A lcuni anni fa a Tiraspol incontrai una ragazza ebrea di Kiev che lavorava a Praga per una ONG. Tiraspol è la capitale della Transnistria, una regione russofona della Moldavia che si è resa indipendente ma che non è riconosciuta da nessuno. Eravamo al ristorante “Mafia”, un ampio locale di cucina italiana e sushi che sull’insegna riportava una coppia di pistole, e ben simboleggiava a modo suo l’economia di una regione che rimaneva autonoma grazie a un groviglio di interessi della mafia russa, di alcuni oligarchi locali e degli aiuti giunti sottobanco da Mosca. Nadia, così si chiamava, era lì per un progetto con un’associazione culturale di Tiraspol, un’associazione di giovani che organizzava concerti e tornei di giochi di ruolo, malvista dalle autorità per il solo fatto di “importare cultura europea e straniera”. I fatti di Odessa – la strage perpetrata da gruppi neofascisti in cui morirono cinquanta persone di etnia russa – erano avvenuti da poco, e quando le raccontai di come nella stampa occidentale si parlasse insistentemente dei “fascisti di Kiev” lei, ebrea, insorse. E senza giustificare i nazionalisti ucraini, mi disse in modo molto accalorato che a Kiev c’era una generazione di persone, per lo più giovani, che erano tutto meno che fasciste e che guardavano all’Europa, come avevano fatto già altre nazioni dell’ex blocco sovietico, come la Repubblica Ceca. Dal suo punto di vista frasi come “i fascisti di Kiev” erano il prodotto della propaganda putianiana.
Questa storia mi è tornata subito alla mente all’indomani dell’invasione russa in Ucraina di fine febbraio, quando un certo tipo di narrazione, galvanizzata dall’emozione del momento, tendeva a polarizzare le posizioni in campo: l’Occidente contro la Russia autocratica, secondo il coro quasi univoco dei media italiani, i resistenti del Donbass contro i battaglioni ucraini filonazisti secondo una parte dello schieramento antimperialista. Come sempre le cose sono più complesse e se è vero che il regime putiniano, che ha supportato le destre di mezzo mondo da Trump a Salvini, mentre in casa reprime le voci di dissenso della politica e del giornalismo, non può certo essere preso come un baluardo antifascista, è pur vero che lo scontro geopolitico che lo vede protagonista assieme alla NATO soffia sul fuoco di quel mosaico di popoli di cui i paesi limitrofi alla Russia sono composti, un’eredità della storia e delle politiche sovietiche che non può essere derubricata a semplice pretesto dei governi, perché ha a che vedere col senso di identità dei singoli.
La Transnistria, da questo punto di vista, è un caso esemplare. Questo lembo di terra al confine con l’Ucraina è stato nel tempo oggetto di divertita curiosità da parte dei viaggiatori e dei giornalisti occidentali, per il suo essere uno stato non riconosciuto e per il fatto di aver conservato la simbologia e la nomenclatura comunista. Oggi, però, quei sentimenti sono mutati: si teme che la spaccatura tra mondo filorusso e mondo occidentale possa radicalizzarsi anche qui, trasformando la Transnistria in un ulteriore focolaio di instabilità. Quello che è certo, per ora, è che una quota importante di rifugiati ucraini che si sono riversati in Moldavia stanno passando proprio per Tiraspol; d’altronde nonostante il russo sia sostanzialmente la lingua ufficiale della Transnistria, l’ucraino è la seconda lingua più diffusa, parlata da oltre un terzo della popolazione che ha origini e parenti nelle zone limitrofe governate da Kiev.
La Transnistria, va detto chiaramente, non è il Donbass e sovrapporre le parabole politiche di queste regioni e delle loro aspirazioni all’indipendenza può essere fuorviante. Ci sono però diversi aspetti in comune, che creano un intreccio di questioni, come la componente russofona, il senso di appartenenza alla sfera culturale russa in nome del comune passato sovietico, i finanziamenti di Mosca che sostengono queste realtà come anche l’Abcasia e l’Ossezia del Sud in territorio georgiano, il mancato riconoscimento a livello internazionale, la dimensione opaca dei traffici economici che hanno fatto parlare alcuni osservatori internazionali di “stati mafiosi” o comunque profondamente lontani dalle regole del commercio e dell’economia internazionale.
Se è vero che il regime putiniano non può certo essere preso come un baluardo antifascista, è pur vero che lo scontro geopolitico che lo vede protagonista assieme alla NATO soffia sul fuoco di quel mosaico di popoli di cui i paesi limitrofi alla Russia sono composti.
Provo allora a tornare a quel viaggio del dicembre del 2016 per cercare di capire alcune cose di quel mosaico di identità e di aspirazioni. Un viaggio che ha toccato soprattutto la sfera culturale, di cui mi occupo. Un pezzo di mondo che ben rappresenta il modo di vedere della parte più giovane della popolazione. E anche se, con l’evoluzione del conflitto, il racconto potrà sembrare lontano dalle questioni di questi giorni, in realtà fotografa un momento particolare in cui prendevano forma alcune questioni legate al futuro della Transnistria e della vicina Ucraina: l’annessione della Crimea e la guerra separatista in Donbass erano fatti recenti, vecchi di appena due anni, mentre proprio in quelle settimane in Moldavia e in Transnistria si votava per i rispettivi nuovi presidenti, con candidati che facevano un grande ricorso alle retoriche del passato, alla comune identità con la Russia, per supportare la loro candidatura. La prima e più importante annotazione che va fatta su questo viaggio, tuttavia, è di tipo geografico, perché ha coperto una distanza piuttosto contenuta, circa 180 chilometri che, percorsi in macchina, richiedono poco meno di quattro ore, fatte salve le necessità burocratiche. Che non sono poche. Perché per andare da Chișinău a Tiraspol e poi da Tiraspol a Odessa – che è il tragitto che ho compiuto in quei giorni – si passano ben due frontiere, quella non ufficiale tra Moldavia e Transnistria, e quella ufficiale tra Transnistria e Ucraina, toccando non due ma tre paesi. Tre paesi che hanno tre bandiere diverse, tre diverse autorità di frontiera, tre passaporti distinti e tre valute con cui pagare i visti, quando servono: il leu moldavo, la grivnia ucraina e il rublo transnistriano. È paradossale, se pensiamo che la Transnistria è appena una striscia di terra che si estende lungo il confine orientale tra i due paesi, una regione dove vive una popolazione di appena mezzo milione di persone. Lo è meno, tuttavia, se pensiamo che la vicenda dell’indipendenza transnistriana parte nel 1990, cioè prima ancora della dissoluzione dell’URSS.
Per andare a Tiraspol occorre partire da Chișinău, capitale di uno degli stati più poveri d’Europa, ma anche centro della scena culturale del paese. Quando arrivo, la Moldavia è alle prese con le elezioni presidenziali che vedranno l’affermazione di Igor Dodon, il candidato filorusso, contro la sfidante Maia Sandu, sostenuta da una lista filoeuropea (che oggi, a partire dal 2020, ricopre proprio quella carica). Nonostante il popolo moldavo si senta assai vicino, per cultura, lingua e geografia alla vicina Romania, stato membro dell’Unione europea, questa spaccatura tra chi guarda a est e chi guarda a ovest è più profonda di quello che si pensi. Questa è una terra a cavallo tra due mondi, una caratteristica che si può vedere inscritta persino nell’architettura e nella toponomastica della città. Se si accede al centro città da sud, si viene accolti da un palazzo brutalista che ancora oggi ospita una delle principali strutture ricettive della città, il Cosmos Hotel. Il nome – che rimanda all’epopea delle esplorazioni spaziali sovietiche – non è il solo richiamo all’epoca comunista, perché l’albergo mantiene intatti gli arredamenti di allora; gli oggetti che non servono più, come le televisioni in legno con tubo catodico, fanno bella mostra di sé in un allestimento a forma di piramide posizionato nell’androne. Andando verso il parco centrale si incrocia una delle arterie più importanti della città, intitolata a Puškin, e la statua di Stefano il grande, il condottiero moldavo che combatté i turchi nel Quattrocento e fu nominato “campione della fede” da papa Sisto IV. La grande bandiera moldava, identica a quella rumena nei colori, che sventola in centro come un fiume colorato, ricorda che questo pezzo di identità è ancora forte e c’è perfino chi vorrebbe un ricongiungimento con Bucarest, quasi a rifondare la Grande Romania. È la posizione esplicita di un uomo che incontro nel museo cittadino che si trova nella Torre dell’Acqua, un’elegante costruzione ottocentesca utilizzata un tempo come cisterna che si trova davanti al lago Valea Morilor. È un uomo che ha passato la cinquantina, vive in Romania ma è originario di Chișinău. L’identità romena è per lui importante oggi più di ieri, perché – mi spiega – è qui che passano i confini d’Europa. La Romania, un tempo, è stata l’argine europeo contro gli ottomani (lui utilizza la parola “musulmani”, e mi pare di capire che ai suoi occhi esiste un parallelismo tra quell’espansionismo e l’estremismo islamico di oggi) e lo sarà ancora in futuro.
Scendendo verso il parco Valea Morilor, e verso il lago – uno specchio d’acqua ampio e scuro, parzialmente ghicciato per via del freddo – trovo delle scritte in inglese di tutt’altro tenore: “Save Donbass from ukraine army”. La spaccatura tra chi guarda a est e chi a ovest si riverbera in scritte come questa, ma anche nei monumenti: accanto alle architetture sovietiche e al grande memoriale della “grande guerra patriottica” (locuzione con cui l’Unione Sovietica indicava la seconda guerra mondiale e la lotta contro l’invasione nazista) dove campeggia la fiamma eterna, oggi esiste anche un “monumento alle vittime delle deportazioni staliniste”, che ricorda i trasferimenti forzati in Siberia che interessarono l’antica Bessarabia, oggi Moldavia, per tutti gli anni Quaranta. Inaugurato nel 2013, è costituito da un gruppo di figure sofferenti che, tutte assieme, ricordano la forma di un treno. Basta dare un’occhiata ai commenti su internet, nei siti che riportano i luoghi di interesse cittadino, per capire che i toni – entusiastici o di disprezzo – hanno a che vedere con le rispettive posizioni politiche più che con un giudizio estetico.
Per le vie del centro, tra vecchi negozi e qualche ristorante alla moda, spuntano anche alcuni locali dove si suona, dall’arredamento un po’ hipster, frequentati da una clientela giovane. È in alcuni di questi posti che incontro e chiacchiero con ragazzi e ragazze della scena artistica e culturale moldava. Tra questi c’è Vitalie Sprinceana, che conduce progetti con un’associazione di giovani artisti chiamata Oberliht. Mi racconta di un complesso intreccio di scena indipendente, attivismo sociale, network femministi e programmi di recupero urbano, un intreccio che mescola temi artistici con la questione della cittadinanza. Una delle attività in cui lui e i suoi compagni sono impegnati riguarda la difesa del patrimonio architettonico dell’epoca sovietica. “Ci sono molti tentativi di demolizione e speculazione, con le nostre campagne cerchiamo di proporre un modello diverso, di recupero e riutilizzo”, mi spiega. “Il caso più famoso è il caso di Guguţă, una caffetteria che si trova nel parco centrale di Chișinău. Un investitore molto riccò aveva comprato l’area per demolirla e costruire un hotel moderno. Ci siamo opposti. È successo anche con il Cinema Gaudeamus, che doveva essere demolito per costruire appartamenti”.
Il motivo per cui si abbatte questo patrimonio è duplice: da un lato fare soldi, dall’altro c’è la retorica che considera tutto ciò che appartiene al passato sovietico come qualcosa che va cancellato. “E invece ci sono delle funzioni da salvare”, mi spiega Vitalie. “Perché molti di quegli edifici avevano una matrice culturale. Ad esempio, durante l’epoca sovietica esisteva un grande circuito di cinema che, in seguito, ha smesso di funzionare. Oggi a Chișinău ci sono poche sale cinematografiche, e quasi nessuna di quelle esistenti proietta film indipendenti. Questi spazi, già pensati per la cultura, possono essere riadattati in questo senso”.
Se si parla di cultura indipendente a Chișinău non si può non passare dal Teatru Spălătorie, vero cuore pulsante della scena indie della città (almeno in quegli anni, perché ad oggi le attività risultano cessate). Nora, la ragazza con cui parlo, è tra i fondatori del progetto. Quando le chiedo di raccontarmi com’è fatta la loro sala teatrale la descrive come un seminterrato scuro, dove a volte fa molto freddo, ma che ha la dimensione perfetta per fare il teatro che vogliono fare. Di che teatro si tratta? “Di un teatro che è in grado di dare risposte al presente, a quello che accade nel nostro paese e nel mondo. Un teatro in grado di esercitare una visione critica”. Nora mi spiega che il teatro nazionale non ha una strategia né una visione culturale, mette assieme gli eventi che richiamano maggior pubblico. Va bene per l’intrattenimento – e infatti una parte del pubblico di Spălătorie segue anche quella programmazione – ma per fare un teatro che parli del presente occorrono spazi indipendenti. “Spălătorie”, mi spiega, vuol dire “lavanderia”, un nome scelto per due motivi: da un lato lo spazio, prima di essere un teatro, era una effettivamente una lavanderia; dall’altro perché volevano ironizzare sui nomi altisonanti degli spazi ufficiali. Ironizzare sulle forme pompose della cultura ufficiale, ma anche fare autoironia, non prendersi troppo sul serio.
Tra gli spettacoli che Spalatorie ha realizzato ce n’è uno dedicato al conflitto in Ucraina, la guerra del Donbass. È stato realizzato a Berlino grazie a una commissione tedesca incentrata sul libro di Peter Weiss Estetica della rivolta. “Lo spettacolo racconta della vita quotidiana delle persone durante il conflitto”, spiega Nora. “Ci siamo concentrati su quello, sulla vita di tutti i giorni. Per provare a raccontare come si resiste alla ferocia dei tempi. Siamo partiti dal lavoro di un artista visuale ucraino che ha elaborato domande molto dirette sullo stato di guerra: hai l’elettricità o no? Come stai vivendo in questo momento? Questa cosa è stata fatta dall’esercito ucraino o dalle forze indipendentiste? Cose così. Le abbiamo trasformate in dialoghi, anche molto ripetitivi, volutamente, per mettere in evidenza le questioni basilari della vita sotto la guerra”.
Il Teatro Spălătorie ha realizzato anche uno spettacolo sulla Transnistria. Per quanto l’indipendenza della regione sembra essere ormai vissuta come un dato di fatto, c’è comunque una questione che rimane aperta, quella tra chi guarda a est e chi guarda a ovest per il futuro del Paese. La Transnistria, con la sua sola esistenza, è un monito che richiama la questione. “Anche in questo caso abbiamo usato delle interviste. Una riportava l’esperienza di una rifugiata che era scappata da lì, un’altra il punto di vista di un autista che aveva preso parte al conflitto dalla parte di Tiraspol. Volevamo riportare prospettive diverse. E questo non perché non volessimo prendere posizione, ma perché riteniamo che ampliare i punti di vista è il modo migliore per capire le cose e raccontare l’impatto che hanno i fatti storici e politici sulla vita della gente”. Quando le chiedo cosa pensino le generazioni più giovani dell’indipendenza della Transnistria, lei mi dice che non sa rispondere per gli altri, ma può parlare per sé. “Io non so nemmeno cosa significhi, oggi, sentirsi parte di una nazione. Ci si può legare profondamente a un posto; da questo punto di vista posso dire che la mia patria è Chișinău, la mia città. Per il resto non saprei rispondere. Per stare assieme occorre sentirsi parte di una stessa comunità e credo che molta gente, in Transnistria, non si senta parte della nostra comunità. Quindi, se per loro essere indipendenti è una strada irrinunciabile, sarebbe bene che lo fossero. Ma credo anche che su questioni come l’identità la gente venga costantemente manipolata”.
Il fatto che Nora si senta legata alla propria città, prima ancora che alla Moldavia, apre un’altra questione importante, che nelle elezioni presidenziali che hanno portato Igor Dodon alla vittoria nel 2016 ha giocato un ruolo: la spaccatura tra città e zone rurali. È facile credere che un paese come la Moldavia guardi all’Europa in modo compatto se lo si osserva soltanto dal punto di vista della capitale, dove progetti culturali e di sviluppo prendono piede anche grazie ai finanziamenti europei e i locali sono intrisi di atmosfera cosmopolita. In campagna le cose vanno diversamente e molta gente si sente maggiormente rassicurata dai discorsi di Dodon, che richiamano un passato sovietico che qualcuno vagheggia con nostalgia. “Nei villaggi prevale la convinzione che si stesse meglio durante l’URSS. Si viveva in povertà anche allora, a dire il vero, ma il livello base di sussistenza era garantito a tutti, tutti avevano lavoro e c’erano anche momenti di intrattenimento e cultura come il cinema. Oggi chi vive nei villaggi si sente abbandonato, lontano da tutto, non capisce un sistema dove puoi perdere il lavoro e non vede prospettive future”. C’è poi da considerare il fatto che la presenza di persone di origine russa o ucraina, nelle campagne, è maggiore; e questo spiega perché questo divario si approfondisca sempre di più.
In Transnistria c’è una polarizzazione poco familiare allo sguardo di un occidentale: la “sinistra” è essenzialmente conservatrice; la “destra” liberale, invece, è filoeuropea e più aperta sulle questioni dei diritti civili, anche se in modo timido e strumentale.
A guardare all’Europa sono soprattutto i giovani, gli artisti e i ceti urbani che hanno uno stile di vita cosmopolita. Questo produce una polarizzazione poco familiare allo sguardo di un occidentale: la “sinistra” è essenzialmente conservatrice, si richiama al passato, fa discorsi contro l’integrazione europea e condanna la libertà di esprimere il proprio orientamento sessuale che c’è in Occidente, avversando fortemente la comunità lgbt. La “destra” liberale, invece, è filoeuropea e più aperta sulle questioni dei diritti civili, anche se in modo timido e strumentale. Anche Ramir, un fotografo originario della Transnistria che vive e lavora a Chișinău, mi conferma questa polarizzazione, che esiste anche nella sua terra d’origine. “Una sinistra pro Europa semplicemente non esiste”, mi spiega. Ramir è nato a Ribniţa, sul confine con l’Ucraina. Di mestiere fa il fotografo e, da quello che mi racconta, ha scelto di lavorare a Chișinău perché la situazione è più “sicura”. “La gente vede la Transnistria come una cosa divertente – spiega – uno stato autonomo che ha ancora un soviet e le statue di Lenin in piazza. Ma io la vivo come una situazione difficile, perché avrei voluto restare a vivere lì, ma non ho opportunità di farlo. Ribniţa, la città da dove provengo, è un posto bellissimo, multietnico, ricco di storia, potrebbe avere una vita culturale interessante. Sarei molto contento di condurre ricerche antropologiche lì, ma purtroppo non è un posto sicuro. È un posto senza regole: se un poliziotto vuole farti qualcosa, la fa e basta. Ti porta al commissariato e vieni picchiato senza una ragione. Ci sono molti casi di questo tipo”.
Ramir prosegue spiegando che lui si sente distante dai proclami nazionalistici. C’è chi rivendica l’indipendenza, chi vorrebbe unirsi alla Moldavia e chi – la maggioranza – all’Ucraina. “Sono cose che per me hanno poco senso. Io vorrei semplicemente vivere a casa mia, ma mancano le opportunità per lavorare in questo campo. In Transnistria la realtà è come congelata, ferma nel tempo”. Ramir nelle sue foto racconta il mondo post-sovietico, proprio per questo è dispiaciuto di non lavorare in Transnistria, anche se cerca di tornare appena può. Al momento del nostro incontro utilizza soltanto il mezzo fotografico, mi dice, ma vorrebbe fare un progetto raccogliendo i VHS degli anni Novanta, ricordi, video autoprodotti, filmini familiari. “Vorrei raccogliere l’atmosfera di quegli anni. Anche adesso, come allora, si ha l’impressione di non capire il presente e di non riuscire a decifrare il futuro, ma gli anni Novanta sono stati probabilmente l’apice di questo sentimento collettivo. In pratica non c’era uno stato: lo chiamavano stato indipendente, ma nessuno si occupava della popolazione in concreto, c’erano solo traffici mafiosi e interessi dei più potenti. Mio padre, che si occupava di commercio, è dovuto andarsene in America”. La nostalgia per il periodo sovietico è una cosa complicata da raccontare, ha a che vedere col senso di identità e di sicurezza sociale, ma ovviamente il Soviet di Tiraspol di oggi non c’entra nulla con quella realtà idealizzata. “Oggi il socialismo è vissuto come nostalgia, come una forma di conservazione. È paradossale, perché dovrebbe guardare al progresso. In Moldavia Dodon fa la stessa cosa”, mi dice.
Ramir, come molta gente nata in Transnistria, non ha difficoltà a ottenere un passaporto riconosciuto (nel suo caso quello moldavo). Basta uscire dal paese e registrarsi. D’altronde in una terra dove ci sono almeno tre lingue – il russo, il moldavo, l’ucraino – e tutti hanno parenti altrove, non è difficile trovare un filo che ti leghi, anche ufficialmente, ad un’altra realtà. “Mia madre, ad esempio, è ucraina e parla ucraino con le sue sorelle. In società, però, parla russo, che è ancora la lingua franca per tutti. È quella che hanno studiato a scuola. Per questo c’è chi vorrebbe riunirsi alla Russia”. All’inizio le istanze di riunificazione guardavano all’Ucraina filorussa, ma dal 2014, con le proteste di Euromaidan e il cambio di regime, la questione ha assunto sfumature diverse. Resta però la comunanza culturale della popolazione, di origine ucraina per oltre un terzo, e il fatto che il polo culturale e internazionale a cui la Transnistria guarda è la città di Odessa.
E allora in che cosa si identificano i cittadini della Transnistria? “In nulla”, risponde. “È un problema comune delle nazioni postsovietiche e, in un certo senso è connesso al senso di sfiducia che attraversa anche il mondo occidentale. Noi non riusciamo a capire il nostro presente, l’Occidente non riesce a capire il proprio futuro. L’identità, comunque, è un falso problema: quello che occorre capire è se ci apriremo al futuro o resteremo chiusi nel passato”. Quella striscia di terra stretta e lunga, che conta appena mezzo milione di abitanti, è quindi un rebus etnico davvero complesso. Per questo, quando chiedo come vede il futuro del suo Paese, Ramir scuote le spalle e mi dice: “Non saprei dirti. È molto difficile. Mi viene da risponderti che preferisco non attaccarmi troppo alla mia terra per immaginare un futuro, anche se è lì che vorrei vivere. Non credo si potrà restare indipendenti per sempre, prima o poi qualcosa accadrà”.
Per raggiungere Tiraspol basta percorrere un’ottantina di chilometri verso est, prendendo una marshrutka, un servizio di taxi collettivo effettuato con piccoli bus. Ma appena passato il fiume Dnestr – Nistro, in italiano – occorre fermarsi per un controllo passaporti. Il nome Transnistria significa proprio “oltre il Dnestr”, che è il confine naturale di questa regione. Il controllo avviene abbastanza rapidamente e senza lasciare alcun timbro sul documento, forse una prassi per evitare problemi, visto che stiamo per entrare in un paese non riconosciuto. Cominciano a circolare tra le mani rubli della Transnistria, la valuta dello stato che, ufficialmente, si chiama Repubblica Moldava di Pridniestrov (Pridnestrovie è il nome russo della Transnistria). A parte l’assonanza con la moneta russa, le banconote non sembrano richiamarsi al passato sovietico. Lo fanno invece le monete, le copeche, come scoprirò più avanti, che riproducono lo stemma del soviet locale con tanto di falce e martello. Non appena entriamo a Tiraspol comincia a nevicare. I cartelloni pubblicitari sono invasi dalle facce dei politici locali, che si stanno sfidando per le presidenziali proprio come in Moldavia.
Il 16 dicembre Vadim Krasnosel’skij verrà eletto come terzo presidente della Transnistria (è tuttora in carica). Fa parte del partito Obnovlenie, “Rinnovamento”, di impostazione nazionalista e liberale. Già, perché anche se formalmente siamo in uno stato socialista, di fatto la Transnistria conta diversi partiti e le ultime amministrazioni si sono mosse seguendo politiche tutt’altro che “di sinistra”. Anzi, il partito comunista dal 2020 è totalmente fuori dal parlamento transnistriano e, secondo alcuni giornalisti che seguono la politica locale, i suoi esponenti subiscono pressioni e intimidazioni. Di fatto, in quello che è stato definito come “l’ultimo paese comunista d’Europa”, la vita politica è stata per molto tempo in mano a una sola persona, Igor Smirnov, primo presidente del paese che restò in carica vent’anni, già a capo del soviet locale prima del crollo dell’URSS, un uomo che per il suo fare sbrigativo si è conquistato il soprannome di “sceriffo”.
Sheriff, per altro, è anche il nome della holding che detiene in pratica il monopolio di tutta l’economia del paese, fondata nel 1993 da due ex agenti del KGB. Possiede anche una televisione e la squadra di calcio locale, la Sheriff F. C., che gioca nel campionato moldavo vincendo quasi sempre il campionato e che, nel 2021, ha persino battuto il Real Madrid in casa al Bernabeu – cosa abbastanza paradossale, poiché la squadra milita nel campionato di uno stato che in teoria non riconosce nemmeno, pur giocando in Champions League in nome della Moldavia. Il vero nodo gordiano della vita politica del paese è tutto qui: la Sheriff ha sostenuto l’indipendenza del paese e ha intrecci profondissimi con i partiti che lo amministrano al di là degli schieramenti (il partito di maggioranza, dall’epoca di Smirnov a quella di Krasnosel’skij, è cambiato). Si dice che la società sia di fatto controllata dallo stesso Smirnov e dalla sua famiglia (suo figlio siede nel consiglio di amministrazione). Ma l’intreccio tra affari e politica è soltanto un aspetto della questione. L’altro è l’influenza che secondo alcuni osservatori la mafia russa avrebbe avuto per molto tempo nel paese, di fatto privo di controllo internazionale, e il sostegno che Mosca fornisce al piccolo stato.
Tiraspol è la seconda città della Moldavia, per popolazione, e si snoda lungo un paio di arterie principali e sulla riva del Dnestr, costeggiata da un parco che d’inverno risulta parecchio desolato. Anche se in centro si trovano locali che si rifanno a diversi stili – una hamburgeria americana, una sala da tè in stile russo, un ristorante di lusso un po’ pacchiano – l’edilizia cittadina rimanda in gran parte all’epoca sovietica. Sulla Casa dei Soviet, bianca e austera, svetta un pinnacolo con in cima una stella dorata a cinque punte, circondata d’alloro. Una statua equestre di Suvorov ricorda il fondatore della città, generalissimo russo del XVIII secolo, mentre nel mezzo del parco della vittoria si erge una statua dedicata a Kotovsky, personaggio mitico dell’epopea sovietica nato in Bessarabia, passato dall’essere rapinatore di banche a condottiero bolscevico in lotta contro i bianchi durante la guerra civile. Ma tra tutto spicca certamente il Soviet supremo, il cuore politico del Paese, un complesso di tre palazzi davanti al quale svetta una statua di Lenin in pietra rossiccia, con il cappotto gonfiato dal vento come se si trattasse del mantello di supereroe. La statua del padre della rivoluzione è la principale attrattiva turistica della città, ma non è il suo monumento più singolare. Questo titolo spetta a un carro armato posizionato accanto a una cappella ortodossa, posto su un piedistallo inclinato che gli conferisce un’idea di movimento, come accade per i cavalli rampanti. Risale ai tempi dell’indipendenza, un processo nato dallo sgretolamento dell’URSS che ebbe il suo apice in uno scontro armato.
Le date le ricorda il memoriale che si trova di fronte al monumento, dove sono sepolti i combattenti transnistriani: 1990-1992. La prima data corrisponde alla dichiarazione di indipendenza della Transnistria, avvenuta il 2 settembre 1990. L’Unione sovietica non era ancora crollata, ma gli avvenimenti epocali che si erano succeduti, dal crollo del muro di Berlino all’esecuzione di Ceaușescu, avevano instillato l’idea che presto la Moldavia si sarebbe riunificata alla Romania. Una prospettiva che spaventava la popolazione russofona, che temeva di essere tagliata fuori dalla vita sociale del Paese (avvenne lo stesso con la Gagauzia, che si proclamò indipendente e poi ottenne una rilevante autonomia). Nel 1992 si arrivò allo scontro a fuoco tra una Moldavia da poco indipendente e senza un esercito moderno, e una Transnistria aiutata da volontari ucraini e russi, supportata anche da reparti dell’esercito di Mosca anche se, formalmente, la Russia era rimasta neutrale. Si arrivò ad un cessate il fuoco che sancì l’indipendenza de facto di Tiraspol, che dura tuttora.
Il posto che sono venuto a visitare, tuttavia, non ha a che fare con i cimeli del passato, ma con la Transnistria di oggi e con le generazioni più giovani. Si chiama Club 19, uno spazio situato in centro città, dall’ingresso un po’ nascosto, che funziona in parte da centro culturale e in parte da luogo di aggregazione sui temi dell’attivismo democratico. È stato aperto nel 2012 grazie al sostegno di alcune ONG europee – e già questo, in uno stato come la Transnistria, è motivo di diffidenza, come mi spiegano Alexandra e Evgenij, due degli animatori del Club 19. Lo spazio, sobrio e accogliente, è arredato con elementi da riciclo, in gran parte bancali di legno riconvertiti per creare panche e banconi, oltre al palco per le esibizioni live – tutte cose realizzare grazie alla collaborazione con un gruppo di architetti locali. In fondo al locale c’è un vecchio divano d’epoca sovietica. Ci sediamo lì a chiacchierare di come è partito tutto quanto.
“Il grosso delle attività più ludiche, come i concerti e i tornei di giochi da tavolo, sono dedicati agli adolescenti”, mi racconta Evgenij. “E ci sono anche attività per i bambini. Ma gli eventi più importanti sono tre occasioni di dibattito che organizziamo durante l’anno, invitando relatori dall’estero: la Settimana dei diritti umani, la Settimana contro le discriminazioni e la Settimana per la libertà di espressione. Sono i temi più importanti su cui lavoriamo e si rivolgono soprattutto a un pubblico di fascia universitaria, tra i venti e i venticinque anni. Vorremmo coinvolgere anche la popolazione tra i trenta e i quaranta, ma è più difficile, sono in età lavorativa. La maggior parte delle persone, in Transinistra, non ha desiderio di partecipazione e si accontenta di guardare la TV. In larga parte le TV russe”.
“Nella nostra città mancano spazi di dibattito per questi temi”, mi spiega Alexandra. “Ci sono scuole, università, altri posti dove si possono organizzare approfondimenti, ma non sono così aperti. Per proporre qualcosa occorre rivolgersi alle autorità, che possono decidere se dare o meno spazio a quello di cui vuoi parlare. Nei fatti è una censura. Qui, al Club 19, non abbiamo censure: puoi venire e discutere di quello che vuoi, è un posto molto aperto”.
Sheriff è anche il nome della holding che detiene in pratica il monopolio di tutta l’economia della Transnistria, fondata nel 1993 da due ex agenti del KGB. Possiede anche una televisione e la squadra di calcio locale, la Sheriff F. C.
La censura di cui parlano Alexandra e Evgenij non assume necessariamente forme dirette, perché in un piccolo paese con poche opportunità basta escludere le persone dai luoghi di espressione. Mi fanno l’esempio paradossale di una band metal locale, i The Ward, che si sono ritrovati nell’impossibilità di suonare: chi gestisce le concert hall pubbliche definisce la musica metal un genere “dalle cattive influenze”, troppo legata alle mode occidentali, e non ha più permesso loro di esibirsi. Così, da un po’ di tempo, sono stati accolti al Club 19, che si è convertito in locale metal per l’occasione. Tuttavia si registrano anche casi di censura meno “folcloristici”, che avvengono per via burocratica. “Il Club 19 è nato grazie al supporto di una ONG ceca che organizza un festival del documentario dove si parla di diritti umani”, spiega Evgenij. “È poi arrivato il supporto del Civil Rights Defenders, una ONG svedese, e del Goethe Institut. Ma se ti occupi di temi come la democrazia e la libertà di espressione e, contestualmente, sei finanziato dall’estero, automaticamente vieni sospettato di essere un ‘agente straniero’”. Alexandra approfondisce la retorica che viene utilizzata contro chi conduce progetti internazionali: “Ti accusano di non essere davvero interessato ai diritti, perché sei pagato da qualcuno per farlo. Ovviamente è paradossale, perché in Transnistria non ci sono finanziatori per questo tipo di progetti. E questo non succede solo a noi, ma anche alle associazioni che si occupano, ad esempio, delle persone con disabilità”. Ma nel concreto cosa accade? Che le certificazioni, le relazioni da produrre, le incombenze burocratiche aumentano a dismisura. Fino a rendere la vita impossibile. Al momento non c’è una legislazione che definisce questo carico burocratico in modo chiaro, ma mi raccontano che in Bielorussia è stata approvata una legge in tal senso, che ha reso la vita impossibile alle organizzazioni più piccole. “Poiché la politica qui da noi non fa altro che copiare quello che succede a Mosca o nel mondo russofono, temiamo che anche qui possa presto avvenire qualcosa del genere”, aggiungono.
Mentre chiacchieriamo noto una scritta in russo che campeggia sul muro e gli chiedo di tradurmela. Evgenij prova a imbastire una traduzione in inglese che, in italiano, suona così: “Ogni uomo ha diritto alle proprie idee e a esprimerle liberamente. Ciò include il diritto di cercare, ottenere e diffondere informazioni e idee in ogni possibile canale, indipendentemente dai limiti posti dai governi”. Alexandra protesta, dicendo che dovrebbe tradurre “ogni persona”, non “ogni uomo”, perché è una forma sessista ed Evgenij, ridendo e dandole ragione, si giustifica dicendo che in russo letteralmente c’è scritto così. Ne approfitto per chiedere cosa pensano delle imminenti elezioni presidenziali. Sono piuttosto scettici, mi dicono, sul fatto che cambierà qualcosa. La politica in Transnistria è influenzata dagli affari e da un disinteresse profondo della popolazione, che si accontenta di guardare la tv senza prendere parte attiva nella vita del paese. Le generazioni più anziane vivono nel mito dell’Unione Sovietica e, anche se non è corretto dire che vorrebbero un ritorno a quel sistema, di certo non vogliono separarsi dalla Russia, da un mondo che sentono il loro. Se si potesse, mi spiegano, vorrebbero ricongiungersi alla Russia, con cui la Transnistria nemmeno confina; ma comunque sia esigono un paese che resti russofilo. D’altronde i colloqui con la Moldavia si sono diradati e altre prospettive non se ne vedono. Per questo motivo molta gente emigra. Evgenij, che su questo processo ha lavorato a lungo, spiega che i motivi per andarsene sono principalmente quelli legati alle opportunità: si va all’estero per formarsi in un modo che qui a Tiraspol è impossibile e poi si torna per lavorare, oppure non si torna più. La maggior parte delle persone più giovani che ha intervistato definivano la vita in Transnistria “noiosa”. Non è una dichiarazione da prendere sottogamba perché ha a che vedere con un senso di sfiducia nel futuro fortemente radicato, che non fa che esasperare la situazione: sempre più giovani che se ne vanno, sempre più persone che non partecipano alla vita politica.
Andarsene, d’altronde, non è difficile. Quasi tutti, qui, hanno due o tre passaporti, che possono ottenere grazie a qualche discendenza da parenti ucraini o rumeni. La stessa Alexandra mi racconta di averne ben tre, uno dei quali, necessariamente, è il passaporto transinistrano: “Senza documenti, qui, non puoi fare nulla. Servono per qualunque cosa, oppure non vivi. D’altronde fuori da qui non valgono nulla”. Sul futuro del paese Evgenij si dice scettico. Non intravede possibilità per un’evoluzione propriamente democratica e pensa che qualcosa potrebbe cambiare se ci fosse una pressione dell’Unione Europea sulla Moldavia per risolvere la questione transnistriana. Ma anche su questa possibilità è piuttosto tiepido. “Non cambierà niente per decenni se non cambia qualcosa in Russia”, mi dice. “La nostra politica dipende da cosa accade lì”.
Saluto i ragazzi del Club 19 e mi metto a girare per la città. Una ruota panoramica decadente, di metallo colorato ma segnato dal tempo, svetta un po’ triste tra gli alberi di un parco. Sono tanti i segni del passato che continuano ad emergere, accanto a una serie di attività – banche, locali, negozi di cambio importantissimi, perché il rublo transnistriano fuori di qui non vale nulla – che sembrano strizzare l’occhio al turbocapitalismo russo. Un mercatino delle pulci vende cimeli sovietici. Sulla strada che porta alla stazione c’è la fabbrica del Kvint, il cognac fatto a Tiraspol (tutta l’area ex sovietica ha una forte tradizione di brandy, dalla Russia all’Armenia). Passando da incontro a incontro, finisco al ristorante Mafia, da cui sono partito per raccontare questa storia. La mafia, una parola che a vederla brandizzata agli occhi di un italiano fa un effetto disturbante, è parte dell’immaginario: stampata sulle magliette, evocata dai giochi da tavolo (ce n’è uno anche al Club 19), si interseca con vecchi miti sovietici e nuovi miti legati al mondo spregiudicato degli oligarchi. A cena chiedo alle persone con cui mi vedo come posso sfruttare l’ultimo giorno che ho a disposizione in Transnistria per capire meglio lo stile di vita del paese. Andare in campagna? Visitare qualche luogo in particolare? Senza esitazione tutti mi dicono: vai a Odessa. Noi, quando abbiamo un po’ di tempo libero, andiamo lì.
E così mi ritrovo, senza averlo previsto, in viaggio per l’Ucraina. Da Tiraspol a Odessa sono circa cento chilometri, un viaggio che in marshrutka si fa in poco più di due ore, dogana compresa. Appena metto piede in città vengo accolto da un’atmosfera festosa, brulicante di gente, di apertura. È quasi sempre così quando si arriva da un posto dell’entroterra a una città di mare, ma non saprei descrivere la prima impressione che ho avuto della città di Isaak Babel’ se non come quella di un luogo esuberante. Durante il viaggio chiacchiero alla bell’e meglio con la gente, quasi tutti transnistriani che vivono a Odessa per scelta o per lavoro, tornati dai parenti o per qualche ragione burocratica. E quando arriviamo alla stazione, scendendo dalla marshrutka, mi ritrovo catapultato in un mercato di strada che si snoda lungo un viale all’italiana che punta verso il centro città. Al mercato si trova davvero di tutto: vestiti, poltrone, abiti nuovi e usati, giocattoli, chincaglierie, libri e persino una pistola con il silenziatore (non indago se vera o falsa). In città i preparativi per il Natale sono in corso, bancarelle di cibo e di oggetti natalizi invadono le piazze del centro, addobbate di luminarie. Odessa ha un’aria familiare e non potrebbe essere altrimenti, perché è stata costruita da architetti italiani alla fine del Settecento. Elegante e maestosa, si affaccia sul Mar Nero che, in questa giornata fredda e soleggiata, brilla lungo tutto il golfo. Il vento gelido e sferzante di dicembre non scoraggia le persone dal passeggiare lungo il porto e per il parco da cui parte l’imponente scalinata Potëmkin. Quando il sole comincia a calare e il freddo si fa più pungente mi unisco alla fila di persone che attendono di entrare al Teatro dell’Opera, che si trova in un bellissimo edificio circolare decorato in stile barocco italiano, uno dei simboli della città: sta per cominciare una rappresentazione del Barbiere di Siviglia.
Ritorno al presente e realizzo che l’immagine del Teatro nazionale di Odessa protetto dalle barricate fatte con i sacchi di sabbia è una delle immagini che più mi hanno colpito tra quelle dei primi giorni di guerra. Non tanto per la similitudine con una nota foto in bianco e nero del 1941 che circola sul web, una comparazione che rimanda all’invasione nazista e al tragico massacro di Odessa (quando furono sterminate decine di migliaia di ebrei); probabilmente quello che smuove la mia sensibilità è il fatto di essere stato in quel luogo non molto tempo fa. È una regola base del giornalismo, più una cosa è vicina e più interessa. La vicinanza può essere geografica, culturale, oppure dovuta a una frequentazione dei luoghi di cui si parla. Le masse, a quel punto, smettono di essere tali e ritornano ad essere un insieme di persone. È una delle critiche sollevate alla reazione occidentale alla guerra, un interesse “accorato” che è mancato in altre situazioni: Aleppo, in linea d’aria, non dista molto di più di Kiev dall’Italia, ma l’urbicidio che l’ha colpita ha suscitato molta meno indignazione. C’è però un altro fattore che concorre alla forte reazione alla guerra che sta attraversando l’Europa: la sensazione che sia qualcosa che sta avvenendo quasi a casa nostra – se consideriamo l’Ucraina parte dell’Europa possiamo persino togliere quel “quasi” – e che potrebbe dilagare verso di noi.
Questa ondata emozionale è stata alla base di un cortocircuito comunicativo che ha reso difficile articolare delle posizioni chiare, dando la sponda a derive russofobe (come l’annullamento, poi rimangiato, del corso su Dostoevskij di Paolo Nori alla Bicocca di Milano) e a un racconto mediatico particolarmente polarizzato. Se si tratta, come è stato sottolineato da più parti, di uno scontro tra due imperialismi, non ha senso da una prospettiva pacifista parteggiare per qualcuno. Ma nemmeno l’equidistanza sembra una posizione praticabile di fronte all’invasione di uno stato sovrano e a una popolazione sotto i bombardamenti, e questo anche al netto delle colpe ucraine e delle violazioni dei diritti umani nelle zone separatiste del Donbass. Il dibattito si è spinto in una zona confusa, dove quasi ogni posizione risulta scivolosa (è giusto armare gli ucraini? Dovremmo chiedergli di arrendersi? Putin è un dittatore che va avversato in tutti i modi? O ha anche le sue ragioni strategiche?). Una zona dove i distinguo, anche quelli più sensati, sono sospetti di ipocrisia agli occhi di chi la pensa diversamente, e dove certi automatismi del pensiero pro e contro la Russia o la NATO finiscono quasi sempre per mostrare il fianco.
Per chiudere il cerchio di questo racconto, allora, mi rimetto in contatto con Vitalie, l’attivista che ho incontrato cinque anni fa a Chișinău. Sociologo, attivo in varie organizzazioni, Vitalie è tra i volontari moldavi che si sono mobilitati al confine con l’Ucraina per dare supporto ai rifugiati che si stanno riversando nel suo paese. La Moldavia è molto più vicina del nostro Paese alla guerra e, per di più, non è né in Europa né nella NATO. Una posizione fragile, tanto che alcuni commentatori hanno lanciato il sospetto che la piccola repubblica, che una volta faceva parte dell’URSS, possa essere il prossimo obiettivo dell’espansionismo di Putin. Provo a farmi raccontare come stanno andando le cose lì, anche per capire se, da quella prospettiva, si riesce a chiarire meglio quello che nella narrazione nel dibattito occidentale risulta essere così scivoloso e ambiguo. “Da qualche giorno il numero di profughi è diminuito, ma fino al 9 marzo è stato costante e molto intenso”, mi racconta. “Insieme a molti altri attivisti ci siamo da subito coordinati per dare una mano sul confine. Ci siamo mossi autonomamente, lasciando da parte le varie organizzazioni per cui lavoriamo, per lavorare assieme con un modello già sperimentato con il COVID”.
La pace resta l’obiettivo principale, dice l’attivista moldavo Vitalie Sprinceana, ma occorre riempire questa parola con questioni sostanziali. “Quale pace saremo in grado di costruire? La pace non può rimanere un concetto generico”.
Vitalie pensa che il motivo del rallentamento degli arrivi abbia a che vedere con la situazione più calma, almeno al momento, nella regione di Odessa (quando parliamo è il 13 marzo, ndA) combinata con una situazione climatica molto rigida: si registrano fino a meno sette gradi. Le persone che stanno arrivando sono principalmente ucraine, ma anche di altri paesi del mondo, come le Filippine, da dove proviene un gruppo di persone impiegate in un’impresa marittima. Ci sono anche molti azeri, che passano per la Moldavia per tornare a casa, e anche diversi russi. La maggior parte delle persone che arrivano non hanno intenzione di restare, secondo Vitalie, ma di usare la Moldavia come zona di transito. Qualcuno si ferma perché ha parenti o conoscenti, cosa non rara visto che in epoca sovietica Ucraina e Moldavia erano parte di un’unica nazione. Alcuni sono diretti anche in Transnistria, a Tiraspol, a Ribniţa, a Bender, ovunque abbiano appoggi in una zona dove si parla russo e ucraino. Ma la maggior parte vengono accolti a Chișinău, dove ci sono più strutture adeguate.
“La situazione a livello umanitario è abbastanza buona, ma questo non vuol dire che non ci siano problemi importanti”, mi dice. “Ho l’impressione che certa stampa internazionale sia venuta sul confine pensando di vedere gente ferita, segni visibili della guerra, e che siano rimasti delusi. In questa fase stanno scappando soprattutto le persone che hanno appoggi e disponibilità economica, quindi in condizioni decenti. Ma se la situazione dovesse peggiorare si muoverebbero certamente anche quelle fasce di popolazione che sono già in condizioni difficili nel loro paese. Al momento il grosso dei migranti sono donne e bambini, i soggetti più fragili. E se consideri che circa i due terzi di queste persone vengono accolte da una rete informale – che non ha a che fare né con il governo né con le ONG – gente comune che ospita i profughi in case private, puoi capire come la situazione desti qualche preoccupazione. Non c’è monitoraggio, potrebbero verificarsi degli abusi, anche a carattere sessuale, non sappiamo cosa avvenga. Al momento la mobilitazione spontanea va bene, è anche la manifestazione di un’importante mobilitazione, ma non può essere la soluzione definitiva”.
Nel comune di Palanca, al confine sud con l’Ucraina, uno dei punti più vicini a Odessa, si è venuta a creare spontaneamente una sorta di stazione d’autobus da dove partono delle marshrutka per portare i profughi verso varie destinazioni. Col passare dei giorni si sono uniti a questo traffico spontaneo anche i mezzi di organizzazioni internazionali come l’Unicef e alcune realtà provenienti dalla Romania. “Molte persone sono disorientate, se non hanno parenti e conoscenti non sanno dove andare. In Germania? In Romania? Dipende dai soldi, dalle opportunità. E poi spesso hanno lasciato pezzi di famiglia in Ucraina; le donne, soprattutto, hanno lì i loro mariti che non possono espatriare. C’è il problema dei figli che dovrebbero proseguire con lo studio. Le cose quotidiane si sommano all’eccezionalità della situazione”, dice Vitalie.
Gli chiedo di raccontarmi qualche situazione che ha visto in prima persona. Mi descrive un’anziana signora imbacuccata nelle coperte con un handicap evidente che non le permetteva di salire su uno dei minibus in partenza per la capitale. Non ci sono mezzi attrezzati per le persone anziane e con disabilità. Nemmeno un’ambulanza chiamata sul posto è riuscita a risolvere la questione. È dovuta intervenire un’organizzazione di Chișinău che si occupa di disabilità e aveva a disposizione un mezzo adatto. “È l’unico che abbiamo”, hanno sottolineato, “purtroppo non possiamo fare di più”. Quello che spaventa ora gli attivisti è la possibile azione militare russa su Odessa, che da più parti viene descritta come imminente. Di fronte a un esodo massiccio, Vitalie ritiene che il sistema di accoglienza moldavo riuscirebbe a coprire solo una minima parte delle necessità. Parlando di come si immaginano l’evoluzione della crisi a Chișinău, tocco il tasto delicato del possibile allargamento del conflitto oltre i confini dell’Ucraina. La Moldavia potrebbe essere un obiettivo? Vitalie si prende un momento per rispondere e mi dice: “Io sono di sinistra e, come esercizio di pensiero, ho sempre ritenuto di dover riflettere bene sulla posizione di privilegio da cui parlo. Nello specifico questa posizione di privilegio è lo spazio europeo, un luogo dove ho sempre ritenuto che la guerra non sarebbe mai arrivata. I primi giorni lo spavento è stato fortissimo; il cambio di prospettiva che ne è scaturito, radicale. Da pacifista ti dico che non voglio imbracciare un fucile, non l’ho mai voluto e non lo voglio ora. Ma se la guerra ti circonda, devi anche cominciare a pensare a un piano B. Con altri attivisti ci siamo posti questa questione in modo improvviso e spiazzante: se succedesse anche a noi cosa dovremmo fare? Per ora non c’è risposta. Postponiamo il problema e ci preoccupiamo delle emergenze”.
La Moldavia è un paese neutrale, e Vitalie è convinto che si tratti dell’unica posizione possibile in questo momento. Non dispone nemmeno di una vera forza armata e se l’eventualità di un’invasione si verificasse davvero ci sarebbe poco da fare. Anche da parte della Transnistria c’è molta cautela. “Le autorità non hanno condannato la Russia, che sarebbe impossibile, ma hanno invocato la pace. D’altronde Tiraspol dipende fortemente dalle merci che arrivano da Odessa. Non possono fare passi falsi, devono mantenere buoni rapporti con chiunque ci sarà”. La guerra è sempre anche una questione economica e Vitalie ci tiene a sottolineare il cinismo con cui questo aspetto viene trattato. Si parla di sanzioni alla Russia, certo, ma il flusso di gas che arriva da lì in Europa – e da cui dipende anche la Moldavia – non ha accennato a ridursi. “L’altra mattina sono andato a pagare la bolletta e, prima di effettuare il pagamento, mi sono fermato a pensare: dovrei smettere di farlo? Non sto finanziando indirettamente la guerra di Putin?”.
Da pacifista, Vitalie dice di aver sofferto molto nel vedere le autorità ucraine armare la popolazione. Lui e altri suoi colleghi pensavano che il Paese sarebbe capitolato subito e invece è nata una resistenza molto forte. “Da un lato, capisci che stanno combattendo anche per te, per l’Europa. Dall’altro, ragioni sul fatto che quando le armi finiscono in mano ai civili la possibilità che il conflitto degeneri verso una guerra lunga e senza quartiere è concreto. E questo sarebbe terribile. Siamo preoccupati che si giunga a una situazione simile a quanto avvenuto in Siria, con molti abusi da tutte le parti, battaglioni che si muovono anche in modo indipendente, una situazione di abuso continuo e di disastro umanitario”. Vitalie dice che è difficile capire cosa sia meglio fare e questo sta aprendo un forte dibattito tra attivisti e pacifisti.
Gli racconto di come in Italia il discorso si sia polarizzato, con persone che vorrebbero inviare armi agli ucraini che intendono resistere all’esercito russo e altre che sottolineano la presenza, tra le fila ucraine, di gruppi neofascisti paramilitari. “Quello sul neofascismo è un discorso enorme”, mi dice. “È un problema che riguarda tutta l’Europa. C’è in Ucraina, ma c’è anche in Francia e in Germania, in Ungheria c’è Orban. E non sempre e non tutti sono esplicitamente fascisti, ma si richiamano a ideologie di estrema destra. Questo però non vuol dire che si debba bombardare l’Italia, o lasciarla bombardare, perché avete Salvini. Io credo che questo discorso sia una scusa. Ma se mi chiedi come bisogna posizionarsi, ti dico, con sofferenza, che non lo so. In Moldavia c’è gente di sinistra che pensa che l’azione della Russia sia in parte giustificabile, o almeno comprensibile, a causa dell’espansionismo della NATO verso est. Perché la Russia deve difendere i propri confini. Ma è una posizione molto problematica per me, perché poggia su una concezione imperialista secondo cui i confini di una potenza non coincidono con quelli dello Stato ma con le sue zone di influenza (in questo caso, l’Ucraina). E poi c’è da dire che se anche consideriamo la NATO come ‘il male’, questo non vuol dire automaticamente che la Russia sia ‘il bene’. Tutt’altro. Sono due imperialismi che si confrontano”.
La pace resta l’obiettivo principale, dice Vitalie, ma occorre riempire questa parola con questioni sostanziali. “Quale pace saremo in grado di costruire? La pace non può rimanere un concetto generico, è ovvio che la violenza deve cessare, ma occorre costruire una pace giusta per tutti, paritaria. Deve valere per le popolazioni in Donbass, che sono state usate retoricamente dalla Russia, e deve valere per l’Ucraina, una nazione anch’essa governata da oligarchi al pari del suo avversario”. Ma cosa può portare a questo tipo di pace? La resistenza degli ucraini o una loro resa, come dice qualcuno? Dare una risposta oggi per Vitalie è quasi impossibile. “Di certo mi preoccupano le narrazioni che si stanno adottando. Condanno la guerra della Russia, e sostengo il popolo ucraino, ma sono contro la russofobia che sta montando. C’è una grande retorica militarista da entrambe le parti, quella russa è sotto gli occhi di tutti, ma ho visto anche canali telegram ucraini dove si esaltano le azioni militari come se si trattasse di una competizione olimpica. Tutto questo è inaccettabile. Sono molto pessimista, temo che in futuro ci troveremo a fronteggiare un’esplosione di nazionalismo su tutti i fronti. Penso che occorra persistere il più possibile in una prospettiva internazionalista, ma credo anche che mantenersi strettamente coerenti ai principi più idealisti della sinistra sia oggi, in Moldavia, nella realtà delle cose, quasi impossibile”.