziose relazioni interpersonali chiamate guanxi.
A confermare la matrice “culturale” del karoshi/guolaosi il fatto che negli Stati Uniti – dove esistono formule di prevenzione e consulenza telefonica come gli Employee Assistance Programmes – il fenomeno è quasi sconosciuto, nonostante secondo l’Organisation for Economic Co-operation and Development, gli americani lavorino in media in più dei giapponesi e muoiano prevalentemente per malattie cardiovascolari, attribuibili a ritmi di vita troppo sedentari. Questo perché, come spiega Matthew Reiss in American Karoshi, “se in Giappone un ‘salary man’ viene trovato riverso sulla tastiera, i sopravvissuti si affrettano a chiedere un’indagine per appurare se la morte sia stata causata dal troppo lavoro, e nel caso si affrettano a chiedere lauti indennizzi. A New York un caso simile verrebbe rapidamente chiuso dai medici legali come insufficienza cardiaca”.
Oltre la Grande Muraglia, il fenomeno – definito dall’ong China Labour Bullettin “nuovo” nel 2006 – ottiene ormai una sempre maggiore visibilità mediatica. Ma “la Cina è ancora un’economia in espansione, e la gente continua ad attenersi all’ethos del duro lavoro”, spiega ai microfoni di Bloomberg Jeff Kingston, direttore degli Studi asiatici presso la Temple University di Tokyo, “non hanno ancora raggiunto ‘l’affluenza’ (neologismo coniato da James Oliver unendo le parole affluence, ovvero abbondanza, opulenza, e influenza, ndr) che ha portato il Giappone a mettere in discussione norme e valori”.
Questo è vero soprattutto quando si guarda al comparto dei servizi. Stando al sito di reclutamento zhaopin.com, circa due terzi dei 1200 colletti bianchi intervistati afferma di fare oltre cinque ore di straordinari alla settimana. Statistiche riprese dalla stampa internazionale citano tra gli ambiti più vessati media, pubblicità, sanità e soprattutto IT, settore in cui il 98,8 per cento degli impiegati riporta patologie collegate al forte stress.